|
|
|
|
Davanti
a un fideismo alienato dal reale, il Natale di Cristo parla di Dio
dentro la storia. E davanti a un umanesimo che pone l’uomo contro Dio,
se non al posto di Dio, il Natale parla, insieme, di Dio e
dell’uomo, della comunione che li vincola. Parla bene di Dio e
dell’uomo. Parla della povertà di Dio, scelta per amore dell’uomo. Parla
della ricchezza dell’uomo, reso figlio di Dio.
Mirabile scambio:
assumendo la mortalità della carne, l’Eterno ci ha aperto il varco
dell’immortalità. Lo riconosce con gratitudine la Chiesa nella liturgia
natalizia, che così si rivolge al Padre: «In Cristo oggi risplende in
piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti: la nostra debolezza
è assunta dal Verbo, l’uomo mortale è innalzato a dignità perenne e noi,
uniti a te in comunione mirabile, condividiamo la tua vita immortale»
(prefazio III di Natale).
Da qui trae motivo la
spiritualità di comunione, nervatura che sostiene la vita cristiana
e chiave di volta della testimonianza della vita consacrata. In verità,
ci ricorda Giovanni Paolo II, il contributo specifico che la Chiesa e il
mondo si attendono dalle persone consacrate «è di essere davvero esperte
di comunione e praticarne la spiritualità, come testimoni ed artefici di
quel progetto di comunione che sta al vertice della storia dell’uomo
secondo Dio» (Vita consecrata 46).
«Venne tra la sua gente, ma
i suoi non l’hanno accolto»
Rileggendo il v. 11 del prologo di
Giovanni siamo tentati di dire che riguarda “altri”. Tratta di fatti
accaduti in Palestina 2000 anni fa, relativi al rifiuto a cui Gesù è
andato incontro: non l’hanno accolto i suoi compaesani di Nazaret,
poiché – a loro dire – lo conoscevano troppo bene; non l’hanno accolto i
religiosi osservanti di Gerusalemme, che anzi hanno fatto di tutto per
toglierlo di mezzo, riuscendo infine a farlo pendere dalla croce. Si può
continuare a snocciolare una serie di considerazioni che riguardano
comunque “loro”, i contemporanei di Gesù e non noi.
E’ facile sottrarsi alle implicanze
del versetto giovanneo, perché – ci diciamo – noi siamo di quelli che
hanno accolto Gesù e credono in lui! Siamo “i suoi”, abbiamo obbedito
alla vocazione religiosa...
Sarebbe tuttavia troppo sbrigativo
arrestare la portata di questo versetto a quanto è accaduto in passato e
silenziarne così il messaggio perenne. Sarebbe come togliere attualità
al Vangelo, dimostrandoci sordi alla sua odierna interpellanza.
Ci è di stimolo a individuare quale
possa essere una applicazione per noi, il riflettere, da una parte, sul
costante venire di Dio «tra la sua gente», che siamo noi, e dall’altra,
sulla frapposizione di ostacoli da parte nostra al suo incessante
ingresso nella nostra vita, nelle nostre comunità e nelle molteplici
attività dei nostri Istituti.
Un primo punto da mettere a fuoco
concerne l’identità di Colui che venne tra i suoi, per dimorare nelle
loro persone. Non basta replicare con definizioni dottrinalmente
corrette… Occorre rispondere esistenzialmente e in prima persona: Chi è
colui che è venuto a incontrare me, noi, le intere generazioni umane?
Quali sono i segni della sua visita? Mi accorgo della sua presenza qui e
ora? E’ proprio come me lo aspetto? I contemporanei di Gesù non erano
tutti degli sprovveduti in fatto di conoscenza di Dio. Ma la presunzione
di conoscere l’Inconoscibile non facilita l’esperienza di chi è
veramente il Dio di Gesù Cristo. Anzi, la offusca.
Un secondo punto da considerare
sono i nostri rifiuti, a livello personale e comunitario, del suo
misterioso manifestarsi. Non basta aver accolto il Signore una volta per
tutte: come è perseverante il suo desiderio di venire “in” noi per
permeare il nostro vissuto, così deve essere perseverante la nostra
accoglienza del suo Mistero. Pur restando noi stessi, cambiamo col
passare dei giorni, in ragione di ciò che capita in essi: la nostra
storia quotidiana è chiamata a divenire luogo ospitale per Colui che si
presenta nuovo ad ogni sorgere del sole, chiedendo di essere
riconosciuto per come egli si manifesta.
E’ infatti sempre in agguato il
compromesso: accoglierlo ma fino a un certo punto, fin dove egli non
ci costringe a fare scelte dolorose. Ossia gli diciamo di sì, ma
riservando spazi di movimento; ci dichiariamo disponibili nelle
preghiere che aprono e chiudono le nostre giornate, provvedendo poi,
nell’arco del giorno, a trovare aggiustamenti e interpretazioni che
declinano a modo nostro la radicalità evangelica.
