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Anche
la mucca ha il suo principio di interiorità. Esige una casa, l’ambiente
modesto e segreto dove l’inconscio vive»1.
L’ambiente modesto e segreto dove
l’inconscio vive: un modo interessante per parlare della casa, un luogo,
quasi insostituibile; la dimensione in cui anche la mucca ritrova se
stessa.
L’immagine curiosa, un po’
stravagante della mucca (che solo raramente, ispira versi eterni),
indica una necessità forte, di tutti gli esseri del cosmo: l’abitare.
Avere un cantuccio proprio, vuol dire trovare uno spazio in cui ci si
sente al proprio posto, in cui ritrovare l’orientamento (inteso come
trovare il centro). È lì che si esce dall’abituale alienazione a cui i
ritmi quotidiani ci costringono. Abitare la propria casa è come
indossare un vestito che calza bene e che ci fa sentire belli. Quando
non ci si trova a proprio agio, infatti, si dice proprio «non è di casa
in quel posto…»!
«E’ stato osservato che tra gli
uomini e lo spazio circostante vi è una continuità di segno e di
rapporto, un rapporto tra due elementi analoghi che determina un
continuo linguaggio, non verbale, nel quale siamo immersi, come elementi
del vivente»2.
Ognuno, nella propria casa, cerca di non alterare questo rapporto, di
trovare continuità con ciò che lo circonda.
Sentirsi a casa propria non vuol
dire necessariamente possedere una casa. Piuttosto è avere la sensazione
che le cose che ci circondano hanno un senso e lo comunicano. E’ un po’
il contrario di “perdersi”: dove ci si sente spiazzati tra l’aspettativa
di familiarità con un luogo, di adesione affettiva o di comprensione, e
il senso del vuoto che lo stesso luogo comunica3.
Nella casa, dunque, si concretizza
l’abitare, che può significare tante cose: fermarsi, costruire, essere,
radicarsi, identificarsi, trasformare lo spazio. «Alcuni antropologi
sostengono che abitare è una facoltà umana, e cioè un’abilità acquisita,
costruita su una predisposizione biologica, (l’essere presenti
fisicamente in un luogo) ma elaborata culturalmente, quindi condivisa
con una società. In quanto tale può essere lobotomizzata, come dice
Evans, ma non soppressa del tutto»4.
Dunque c’è una dialettica tra la persona e lo spazio fisico che occupa
(fissa dimora o itinerante, fa lo stesso).
Le vicende del singolo, e del
popolo a cui si appartiene, dipingono le pareti della casa, ed essa
diventa eloquente, con i suoi colori e i suoi odori! La casa, che per
tanto tempo era lo scrigno vivente dei ricordi d’infanzia, può diventare
anche una triste memoria da cui fuggire. Questo può capitare quando si
sente la fatica di ritornare nel luogo dove è vissuta una persona cara
che ora non c’è più. Gli oggetti sistemati in un certo modo, le finestre
aperte, o socchiuse, risultano fortemente evocativi. Forse vuole dire
proprio questo Baschelard quando parla della casa come ambiente segreto
dove l’inconscio vive; un luogo dove è possibile coltivare le diverse
facce dell’esistenza, anche quelle che abitualmente teniamo nascoste.
«La casa costituisce l’ambiente indispensabile per il coagularsi di
immagini e di affetti, fissandoli nello spazio e nel tempo. E’ facile
constatare che i termini abitazione, abitudini e abiti hanno la stessa
radice etimologica e invitano ad accostare la casa alle caratteristiche
che identificano le persone»5.
In principio...
Nella Bibbia, abitare è più che una
predisposizione biologica, è una dinamica che Dio mette nel cuore
dell’uomo a favore della vita, perché egli possa esprimere la propria
relazione positiva con le cose e il mondo. La Scrittura, infatti, si
apre con la scena della creazione, annunciata dalla frase: «In
principio», Bereshit, la stessa lettera di “Beit” (casa),
a significare, forse, che il mondo si offre all’uomo come una casa da
scoprire e da abitare. Una realtà in cui l’uomo, fatto a immagine di
Dio, potrà dare il nome alle cose (cioè identificarle) e sentirsi a
proprio agio, come “concreatore”. Il mondo diventa, allora, abitabile,
proprio in quanto è l’uomo che lo rende tale: «Il Signore Dio prese
l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo
custodisse» (Gn 2,15). Dove coltivare e custodire non solo esprimono il
contrario di incuria, ma stanno a significare un atteggiamento positivo
verso l’ambiente (che suppone la conoscenza del senso e del destino del
mondo), una familiarità quasi fanciullesca messa in crisi con il
peccato. Lo stesso significato di casa, nella Scrittura, è molto ampio:
ogni posto dove Dio si manifesta può essere chiamato “casa di Dio”, come
lo è Betel o il tempio (Sl 84,2-6)6.
