«O
gni cristiano, credo, si muove e lavora in
mezzo agli altri come i discepoli di Emmaus. Costoro erano in viaggio
verso il villaggio di Emmaus insieme con un forestiero (“Non sai dunque
nulla di ciò che avviene qui?”): dovettero condividere lo stesso pane
per riconoscere in lui Gesù (cfr Lc 24,13-35).
«E’ dall’inconosciuto e
come sconosciuto che il Signore arriva sempre nella propria casa
e dai suoi: “Ecco, io vengo come un ladro” (Ap 16,15; cfr 3,3).
Coloro che credono in lui sono chiamati incessantemente a riconoscerlo
così, abitante lontano o venuto da altrove, vicino irriconoscibile o
fratello separato, accostato per via, rinchiuso nelle prigioni,
alloggiato presso i derelitti, o ignorato, quasi mitico, in una regione
al di là delle nostre frontiere. Anche il mistico irrompe sempre nella
Chiesa come un guastafeste, un importuno, un estraneo. E’ stato così per
tutti i grandi movimenti spirituali o apostolici. Per contro, ogni
cristiano è tentato di diventare un inquisitore, come quello di
Dostoevskij, e di eliminare l’estraneo.
«Questo ci rimanda a
qualcosa di più sconcertante ancora, ma di fondamentale per la fede
cristiana: Dio resta lo sconosciuto, colui che non conosciamo,
pur credendo in lui; egli rimane l’estraneo per noi, nello spessore
dell’esperienza umana e delle nostre relazioni. Ma egli è altresì
misconosciuto, colui che non vogliamo riconoscere e che, come dice
Giovanni, non è accolto in casa propria, dai suoi (cfr Gv 1,11).
Ed è su questo, alla fine, che saremo giudicati, questo è l’esame
definitivo della vera vita cristiana: abbiamo accolto l’estraneo,
frequentato il prigioniero, dato ospitalità all’altro (Mt
25,35-36)?
«Bisogna essere
realisti. La Chiesa è una società. Ora, ogni società si definisce per
ciò che essa esclude. Si costituisce differenziandosi. Formare un gruppo
significa creare degli estranei. C’è qui una struttura bipolare,
essenziale a ogni società: essa pone un “di fuori” perché esista un “fra
noi”, delle frontiere perché si delinei un paese interno, degli “altri”
perché prenda corpo un “noi”.
Questa legge è anche un
principio di eliminazione e di intolleranza. Essa porta a dominare, in
nome di una verità definita dal gruppo. Per difendersi dall’estraneo, lo
si assorbe oppure lo si isola. Conquistar y pacificar: due
termini identici per gli antichi conquistadores spagnoli. Ma noi
non facciamo forse altrettanto, sia pure con la pretesa di comprendere
gli altri e, nel campo dell’etnologia per esempio, di identificarli con
ciò che sappiamo di loro e (pensiamo) meglio di loro?
«Proprio perché è anche
una società, benché di un genere particolare, la Chiesa è sempre tentata
di contraddire ciò che afferma, di difendersi, di obbedire a questa
legge che esclude o sopprime gli estranei, di identificare la verità con
ciò che essa dice della stessa, di contare i “buoni” in base ai propri
membri visibili, di ricondurre Dio a non essere nient’altro che la
giustificazione e l’idolo di un gruppo esistente. La storia
dimostra che questa tentazione è reale. Ciò pone un grave problema: è
possibile una società che testimoni Dio e non si limiti a fare di Dio il
proprio possesso?
«L’esperienza cristiana
rifiuta profondamente questa riduzione alla legge del gruppo, e ciò si
traduce in un movimento di superamento incessante. Si potrebbe
dire che la Chiesa è una setta che non accetta mai di esserlo. Essa è
attirata costantemente fuori di sé da quegli “estranei” che le tolgono i
suoi beni, che sempre sorprendono le elaborazioni e le istituzioni
faticosamente acquisite, e in cui la fede viva riconosce a poco a poco
il Ladro, il Veniente»1.
Questa lunga citazione
ci introduce immediatamente, anche con una certa durezza, nel cuore
stesso della riflessione in cui vorremmo addentrarci. Ci aiuta subito a
sgombrare il campo da due rischi fondamentali.
Il primo è pensare con
troppa facile poesia, con semplicistico irenismo, al tema dello
straniero, dell’altro, del diverso; come dice il testo, dobbiamo essere
realisti; la diversità ci inquieta e ci interroga, viene percepita come
minacciosa, pericolosa, a causa dei meccanismi base della nostra stessa
struttura di identità, personale e sociale. E per i credenti è ancora
più chiaro: solo nella Trinità la diversità delle persone è anche la
perfetta identità della natura, esperienza di comunione plurale e
distinta. Noi non siamo Dio, e, inoltre, siamo segnati dal peccato
originale: per noi la distanza è sempre anche lontananza, la distinzione
sempre anche minaccia. Solo una scelta etica, cosciente e ben vigile
sulle difficoltà da affrontare, solo una costruzione del proprio
percorso di vita dentro a una opzione fondamentale e dentro alle sue
conseguenze, chiaramente e fortemente individuate, consente una
conversione costante e progressiva a ciò che non è un generico “buon
istinto naturale”.
