n. 4
aprile 2005

 

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PORTICO

Sulla strada di Émmaus

di  Diana Papa

 

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Immaginiamo per un attimo di essere tra i discepoli di Èmmaus, che lasciano Gerusalemme delusi per la morte di Gesù, in compagnia di speranze deluse e di paure nel cuore e riconosciamo nel profondo la tristezza che non consente di percepire che la vita continua.

Mettiamoci con loro a conversare di tutto quello che è accaduto a Gerusalemme, a discorrere e discutere insieme (cfr. Lc 26,14-15). Sembra che abbiano perso i punti di riferimento, a causa della perdita di una persona, della relazione autentica con Gesù Cristo ormai morto in croce.

L’incomprensibile conclusione della vita di Gesù che in qualche modo li aveva fatti sperare, li spinge ora a riempire i vuoti con il passatempo dell’argomentare. Sono assorbiti dalla grandiosità dei loro ragionamenti, tesi a confermare che ciò che avevano creduto è stata solo un’illusione. Cercano di spiegare con categorie puramente razionali un evento da accogliere solo con fede. Il loro modo di comportarsi dimostra che non basta stare con il Maestro per assumere uno sguardo contemplativo della vita.

I discepoli si trovano a percorrere le stesse miglia insieme e conversano. Sottraggono lo sguardo fiducioso dalla relazione con Gesù Cristo e lo rivolgono verso l’analisi dei fatti, unicamente per dirsi, ragionando, il loro senso di abbandono.

Sembrano bloccati a tal punto che, mentre camminano, non vedono niente e nessuno. Non si accorgono neanche di Gesù che, in persona, si accosta e cammina con loro (cfr. Lc 24,15).

I discepoli, noncuranti di questa presenza, continuano a cercare insistentemente una spiegazione dei fatti accaduti. Dimostrano di vivere la paura per il senso di abbandono da parte di Gesù Cristo, la rabbia, pur inespressa, per la conclusione della sua vita per la quale avevano investito tutte le loro energie, la tristezza per la vanificazione dei sogni ormai infranti.

Vivendo agganciati al sentimento di abbandono, sperimentano la solitudine alimentata dalla paura del futuro, dalla rabbia per il presente, dalla tristezza per ciò che è stato.

Quando manca la fede, si rimane ripiegati su se stessi, innescando, talvolta, la spirale della morte a tutti i livelli. Mettendo al centro il proprio io, l’individuo non si accorge degli altri, ma nemmeno di se stesso. È un inganno credere, infatti, che la persona preoccupata solo di sé e delle sue cose sia una persona vivente.

«Che cosa sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il vostro cammino?» (Lc 24,17). Gesù, ancora una volta, ascolta il grido degli smarriti di cuore e si fa compagno di viaggio, per dar loro parole di speranza. Sembra voglia guidarli a scoprire che nella vita si possono trovare sempre delle possibilità, delle opzioni. Rimanendo inchiodata al passato, o protesa solo verso il futuro, la persona si chiude in un intimismo che non rimanda né a Dio né ai fratelli. La sorpresa della vita del qui e ora, vissuta con fede, rivela Dio che continua a rendersi presente nella storia.

Gesù, rispettoso dei ritmi di conversione, non forza mai i tempi, non stravolge il naturale percorso umano. Egli accoglie le delusioni dei discepoli e non li giudica, in attesa che i discepoli acquistino la consapevolezza di sé, degli altri, della realtà, della storia come presenza visibile del Mistero. Quando si sceglie di non rimanere ancorati a ciò che distoglie dal presente, si ha la capacità di vedere e di guardare la vita con occhi liberi, di agire secondo il cuore di Dio nella storia.

È possibile che, durante il cammino lungo sette miglia, i discepoli non abbiano incontrato qualcuno? Dove erano l’orfano, la vedova e il forestiero? I discepoli ritirati da ogni tipo di relazione, non si accorgono di coloro che passano accanto, inchiodati come erano alla sola esperienza terrena di Gesù Cristo.

Egli, risorto, li riporta a dare un significato al passato, facendo riferimento a ciò che è stato detto dai profeti. Li aiuta a riprendere in mano la loro vita per risignificarla alla luce della risurrezione. Essi imparano, così, a sentire e vedere la vita, ascoltando la Scrittura. Si accorgono della presenza dell’Altro, imparano a cercare la relazione con l’Altro in un modo autentico. Passano, infatti, dalla relazione che soddisfa delle attese – Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele (Lc 24,21) – alla consapevolezza di Qualcuno che nell’oggi condivide la propria vita con i suoi – a tavola prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro (cfr. Lc 24,30) – e ai quali chiede di agire nella storia come lui.

Mentre la fragilità dei progetti e delle attese che richiamano la paura e la morte, a causa dell’interruzione della linea del futuro, conducono spesso ad usare e gettare il presente, Gesù Cristo continua ancora oggi ad affidare ai consacrati/e la missione di costruttori di ponti di relazioni. Egli si dona attraverso il pane spezzato e chiede di essere pane per i fratelli e le sorelle che si incontrano, a condividere il pane con loro.

La certezza di questa consegna fatta da Gesù ai suoi permette di sentire il cuore ardere nel petto, mentre parla attraverso le Scritture, e di ripercorrere senza incertezze la strada che va verso Gerusalemme, per essere testimoni di un amore che si dona fino al martirio.

I discepoli di Èmmaus, partiti da Gerusalemme con la tristezza nel cuore, ritornano dagli undici con la speranza, fondamento della gioia, per annunciare con passione che il Signore è risorto.

Come sarebbe bello che gli altri, le altre, potessero credere che il Signore è davvero risorto (cfr. Lc 24,34), solo perché, incontrandoci con la gioia nel cuore, si sentano riconosciute come persone da benedire e con le quali condividere il pane!

 

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