Quando l’uomo si chiude all’altro o
si mette in un atteggiamento di ostilità, lì è difficile stare, è
difficile abitare. Basta ricordare Gn 4,12, dopo che Caino aveva ucciso
Abele, il Signore si rivolge a lui dicendo: «Quando tu coltiverai la
terra, essa non ti darà più le sue ricchezze» (Gn 4,12). Se il peccato
mette in pericolo la fraternità umana l’uomo non sarà più partecipe
della forza di benedizione che la terra stessa detiene e si sentirà in
esilio (errabondo). Si tratta, più che di un esilio fisico, di uno stato
d’animo di tutta la persona, che avendo dato ascolto all’avversione e
all’odio verso l’atro, impoverisce e non ha più la forza interiore di
abitare la vita degli altri, la terra stessa.
Abitare, dunque, come atteggiamento
del cuore umano (dove cuore indica la totalità, cioè sentimento,
intelletto, volontà).
E’ in un’abitazione tutta
particolare, l’arca (cfr. Gn 6,14ss), che l’uomo scamperà allo
scatenarsi violento del diluvio. Una casa enorme, in cui sembrano
incontrarsi la caparbietà di Dio nel ritornare a dare fiducia all’uomo
(nonostante il suo atteggiamento malvagio: cfr. Gn 6,5) e la fiducia di
Noè, il quale costruisce questa enorme dimora senza nemmeno avere
chiara, almeno dall’inizio, la sua destinazione. «Per fede Noè,
divinamente avvertito su ciò che non era ancora visibile, colto da un
timore religioso costruì un’arca per salvare la sua famiglia» (Ebr
11,7).
Case degli uomini, casa di
Dio
Possiamo dire che nella Scrittura
abitare una casa significa tante cose, tra cui stabilire relazioni
positive con gli altri ospitandoli e accogliendoli. Essa però è anche un
luogo, una dimensione che non va violata, una realtà di cui nessuno
dovrebbe essere privato, come fanno comprendere le parole del profeta
Michea che annunciano “guai”, contro gli uomini di potere e per chi «con
avidità riduce alla miseria il popolo e la sua casa» (Mic 2,2b). Egli
denuncia con asprezza chi caccia le donne fuori dalla propria casa, lì
dove dimorano le loro delizie, togliendo la dignità anche ai bambini (cfr.
Mic 2,9). L’uomo ha necessità di spazi reali per poter esprimere se
stesso nella totalità e abitare la vita piuttosto che farsi schiacciare
dagli eventi. Perciò la casa è una delle possibilità per coltivare le
dimensioni più personali e intime; essa risulta abitata quando le
persone sono coscienti di questo e lo rendono possibile agli altri senza
invadenza, come afferma il libro dei Proverbi (cfr. Pr 25,7).
E’ chiaro che questi sono bisogni
tipicamente umani, lo si capisce dalle parole del profeta Natan a
Davide, in cui si sottolinea l’assoluta trascendenza del Dio di Israele:
«Sono andato vagando sotto una tenda, in un padiglione. Finchè ho
camminato ora qua ora là, in mezzo a tutti gli Israeliti, ho forse mai
detto ad alcuno dei Giudici, a cui avevo comandato di pascere il mio
popolo Israele: “Perché non mi edificate una casa di cedro?”» (2Sam
7,5-7).
Un’affermazione che troverà
pienezza nelle parole di Gesù, quando dice alla donna di Samaria:
«Credimi donna, è giunta l’ora in cui né su questo monte, né in
Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21). La casa di Dio è Cristo Gesù
dove abita la pienezza della sua carità, Egli è la dimora della sua
grazia che si propone come liberazione, serenità, cammino («Io sono la
via, venite a me affaticati...»). Ma è anche “la porta”, dove questo
appellativo ha certamente un legame con l’abitare. La porta, per l’uomo
biblico, è una sola: quella della città. E’ il grembo che si chiude,
fuori c’è il male, l’oscurità, il deserto, i predoni.