Ma questa, per dei
credenti, e si tratta del secondo rischio, non è una scelta marginale,
che riguarda una specie di “lusso”, di “un di più”, come se si potesse
essere cristiani e poi decidere se vivere o no la differenza come una
minaccia. Si tratta di qualcosa che riguarda il centro stesso
dell’esperienza della fede, qualcosa che ha poi sì molte conseguenze
concrete e differenziate, ma che, nella sostanza, è in se stessa la
grande questione radicale su cui si decide la nostra sequela di Cristo,
la nostra vita secondo lo Spirito e la nostra possibilità di
divinizzazione.
Dio, lo straniero della storia
Partiamo dunque da
questo punto: la questione è radicale perché il vero, grande, definitivo
Altro, straniero, è Dio stesso. Egli è tutto ciò che la storia non è,
egli è la potenzialità di ogni diversità possibile, perché egli stesso
ha posto noi come “altri” nella creazione, per instaurare e riconoscere
la nostra libertà come superiore alla nostra stessa capacità di averla.
E ha posto la nostra libertà perché noi potessimo essere in relazione,
scegliere il legame con lui come libero dalla necessità della identità.
Questa struttura di
diversità e relazione è la nostra struttura costitutiva: siamo diversi
da Dio, prima di ogni altra cosa, siamo creature e non creatori, e per
questo la relazione a lui non è solo possibile, ma libera ed elettiva.
In questo sta il grande paradosso del cristianesimo: ciò che è distinto
chiama, come compimento della libertà, un legame amoroso2.
Il paradigma per questa
distinzione e legame paradossali è nel Figlio fatto Uomo, perfettamente
obbediente nella sua totale umanità: ben ce lo esprime Calcedonia con la
formula tecnica circa le due nature in Gesù, distinte e non confuse,
perfettamente unite e mai separate, mai senza l’altro da sé.
Posti fin dalla
creazione come diversi da Dio, altri da lui e, contemporaneamente “a
immagine” (diversamente dal Figlio che, come ci dice Giovanni, è
“immagine”, diretta, senza preposizioni), siamo posti nella condizione
di abitare radicalmente questa frattura: la diversità, l’alterità ci
inquieta ed è insieme la condizione necessaria della nostra libertà e
pienezza.
Per questo la salvezza
che in Gesù ci raggiunge è definita come l’adozione a figli nel Figlio:
se egli ci “attira a sé”, allora potremo essere divinizzati, inseriti
cioè nel dialogo amoroso della Trinità che conserva ogni distinzione
nella perfetta comunione.
E’ questa la struttura
teologica base da cui prende le mosse, per il cristiano, la riflessione
su tutte le alterità che possiamo sperimentare, su tutte le differenze:
da qui, e solo da qui, possiamo ragionare su ciò che ci compete e ciò
che ci accade nella storia, su ciò a cui siamo chiamati e su quali sono
i passi necessari per camminare verso il Regno in cui tutto sarà reso al
Cristo e da Cristo al Padre.
Il primo passo: riconoscere la diversità
Dunque il primo passo
da individuare, e poi da compiere nella realtà, è riconoscere questa
diversità come un dato, ri-conoscerla, cioè darle il nome come ad un
qualcosa che era già nostro (nella creazione) e il cui senso, la cui
direzione è stata confusa con il peccato: la confusione delle lingue di
Babele ci ha fatto perdere “i nomi” (cioè, secondo il linguaggio mitico,
il senso, la realtà profonda e identificativa, e insieme il possesso e
il governo).
Si tratta di ritrovare,
nell’ascolto della parola, nella familiarità con Dio e il suo disegno
sulla storia, nell’accoglienza dello Spirito che, nella grazia dei
sacramenti, ci rende figli nel Figlio, ritrovare progressivamente la
conformazione originaria, come abitazione di una differenza pienamente
relazionale.
E la prima differenza
da ri-conoscere è, dunque, la differenza tra sé e sé: la diversità tra
la misura del desiderio che ci è posto in cuore e la possibilità della
natura che ci compete; la diversità non è esperienza da conoscere, come
un confine esterno che passa fuori di noi, laddove una pretesa unità
posseduta di se stessi si incontrerebbe con una diversità, altrettanto
posseduta, di altri. Per il credente, l’esperienza prima è che la
diversità ci attraversa, ci spacca il cuore: infatti, si tratta della
diversità tra l’immagine del Creatore e la realtà della creatura. Ben lo
esprime nella poesia David Maria Turoldo:
«Sempre dilaniato
dal «doppio pensiero»:
questo male non voluto
e voluto: conflitto e finzione
che durano da una vita:
figlio prodigo e fratello maggiore insieme
e tu,
a dare fondo alla tua pietà»3.