E’ sempre possibile anche
temporeggiare, rimandare, ritardare una più generosa
accoglienza del Cristo. Siamo affascinati dallo spessore propostoci dal
Vangelo, eppure diciamo: aspettiamo ancora un momento a metterlo in
pratica, prendiamoci tempo per vedere meglio. Così, un gesto di perdono
rimandato è segno di non accoglienza del comando di Gesù; il non
decidersi ad abbandonare una critica verso il prossimo equivale a non
tradurre in opere l’insegnamento di Cristo.
E’ sempre in agguato inoltre
l’ipocrisia, che è la malattia dei farisei di ogni tempo e non solo
di quelli citati nei Vangeli. Prestare attenzione alla facciata più che
all’interno, impedisce di raggiungere il cuore del messaggio di Gesù;
una vita religiosa soddisfatta delle proprie buone azioni e
insoddisfatta di quelle degli altri, assomiglia molto al noto fariseo
imperdonabile e poco al pubblicano riconciliato.
Per noi che siamo “i suoi”,
accogliere Gesù significa ospitarlo e ri-ospitarlo al centro del
quotidiano, mettendolo a proprio agio, lasciandogli la libertà di dire e
di fare, senza imitare l’esempio di Marta, preoccupata di fare “mille
cose” per Gesù ma disattenta a ricevere da lui “l’unica cosa” di cui c’è
bisogno.
«A quanti l’hanno accolto ha
dato potere di diventare figli di Dio»
Andando oltre la cronaca della
nascita di Gesù a Betlemme, il prologo di Giovanni – esordio
interpretativo del quarto Vangelo – ci guida a valutare con sguardo di
fede la portata dell’evento che ha ricentrato tempo e spazio: dalla
creazione alla ri-creazione, il protagonista è Dio, meglio la sua
struggente passione di donarsi all’umanità per stringerla sponsalmente a
sé. Tutto è disposto a sacrificare per raggiungere lo scopo!
E’ coprotagonista però anche
l’uomo, con la sua reazione positiva o negativa alla Parola divina, alla
Vita, alla Luce che scende dal cielo per chiamare, illuminare e
vivificare la terra e i suoi abitanti. Con la nascita di Gesù «viene nel
mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo», singolarmente e
comunitariamente inteso. Senza la luce del Verbo incarnato, che altro
significato – sembra dire l’apostolo – possiamo attribuire al nostro
venire al mondo?
Il significato del nascere non si
esaurisce nell’orizzonte terreno. Occorre ri-nascere (cfr. Gv 3,1-7),
accogliendo nella propria carne-sangue il mistero del Figlio di Dio nato
dalla Vergine per salvare tutti, senza distinzione di lingua, popolo,
epoca e cultura: «A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare
figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue,
né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati
generati» (Gv 1,12-13).
E’ interessante trovare nel v. 12
l’impiego del verbo “diventare”, poiché dice dinamicità di cammino:
diventare figli di Dio è vocazione da realizzare in tutto l’arco del
nostro pellegrinaggio terreno, fino alla comunione inseparabile con
l’Eterno, attraversando vicende liete e dolorose, ore di entusiasmo e
momenti di mormorazione, tempi di fruttuosa attività apostolica e
periodi di apparente inoperosità.
Se è vero che nel battesimo
rinasciamo figli di Dio, è anche vero che occorre dimostrarsi tali per
esserlo davvero. L’essere figli di Dio dipende da Dio,
dalla fecondità del suo amore. Nessuno può arrogarsi la rigenerazione
alla vita eterna, elargita gratuitamente dall’alto. Si può essere figli
prodighi, figli che abbandonano la casa del Padre, in una parola
“cattivi” figli, ma sempre figli.
Il dimostrarsi figli di Dio,
oltre che dalla sua grazia, dipende invece da noi. Non basta infatti
essere rinati dall’acqua e dallo Spirito per mettersi il cuore in pace.
“Diventare figli” è un potere che il Signore elargisce per grazia,
esigendo tuttavia la corrispondenza: è affidato dunque anche alle nostre
mani il potere di diventare veramente figli di Dio!
Perciò non possiamo esibire il
battesimo come una tessera né vantare l’eccomi del giorno della
professione religiosa. Serve la quotidiana disponibilità a raccordarsi
filialmente con Dio. E di conseguenza, a raccordarsi
fraternamente con il prossimo. Secondo la logica espressa da Gesù ai
suoi discepoli nella preghiera del «Padre nostro». Si disdice alla
vocazione di figli del Padre che sta nei cieli ogni volta che non
accogliamo chi ci sta vicino qui in terra, non lo perdoniamo, non lo
soccorriamo, non lo stimiamo, non gli usiamo misericordia… Non
accogliere il fratello o la sorella è rifiutare Colui che non smette di
venire «tra i suoi» per trasformarli a sua immagine.
«Il Verbo si fece carne e
venne ad abitare in mezzo a noi»
Non aspettiamo altra rivelazione
di Dio e su Dio: «Dopo aver parlato molte volte e in diversi modi ai
padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni – cioè anche
i nostri – Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Cristo
ha detto tutto e, versando il sangue assunto dalla Vergine, tutto ha
compiuto. Mentre rivela che Dio è amore, egli «svela pienamente l’uomo
all’uomo, e gli fa nota la sua altissima vocazione» (Gaudium et spes
22).
