n. 12
dicembre 2003

 

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Vieni, Signore, tra la tua gente
di Corrado Maggioni, s.m.m. *

 

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Davanti a un fideismo alienato dal reale, il Natale di Cristo parla di Dio dentro la storia. E davanti a un umanesimo che pone l’uomo contro Dio, se non al posto di Dio, il Natale parla, insieme, di Dio e dell’uomo, della comunione che li vincola. Parla bene di Dio e dell’uomo. Parla della povertà di Dio, scelta per amore dell’uomo. Parla della ricchezza dell’uomo, reso figlio di Dio.

Mirabile scambio: assumendo la mortalità della carne, l’Eterno ci ha aperto il varco dell’immortalità. Lo riconosce con gratitudine la Chiesa nella liturgia natalizia, che così si rivolge al Padre: «In Cristo oggi risplende in piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi, uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale» (prefazio III di Natale).

Da qui trae motivo la spiritualità di comunione, nervatura che sostiene la vita cristiana e chiave di volta della testimonianza della vita consacrata. In verità, ci ricorda Giovanni Paolo II, il contributo specifico che la Chiesa e il mondo si attendono dalle persone consacrate «è di essere davvero esperte di comunione e praticarne la spiritualità, come testimoni ed artefici di quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo secondo Dio» (Vita consecrata 46).

 

«Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto»

 Rileggendo il v. 11 del prologo di Giovanni siamo tentati di dire che riguarda “altri”. Tratta di fatti accaduti in Palestina 2000 anni fa, relativi al rifiuto a cui Gesù è andato incontro: non l’hanno accolto i suoi compaesani di Nazaret, poiché – a loro dire – lo conoscevano troppo bene; non l’hanno accolto i religiosi osservanti di Gerusalemme, che anzi hanno fatto di tutto per toglierlo di mezzo, riuscendo infine a farlo pendere dalla croce. Si può continuare a snocciolare una serie di considerazioni che riguardano comunque “loro”, i contemporanei di Gesù e non noi.

E’ facile sottrarsi alle implicanze del versetto giovanneo, perché – ci diciamo – noi siamo di quelli che hanno accolto Gesù e credono in lui! Siamo “i suoi”, abbiamo obbedito alla vocazione religiosa...

Sarebbe tuttavia troppo sbrigativo arrestare la portata di questo versetto a quanto è accaduto in passato e silenziarne così il messaggio perenne. Sarebbe come togliere attualità al Vangelo, dimostrandoci sordi alla sua odierna interpellanza.

Ci è di stimolo a individuare quale possa essere una applicazione per noi, il riflettere, da una parte, sul costante venire di Dio «tra la sua gente», che siamo noi, e dall’altra, sulla frapposizione di ostacoli da parte nostra al suo incessante ingresso nella nostra vita, nelle nostre comunità e nelle molteplici attività dei nostri Istituti.

Un primo punto da mettere a fuoco concerne l’identità di Colui che venne tra i suoi, per dimorare nelle loro persone. Non basta replicare con definizioni dottrinalmente corrette… Occorre rispondere esistenzialmente e in prima persona: Chi è colui che è venuto a incontrare me, noi, le intere generazioni umane? Quali sono i segni della sua visita? Mi accorgo della sua presenza qui e ora? E’ proprio come me lo aspetto? I contemporanei di Gesù non erano tutti degli sprovveduti in fatto di conoscenza di Dio. Ma la presunzione di conoscere l’Inconoscibile non facilita l’esperienza di chi è veramente il Dio di Gesù Cristo. Anzi, la offusca.

Un secondo punto da considerare sono i nostri rifiuti, a livello personale e comunitario, del suo misterioso manifestarsi. Non basta aver accolto il Signore una volta per tutte: come è perseverante il suo desiderio di venire “in” noi per permeare il nostro vissuto, così deve essere perseverante la nostra accoglienza del suo Mistero. Pur restando noi stessi, cambiamo col passare dei giorni, in ragione di ciò che capita in essi: la nostra storia quotidiana è chiamata a divenire luogo ospitale per Colui che si presenta nuovo ad ogni sorgere del sole, chiedendo di essere riconosciuto per come egli si manifesta.

E’ infatti sempre in agguato il compromesso: accoglierlo ma fino a un certo punto, fin dove egli non ci costringe a fare scelte dolorose. Ossia gli diciamo di sì, ma riservando spazi di movimento; ci dichiariamo disponibili nelle preghiere che aprono e chiudono le nostre giornate, provvedendo poi, nell’arco del giorno, a trovare aggiustamenti e interpretazioni che declinano a modo nostro la radicalità evangelica.