Non siamo una unità che
si possiede: siamo un desiderio che invoca, questo è il realismo del
credente4.
Ri-conoscere questa
diversità, che potremmo chiamare ontologica, è la base necessaria per
vivere da credenti anche tutte le diversità esterne, perché questo
“spossessamento” di sé è la condizione per affrontare l’altro, creatura,
come spossessato di sé, dunque non minaccioso, al di là di qualsiasi
atteggiamento concreto possa assumere.
Il secondo passo: diventare traduttori
Ma gli atteggiamenti
concreti esistono e, almeno nella storia, producono realtà, sia i
nostri, sia quelli dell’altro. Che fare allora?
Per usare un’immagine,
si tratta di diventare “traduttori”. In una società più statica, dove le
diversità erano giocate molto più sull’interno della struttura della
persona che non nella sua relazionalità esterna, forse l’immagine
dominante poteva essere quella del copista: si trattava di trasmettere e
conservare con fedeltà e cura il patrimonio di un equilibrio tra la
diversità del Creatore e quella della creatura e la loro necessaria e
libera relazionalità che secoli di cristianità avevano raggiunto. La
Summa di Tommaso è la cattedrale stupenda di un equilibrio tutto
percorso e conosciuto, rinominato con la luminosità di un diamante, in
cui ogni faccia rinfrange mille luci perfette.
La differenza
ontologica esisteva, ma si articolava in una storia che produceva (o si
proponeva di produrre) il contemplativo frutto dell’uguaglianza, della
trasmissione.
Ma poi è accaduto che
questo equilibrio si è spezzato: in un certo senso esso stesso ha
prodotto la propria necessità di superamento, come già ci diceva la
citazione posta all’inizio di questo articolo; le unità, tutte le unità,
si spezzano e si frantumano, lasciando solo rovine della stupenda
cattedrale, come se una invasione barbarica avesse attraversato tutto il
territorio.
Allora, come
intellettuali convertiti ai barbari e al sapere di cui sono portatori,
si tratta di divenire traduttori, senza diritti d’autore, evocatori di
paesaggi esotici e sconosciuti, che ci attirano anche quando non li
abbiamo mai visti; ciò che, ormai, si trasmette è il racconto, non solo
un contenuto definito, ma la narrazione di viaggi e percorsi, di luoghi
altri, di patrie desiderate da chi si sperimenta esiliato comunque.
«...Ma il copista muta
il suo corpo in parola dell’altro, imita e incarna il testo in una
liturgia della riproduzione; simultaneamente egli dà corpo al verbo (verbum
caro factum est) e fa del verbo il proprio corpo (hoc est corpum
meum), in un processo di assimilazione che cancella tutte le
differenze per dar luogo al sacramento della copia. Il traduttore, che a
sua volta esercita talora il mestiere di stampatore o di proto, è
operatore di differenziazione. Come l’etnologo, mette in scena una
regione straniera, anche se lo fa per renderla appropriata, lasciando
che turbi il suo linguaggio. Fabbrica dell’altro, ma in un campo che non
è prevalentemente il suo e dove non ha alcun diritto d’autore. Produce
senza luogo che gli appartenga, nello spazio intermedio, lungo la linea
dove, incontrandosi, più lingue si arrotolano su se stesse. Copista e
traduttore hanno la stessa resistenza, ostinata, il primo però in modo
contemplativo e con un rito di identificazione, mentre il secondo in
maniera più etica, con una produzione di alterità. Potrebbe darsi che la
storia della mistica avesse convertito il “copista” nel traduttore,
asceta che, prigioniero della lingua dell’altro, grazie ad essa crea un
possibile pur smarrendosi personalmente nella folla. Le maniere di
parlare, comunque, dipendono da questa operatività itinerante che non ha
un posto suo»5.
Diventare traduttori
non solo di parole e di lingue, ovviamente: si tratta di tradurre delle
realtà, di essere più preoccupati, nel concreto, di essere luogo di
transito che non depositari di “tutta la ragione” espressa in una lingua
incomprensibile, di farsi, sé e la propria vita, luogo di incontro, di
scambio, di progressiva comprensione reciproca.
Ritrovare parole comuni
nella realtà, ripercorrere i sentieri di Pentecoste, contrariamente a
Babele: Pentecoste, in cui non si torna a parlare la stessa lingua, ma
in cui ciascuno, con stupore, scopre di comprendere nella propria lingua
madre; la diversità non è cancellata, ma non ostacola più la comunione.