Ma la “Porta delle pecore” era
anche la porta di accesso al tempio di Gerusalemme. Gesù nella parabola
del buon pastore (cfr. Gv 10), guardando le persone che entrano nel
tempio fa capire loro che da quel momento non avranno più bisogno del
tempio, perché la sua carne è il nuovo tempio (Gv 2,21)7.
Il luogo cioè dove potranno ritrovare se stessi e il senso della loro
fede. Egli è dunque “la dimora” del senso, la casa da abitare e da cui
ripartire per dare un significato nuovo alla relazione col mondo.
Case aperte, case chiuse
La casa è l’immagine globale della
psiche. C’è chi la vuole fuggire, perché nelle sue mura ritrova il
disagio di situazioni irrisolte e dolorose; c’è chi invece si rifugia in
essa per paura della storia che scorre sulla strada. La casa così
preziosa può anche diventare nemica dell’uomo, perché lo chiude alla
relazione con l’altro, è il posto da cui si esclude il diverso, o il
luogo che ci difende dalla povertà e dalle miserie degli ultimi, spesso
senza casa.
Ci si accorge di questo quando si
suona al citofono di certe abitazioni; prima ci sembra di sentire in
lontananza una voce, forse piena di sospetto, poi si illumina una luce.
A volte ci si domanda se inventeranno anche dei campanelli in grado di
prendere le impronte digitali! Spesso queste case hanno anche delle mura
di cinta alte che le separano dal resto del mondo, poi se ti affacci,
vedi alberi e aiuole per pochi eletti e non puoi andare via senza punti
di domanda!
Tante case, invece, anche se
semplici o piccole, parlano un linguaggio diverso, sono quelle dove
trovi persone che hanno il desiderio di lasciarsi coinvolgere dalla vita
degli altri e condividere, forse, anche le proprie fragilità, senza
chiudere la porta in faccia, come dice un’espressione popolare.
La Bibbia ci parla di tanta gente
che tiene il cuore e la porta della propria casa aperta. C’è un
episodio, in 1Re 17,8-24, che fa molto riflettere in questa direzione.
Siamo a casa di una vedova, e perciò in una casa senza protezione, anzi,
in una situazione di particolare vulnerabilità. Arriva il profeta Elia,
la donna lo ospita, dapprima malvolentieri (1Re 17,12), ma dopo un po’
egli si muove in quella casa come se fosse sua (v. 15). Elia, infatti,
mangia del cibo della donna e, soprattutto, mangia insieme a lei e a suo
figlio. Un quadretto particolare: un profeta e una donna con i suoi beni
condivisi (la casa era a due piani, forse in passato la donna era
ricca), ma, soprattutto, con il suo sommo bene, il suo unico bimbo. Vite
diverse che si incontrano e non si incrociano semplicemente: si abitano.
Il testo ci presenta Elia, che non si muove da “forestiero”
nell’ambiente, ma con familiarità, infatti, ha una sua stanza (v.19).
Scoppia un dramma: muore il bambino
e la vedova si ribella con Elia, vuole prendere le distanze da lui (v.
18).
All’interno della casa, l’uomo di
Dio, il profeta irruente, cambia atteggiamento rispetto al primo
incontro con la donna, quando sembrava sicuro e forse pieno di pretese
(v. 11). Egli prende il bambino, oramai privo di vita, e lo porta con sé
nella sua stanza, nel posto più intimo e personale; forse perché nessuno
vedesse fino a che punto quella storia lo aveva coinvolto. Si stende sul
bambino e prega il suo Dio. Ora l’angoscia di quella morte è anche sua,
la disperazione e la notte oscura della donna sono anche del profeta,
che supplica e ottiene da Dio la vita: il bambino risuscita (v. 13)8.
La casa della vedova diventa luogo della cura di Dio, una cura che non
rimane retorica sulla bocca del profeta Elia. Il profeta non fa grandi
discorsi di fronte al dolore, ma si esprime attraverso il respiro, le
braccia, il grido. I suoi gesti assumono l’angoscia della padrona di
casa. Una casa aperta, ora umanizzata dall’autenticità delle relazioni,
dove le paure e i bisogni dell’una non lasciano insensibile l’altro.
La donna, infatti, si esprime con
chiarezza sin dall’inizio: «Che c’è tra me e te, o uomo di Dio?» (v.