E’ sempre possibile anche temporeggiare, rimandare, ritardare una più generosa accoglienza del Cristo. Siamo affascinati dallo spessore propostoci dal Vangelo, eppure diciamo: aspettiamo ancora un momento a metterlo in pratica, prendiamoci tempo per vedere meglio. Così, un gesto di perdono rimandato è segno di non accoglienza del comando di Gesù; il non decidersi ad abbandonare una critica verso il prossimo equivale a non tradurre in opere l’insegnamento di Cristo.

E’ sempre in agguato inoltre l’ipocrisia, che è la malattia dei farisei di ogni tempo e non solo di quelli citati nei Vangeli. Prestare attenzione alla facciata più che all’interno, impedisce di raggiungere il cuore del messaggio di Gesù; una vita religiosa soddisfatta delle proprie buone azioni e insoddisfatta di quelle degli altri, assomiglia molto al noto fariseo imperdonabile e poco al pubblicano riconciliato.

Per noi che siamo “i suoi”, accogliere Gesù significa ospitarlo e ri-ospitarlo al centro del quotidiano, mettendolo a proprio agio, lasciandogli la libertà di dire e di fare, senza imitare l’esempio di Marta, preoccupata di fare “mille cose” per Gesù ma disattenta a ricevere da lui “l’unica cosa” di cui c’è bisogno.

 

«A quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio»

Andando oltre la cronaca della nascita di Gesù a Betlemme, il prologo di Giovanni – esordio interpretativo del quarto Vangelo – ci guida a valutare con sguardo di fede la portata dell’evento che ha ricentrato tempo e spazio: dalla creazione alla ri-creazione, il protagonista è Dio, meglio la sua struggente passione di donarsi all’umanità per stringerla sponsalmente a sé. Tutto è disposto a sacrificare per raggiungere lo scopo!

E’ coprotagonista però anche l’uomo, con la sua reazione positiva o negativa alla Parola divina, alla Vita, alla Luce che scende dal cielo per chiamare, illuminare e vivificare la terra e i suoi abitanti. Con la nascita di Gesù «viene nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo», singolarmente e comunitariamente inteso. Senza la luce del Verbo incarnato, che altro significato – sembra dire l’apostolo – possiamo attribuire al nostro venire al mondo?

Il significato del nascere non si esaurisce nell’orizzonte terreno. Occorre ri-nascere (cfr. Gv 3,1-7), accogliendo nella propria carne-sangue il mistero del Figlio di Dio nato dalla Vergine per salvare tutti, senza distinzione di lingua, popolo, epoca e cultura: «A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati» (Gv 1,12-13).

E’ interessante trovare nel v. 12 l’impiego del verbo “diventare”, poiché dice dinamicità di cammino: diventare figli di Dio è vocazione da realizzare in tutto l’arco del nostro pellegrinaggio terreno, fino alla comunione inseparabile con l’Eterno, attraversando vicende liete e dolorose, ore di entusiasmo e momenti di mormorazione, tempi di fruttuosa attività apostolica e periodi di apparente inoperosità.

Se è vero che nel battesimo rinasciamo figli di Dio, è anche vero che occorre dimostrarsi tali per esserlo davvero. L’essere figli di Dio dipende da Dio, dalla fecondità del suo amore. Nessuno può arrogarsi la rigenerazione alla vita eterna, elargita gratuitamente dall’alto. Si può essere figli prodighi, figli che abbandonano la casa del Padre, in una parola “cattivi” figli, ma sempre figli.

Il dimostrarsi figli di Dio, oltre che dalla sua grazia, dipende invece da noi. Non basta infatti essere rinati dall’acqua e dallo Spirito per mettersi il cuore in pace. “Diventare figli” è un potere che il Signore elargisce per grazia, esigendo tuttavia la corrispondenza: è affidato dunque anche alle nostre mani il potere di diventare veramente figli di Dio!

Perciò non possiamo esibire il battesimo come una tessera né vantare l’eccomi del giorno della professione religiosa. Serve la quotidiana disponibilità a raccordarsi filialmente con Dio. E di conseguenza, a raccordarsi fraternamente con il prossimo. Secondo la logica espressa da Gesù ai suoi discepoli nella preghiera del «Padre nostro». Si disdice alla vocazione di figli del Padre che sta nei cieli ogni volta che non accogliamo chi ci sta vicino qui in terra, non lo perdoniamo, non lo soccorriamo, non lo stimiamo, non gli usiamo misericordia… Non accogliere il fratello o la sorella è rifiutare Colui che non smette di venire «tra i suoi» per trasformarli a sua immagine.