E’ questa operazione
che costituisce il secondo passo.
Il terzo passo: concittadini dei santi e familiari di Dio
Ed ecco dunque il
“risultato finale”, per quanto riguarda il tempo della storia:
l’esperienza della fraternità, una fraternità radicale, la cui misura è
la fraternità stabilita in Cristo, da Dio, con l’umanità.
Cristo, Parola del
Padre, suo Rivelatore, (ermeneuta, cioè traduttore!) ristabilisce il
legame, la possibilità di relazione che supera l’abisso della differenza
tra il Creatore e la creatura. In lui, ed in lui solo, ci è ridonata la
disponibilità di noi stessi e, dunque, della pienezza di una relazione
distinta e amorosa.
E il modo in cui Cristo
ristabilisce tutto questo non è l’affermazione di sé, della propria
identità, ma la perfetta obbedienza alla volontà del Padre, obbedienza
fino alla morte e alla morte di croce. E allora:
«Uomini vanno a Dio
nella loro tribolazione,
piangono per aiuto, chiedono felicità e pane,
salvezza dalla malattia, dalla colpa, dalla morte.
Così fan tutti, tutti, cristiani e pagani.
Uomini vanno a Dio
nella sua tribolazione,
lo trovano povero, oltraggiato, senza tetto né pane,
lo vedono consunto da peccati, debolezza, morte.
I cristiani stanno vicini a Dio nella sua sofferenza.
Dio va a tutti gli
uomini nella loro tribolazione,
sazia il corpo e l’anima del suo pane,
muore in croce per cristiani e pagani
e a questi e a quelli perdona»6.
Per i credenti in
Cristo, la fraternità radicale si stabilisce in rapporto a Dio, il
Padre, e alla sua volontà; andando a Dio (e non importa se il motivo è
la nostra tribolazione che porta tutti, cristiani e pagani, a cercare in
lui aiuto, oppure la sua tribolazione che porta i cristiani al desiderio
di stare accanto a lui, ai piedi della sua croce), qualunque sia il
motivo, andando comunque a lui ci si incontra per via e ci si ritrova
sotto il radicale perdono che Egli dispensa. In questa strada comune, in
questo perdono vicendevole si trova il fondamento di una fraternità (e
una sororità) non pragmatica, ma teologica.
E se la fraternità
pragmatica, quella individuata dalla prima strofa della poesia di D.
Bonhoeffer più sopra citata, non è certamente disprezzabile, anzi!, ma
rappresenta in sé già un livello alto della umanità possibile, se questo
è vero, è pur vero anche che per i cristiani la seconda strofa è
necessaria: il riconoscimento del dovere di rimanere presso Dio, nella
sua radicale fraternità alla storia, è la direzione di senso ultimo,
vero, spirituale. E questo consente di vedere già qui, nella storia, ciò
che a tutti sarà svelato alla fine del tempo: che tutti stiamo e viviamo
sotto il perdono misericordioso di Dio.
E nel frattempo...
E nel frattempo? Mentre
attendiamo che la piena verità della storia e di tutte le sue differenze
e diversità si mostri in una comunione grande come quella della Trinità,
mentre percorriamo le distanze per tessere traduzioni che ci consentano
di dialogare, mentre viviamo le tribolazioni che ci fanno chiedere a Dio
aiuto, conforto e salvezza?
Nel frattempo si tratta
di essere ancora e sempre sulla strada della schiettezza e della
rettitudine.
«Siamo stati testimoni
silenziosi di azioni malvage, ne sappiamo una più del diavolo, abbiamo
imparato l’arte della simulazione e del discorso ambiguo, l’esperienza
ci ha resi diffidenti nei confronti degli uomini e spesso siamo rimasti
in debito con loro della verità e di una parola libera, conflitti
insostenibili ci hanno resi arrendevoli o forse addirittura cinici:
possiamo ancora essere utili? Non di geni, di cinici, di dispregiatori
di uomini, di strateghi raffinati avremo bisogno, ma di uomini schietti,
semplici, retti.
La nostra forza di
resistenza interiore contro ciò che ci viene imposto sarà rimasta
abbastanza grande, e la sincerità verso noi stessi abbastanza
implacabile, da farci ritrovare la via della schiettezza e della
rettitudine?»7.
E’ una via umile (di
umiliazione, di abbassamento come quella del nostro Maestro), umile
innanzi tutto nella progettualità; ma in questa umiltà sta la chiave
dell’ingresso nella dinamica della obbedienza al Padre. E’ una via dura,
di rigore ed esigenza. Ma è la via che il Signore ha percorso prima di
noi. Ne esiste, forse, un’altra possibile per i suoi discepoli?