Mirabilmente creati e, più
mirabilmente ancora, redenti! Il Natale riconcilia l’umanità con la
vocazione originaria, ricevuta all’alba del tempo, Dio viene a
stare con noi, perché noi possiamo stare con Dio: ecco il
messaggio completo delle celebrazioni natalizie (cfr. colletta della
messa del giorno di Natale). Fermarsi a contemplare solo il
movimento discendente del cielo sulla terra, significa comprendere a
metà il mistero del Natale: l’umiliazione dell’Onnipotente innalza gli
umili, come canta la Vergine del Magnificat, rendendoli un solo
corpo con l’Emmanuele.
Da più di duemila anni, una
generazione cristiana dopo l’altra, Natale dopo Natale, si rallegra di
sentire rivolto proprio a sé l’annuncio che «il Verbo si fece carne e
venne ad abitare in mezzo a noi». La nascita a Betlemme è la via
adottata da Dio per prendere dimora in noi e tra di noi. Dal parto della
Vergine, che credendo accolse Dio nel grembo per offrirlo a tutti, ogni
discendente di Adamo ed Eva può realmente dirsi contemporaneo del Verbo
fatto carne. Lo esprime incisivamente san Leone Magno dicendo che «la
nascita di Cristo è la rinascita dell’uomo».
Il Dio fatto carne non fa più paura
all’uomo, ma lo libera dalla paura dell’Altissimo, restituendogli
familiarità con lui. Certo, può essere deriso il figlio di Maria,
perfino ucciso! Ma il suo misericordioso prendersi cura della carne
ferita, la guarisce; sfidando la notte, la sua Luce dirada le nostre
tenebre permettendoci di conoscere l’Inconoscibile: «Dio nessuno l’ha
mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo
ha rivelato» (Gv 1,18). Ne è consapevole la Chiesa, che così loda e
ringrazia nella liturgia natalizia: «Nel mistero del Verbo incarnato è
apparsa agli occhi della nostra mente la luce nuova del tuo fulgore,
perché conoscendo Dio visibilmente siamo rapiti all’amore delle realtà
invisibili» (prefazio I di Natale). La testimonianza delle persone
consacrate non dovrebbe contraddistinguerle anzitutto come persone
rapite all’amore delle realtà invisibili?
Non deve sfuggire, in modo
particolare a chi ha scelto la vita consacrata, la valenza sacramentale
dell’accogliere Cristo che viene «tra la sua gente» nei santi misteri,
per farla diventare il suo prolungamento di incarnazione, e dunque di
comunione tra Dio e gli uomini. I verbi al passato del versetto di
Giovanni: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi», si
commutano in verbi al presente nell’Eucaristia: dimora di Cristo in noi
e in mezzo a noi. Il fare comunione al Corpo e al Sangue del Signore,
ogni volta che la facciamo, deve spingerci a dilatare lo spazio
accogliente per Colui che ha scelto i nostri cuori, anime, corpi,
umanità, per incarnarsi, nascere, dimorare, crescere, manifestarsi al
mondo. Oggi.
Il mistero del Verbo fatto carne
per abitare in mezzo a noi deve accompagnare il nostro pensare ed agire:
tra me e il mio confratello/consorella c’è Cristo; tra me e il mio
peccato c’è Cristo; tra me è il prepotente c’è Cristo; tra me e il
povero c’è Cristo; tra me e la mia malattia c’è Cristo; tra me e il mio
lavoro c’è Cristo; tra me e tutto ciò che mi circonda si dispiega il
riverbero dell’Incarnazione redentiva. Vivendo in quest’ottica, sarà più
facile vedere esaudita la nostra giusta supplica a Dio: «Risplenda nelle
nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro spirito» (colletta
della messa natalizia dell’aurora).
Il Natale di Cristo coniuga
inseparabilmente grazia divina e responsabilità umana. Prima di
altri, siamo dunque noi, suoi discepoli, ad essere singolarmente e
comunitariamente interpellati sull’accoglienza da riservare al Signore
che viene «tra la sua gente» nel presente momento storico del Natale
2003. Egli viene in quello che stiamo facendo, vivendo, soffrendo,
sperando, perseguendo… Viene nei nostri ritardi, per accelerare il
cammino. Viene nelle nostre miserie per colmarle di misericordia. Viene
nelle nostre povertà per trasformarle nella sua ricchezza. Viene nei
nostri “eccomi” per potenziarne la generosità.
Ecco perché, il versetto del
prologo di Giovanni: «Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno
accolto» non riguarda solo quanti hanno rifiutato Gesù appendendolo alla
croce! Riguarda anche a noi, ammonendoci a “diventare” figli e figlie
del Padre che sta nei cieli, icone visibili del Dio invisibile
manifestatosi a Natale. «Veramente la vita consacrata – ricorda il Papa
– costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù
come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli» (Vita
consecrata 22).
* Sacerdote
monfortano, liturgista, docente al Marianum di Roma
|