 

«Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi»

 Non aspettiamo altra rivelazione di Dio e su Dio: «Dopo aver parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni – cioè anche i nostri – Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Cristo ha detto tutto e, versando il sangue assunto dalla Vergine, tutto ha compiuto. Mentre rivela che Dio è amore, egli «svela pienamente l’uomo all’uomo, e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes 22).

Mirabilmente creati e, più mirabilmente ancora, redenti! Il Natale riconcilia l’umanità con la vocazione originaria, ricevuta all’alba del tempo, Dio viene a stare con noi, perché noi possiamo stare con Dio: ecco il messaggio completo delle celebrazioni natalizie (cfr. colletta della messa del giorno di Natale). Fermarsi a contemplare solo il movimento discendente del cielo sulla terra, significa comprendere a metà il mistero del Natale: l’umiliazione dell’Onnipotente innalza gli umili, come canta la Vergine del Magnificat, rendendoli un solo corpo con l’Emmanuele.

Da più di duemila anni, una generazione cristiana dopo l’altra, Natale dopo Natale, si rallegra di sentire rivolto proprio a sé l’annuncio che «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi». La nascita a Betlemme è la via adottata da Dio per prendere dimora in noi e tra di noi. Dal parto della Vergine, che credendo accolse Dio nel grembo per offrirlo a tutti, ogni discendente di Adamo ed Eva può realmente dirsi contemporaneo del Verbo fatto carne. Lo esprime incisivamente san Leone Magno dicendo che «la nascita di Cristo è la rinascita dell’uomo».

Il Dio fatto carne non fa più paura all’uomo, ma lo libera dalla paura dell’Altissimo, restituendogli familiarità con lui. Certo, può essere deriso il figlio di Maria, perfino ucciso! Ma il suo misericordioso prendersi cura della carne ferita, la guarisce; sfidando la notte, la sua Luce dirada le nostre tenebre permettendoci di conoscere l’Inconoscibile: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Ne è consapevole la Chiesa, che così loda e ringrazia nella liturgia natalizia: «Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore, perché conoscendo Dio visibilmente siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili» (prefazio I di Natale). La testimonianza delle persone consacrate non dovrebbe contraddistinguerle anzitutto come persone rapite all’amore delle realtà invisibili?

Non deve sfuggire, in modo particolare a chi ha scelto la vita consacrata, la valenza sacramentale dell’accogliere Cristo che viene «tra la sua gente» nei santi misteri, per farla diventare il suo prolungamento di incarnazione, e dunque di comunione tra Dio e gli uomini. I verbi al passato del versetto di Giovanni: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi», si commutano in verbi al presente nell’Eucaristia: dimora di Cristo in noi e in mezzo a noi. Il fare comunione al Corpo e al Sangue del Signore, ogni volta che la facciamo, deve spingerci a dilatare lo spazio accogliente per Colui che ha scelto i nostri cuori, anime, corpi, umanità, per incarnarsi, nascere, dimorare, crescere, manifestarsi al mondo. Oggi.

Il mistero del Verbo fatto carne per abitare in mezzo a noi deve accompagnare il nostro pensare ed agire: tra me e il mio confratello/consorella c’è Cristo; tra me e il mio peccato c’è Cristo; tra me è il prepotente c’è Cristo; tra me e il povero c’è Cristo; tra me e la mia malattia c’è Cristo; tra me e il mio lavoro c’è Cristo; tra me e tutto ciò che mi circonda si dispiega il riverbero dell’Incarnazione redentiva. Vivendo in quest’ottica, sarà più facile vedere esaudita la nostra giusta supplica a Dio: «Risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito» (colletta della messa natalizia dell’aurora).

Il Natale di Cristo coniuga inseparabilmente grazia divina e responsabilità umana. Prima di altri, siamo dunque noi, suoi discepoli, ad essere singolarmente e comunitariamente interpellati sull’accoglienza da riservare al Signore che viene «tra la sua gente» nel presente momento storico del Natale 2003. Egli viene in quello che stiamo facendo, vivendo, soffrendo, sperando, perseguendo… Viene nei nostri ritardi, per accelerare il cammino. Viene nelle nostre miserie per colmarle di misericordia. Viene nelle nostre povertà per trasformarle nella sua ricchezza. Viene nei nostri “eccomi” per potenziarne la generosità.

Ecco perché, il versetto del prologo di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto» non riguarda solo quanti hanno rifiutato Gesù appendendolo alla croce! Riguarda anche a noi, ammonendoci a “diventare” figli e figlie del Padre che sta nei cieli, icone visibili del Dio invisibile manifestatosi a Natale. «Veramente la vita consacrata – ricorda il Papa – costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli» (Vita consecrata 22).

  


* Sacerdote monfortano, liturgista, docente al Marianum di Roma

 

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