18). Per la vedova abitare la sua casa significa anche aprire la sua
vita a percorsi rischiosi; per Elia quella casa diventa l’occasione per
sperimentare forse l’aspetto più fragile e nascosto di sé: la paura e il
rapporto con la morte.
Nella casa, Elia e la donna si
mostrano nella loro verità senza troppe difese e da lì parte un reale
cambiamento della vita. Nell’intimità delle stanze, quando non si ha
paura di verbalizzare i propri fallimenti, Dio risponde strappando il
bambino alla morte per dire ai due: bisogna tornare alla vita.
Non ci sono altari, nè si celebrano
riti, eppure la donna e il profeta scoprono un altro volto della loro
storia, della loro stessa fede. Un episodio che si apre a tante
interpretazioni e ci aiuta anche a vedere che la propria abitazione,
dove sembra consumarsi senza sosta la quotidianità, con gli scontati
ritmi abituali, può illuminarsi e diventare epifania del Signore.
Dentro
casa con Gesù
Appaiono suggestivi i brani
evangelici nei quali si notano gesti e abitudini di Gesù, tipicamente
umani. La gioia di sentirsi accolto, la sua stanchezza che trova pace
nelle case di amiche premurose, ce lo mostrano come un Dio pienamente
umano. E se è vero che il suo atteggiamento verso le cose fosse di
estrema libertà («Egli è senza tana e senza nido»: Lc 9,57ss), è anche
vero che la Scrittura ce lo presenta a suo agio a casa di amici (Gv
10,40ss). Anche questo è un aspetto della sua divino-umanità che negli
ambienti domestici assume toni diversificati.
Paradigmatico in questo senso è
l’incontro con Zaccheo. Pur avendolo incontrato sulla strada, Gesù
insiste per vedere Zaccheo a casa sua. Gesù dà molta importanza a questo
incontro, fino al punto di autoinvitarsi (Lc 19,5).
Potremmo domandarci: ma era
necessario? Sembra di sì, visto che solo a casa sua Zaccheo pronuncia
quelle parole che sono il segno concreto di un cambiamento interiore:
«Ecco, Signore, io do’ la metà dei miei beni ai poveri» (Lc 19,8). I
malumori dei benpensanti non preoccupano Gesù, il quale conosce il cuore
dell’uomo, e sa che ognuno a casa sua abbassa le proprie difese. Quel
che importa è far capire a Zaccheo che non è solo nella sua crisi, che
Dio guarda nelle profondità di ogni persona chiunque essa sia. Per far
capire questo a Zaccheo, Gesù non gli scrive un documento sulle virtù,
ma va a casa sua, quella stessa che, forse, lo aveva visto tante volte
macchiarsi della sua stessa avidità; quelle pareti, addobbate col sudore
dei poveri, ora diventano spazio che accoglie la salvezza (Lc 19,9).
Nella casa viene fuori un po’ tutto
della nostra personalità, essa offre una possibilità particolare a
chiunque voglia incontrare il volto di ogni persona, la sua totalità, la
vita nei suoi aspetti diversi. Questo Gesù lo aveva capito bene, lo si
intuisce perché il suo primo miracolo avviene proprio in casa di due
sposi, a Cana (Gv 2). Ma le mura domestiche non ascoltano solo la danza
di chi ha visto l’acqua trasformarsi in vino, spesso all’interno della
propria abitazione si seppellisce l’mmagine degli altri, si coltiva una
visione della vita chiusa al mistero, rigida, moralista.
Un esempio per tutti, l’uomo pio e,
probabilmente virtuoso, scandalizzato dell’atteggiamento di Gesù nei
confronti della donna che bagna i suoi piedi con le lacrime e glieli
asciuga con i capelli. (Lc 7,38). Le parole che Gesù pronuncia in casa
del fariseo sono un invito alla riflessione e al cambiamento,
sollecitandolo a spazzare via i pregiudizi che gli impediscono di vedere
le persone da una prospettiva diversa. Quando Gesù mette in evidenza la
capacità di amare di questa donna, non vuole solo riabilitarla agli
occhi degli altri, ma in qualche modo invitare il padrone di casa a
disseppellire quella parte di sé che aveva messo a tacere: la tenerezza
(Lc 7,44). Lo invita, cioè, a vivere partendo dalla profondità del
proprio cuore, non da una semplice realtà emozionale, ma da quel punto
infinito che è al centro dell’essere: il luogo della profondità massima
in cui si vive la presenza di Dio. Una realtà data a tutti, per poter
entrare in contatto con il Dio vivente e comprendere i misteri del suo
regno9.
E questo cammino parte dalla nostra
abituale dimora, e da lì che si riparte per ritrovare il centro, bisogna
cominciare a spazzare la casa alla ricerca della dramma perduta (Lc
15-8,10), ritrovare il centro del proprio essere, per donarsi.
Un bisogno di tutti
Avere un angolo in cui ritrovarsi,
far nascere una storia, sono bisogni di tutti, anche di coloro che non
hanno una fissa dimora. «Si avverte vivamente che la casa è il luogo
dove si vivono i momenti più vari e significativi della vita, nella
gioia e nel dolore, in un rincorrersi di ricordi, è il porto dal quale
si parte per l’avventura della vita»10.
G.Bernanos scriveva: «Nelle case di
famiglia c’è sempre un po’ di disordine: le sedie talvolta mancano di
una gamba, i tavoli sono macchiati di inchiostro, le scatole di
marmellata si svuotano da sole nelle dispense»11.
Usava questo esempio per parlare della Chiesa, ma sono espressioni che
ci fanno pensare alla ricchezza di una casa, alla sua fragilità e anche
alla sua bellezza. La casa diventa il sogno e il progetto di tante
persone, quando la si cerca, si avverte stanchezza, ma c’è dentro anche
la speranza di trovare un posto in cui si mettono in moto i desideri più
personali; si pensa a come la si potrebbe arredare, all’angolo in cui ci
si può riposare su un divano e a tutto quello che può renderla abitabile
per sé e per gli altri.
Ecco perché quando si lascia una
casa nella quale si è abitato, il distacco diventa faticoso e quasi ci
assale la paura che non ci troveremo bene da qualsiasi altra parte; ma
la paura più grande è di tutta quella gente che il mercato condanna alla
precarietà forzata. Si ascolta con tristezza il racconto di coppie
costrette a vivere con i propri figli in spazi molto limitati. In tanti
nuclei familiari i disagi sono enormi e a volte questo è motivo di
tensione e di divisione: prezzi troppo alti impediscono l’acquisto di
una casa, la quota riservata all’affitto non dà la possibilità di fare
le vacanze fuori, o svuota in modo esagerato il budget familiare. Per
non parlare di chi, per calamità naturale, ha visto crollare davanti a
sé anni di sacrifici e di lavoro.
A volte, per costruirsi una propria
abitazione si impiegano molti anni e alla fine ognuno ritrova quasi
l’immagine di sé in quella piccola o grande costruzione.
Nessuna casa è in toto uguale ad
un’altra, basta osservarle, quando si entra si comprendono tante cose
delle persone che vi abitano. Alcune sono sovraccariche di oggetti, si
rimane quasi confusi dalla mancanza di essenzialità, o di un pò di
spazio; altre ci parlano solo dei padroni di casa, e allora le pareti
sembrano un album di famiglia. Più di ogni altro luogo, la casa parla
dei valori simbolici che ognuno di noi interiorizza, perciò a volte
basta guardare il luogo in cui viviamo per capire come siamo.
La casa è importante, essenziale.
E’ importante, perciò, ricordare che la nostra casa, quella vera, non è
di quaggiù… Tutti e tutte siamo in cammino verso la casa del Padre.
In questo senso un criterio di
discernimento ci viene dalla figura di Abramo. La sua esperienza
consiste nel fatto che la sua casa è nel cammino, il suo abitare è un
esodo continuo, verso sentieri nuovi e inesplorati12.
Abramo si mette in cammino, nella sua fiducia sta la sua forza, nella
sua fede sta la sua giustizia.
Ogni uomo è in viaggio come Abramo,
nemmeno le case costruite con tanta fatica fermeranno il viaggio.
La sfida sta nell’accettare di
diventare dei pazienti pellegrini e non lasciare che le cose e le case
di questo mondo, per quanto importanti possano essere, si impadroniscano
della nostra vita, come ben recita K. Gibran nei suoi bellissimi versi:
«Non lasciatevi domare,
né mettere in trappola.
La vostra casa non sia un’àncora,
ma un albero maestro;
Poiché ciò che in voi è illimitato
vive nella dimora del cielo,
la cui porta è la nebbia mattutina,
e le cui finestre sono i canti e i silenzi della notte»13.
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