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Immaginiamo
per un attimo di essere tra i discepoli di Èmmaus, che lasciano
Gerusalemme delusi per la morte di Gesù, in compagnia di speranze deluse
e di paure nel cuore e riconosciamo nel profondo la tristezza che non
consente di percepire che la vita continua.
Mettiamoci con loro a conversare di
tutto quello che è accaduto a Gerusalemme, a discorrere e discutere
insieme (cfr. Lc 26,14-15). Sembra che abbiano perso i punti di
riferimento, a causa della perdita di una persona, della relazione
autentica con Gesù Cristo ormai morto in croce.
L’incomprensibile conclusione della
vita di Gesù che in qualche modo li aveva fatti sperare, li spinge ora a
riempire i vuoti con il passatempo dell’argomentare. Sono assorbiti
dalla grandiosità dei loro ragionamenti, tesi a confermare che ciò che
avevano creduto è stata solo un’illusione. Cercano di spiegare con
categorie puramente razionali un evento da accogliere solo con fede. Il
loro modo di comportarsi dimostra che non basta stare con il Maestro per
assumere uno sguardo contemplativo della vita.
I discepoli si trovano a percorrere
le stesse miglia insieme e conversano. Sottraggono lo sguardo fiducioso
dalla relazione con Gesù Cristo e lo rivolgono verso l’analisi dei
fatti, unicamente per dirsi, ragionando, il loro senso di abbandono.
Sembrano bloccati a tal punto che,
mentre camminano, non vedono niente e nessuno. Non si accorgono neanche
di Gesù che, in persona, si accosta e cammina con loro (cfr. Lc 24,15).
I discepoli, noncuranti di questa
presenza, continuano a cercare insistentemente una spiegazione dei fatti
accaduti. Dimostrano di vivere la paura per il senso di abbandono da
parte di Gesù Cristo, la rabbia, pur inespressa, per la conclusione
della sua vita per la quale avevano investito tutte le loro energie, la
tristezza per la vanificazione dei sogni ormai infranti.
Vivendo agganciati al sentimento di
abbandono, sperimentano la solitudine alimentata dalla paura del futuro,
dalla rabbia per il presente, dalla tristezza per ciò che è stato.
Quando manca la fede, si rimane
ripiegati su se stessi, innescando, talvolta, la spirale della morte a
tutti i livelli. Mettendo al centro il proprio io, l’individuo non si
accorge degli altri, ma nemmeno di se stesso. È un inganno credere,
infatti, che la persona preoccupata solo di sé e delle sue cose sia una
persona vivente.
«Che cosa sono questi discorsi che
state facendo fra voi durante il vostro cammino?» (Lc 24,17). Gesù,
ancora una volta, ascolta il grido degli smarriti di cuore e si fa
compagno di viaggio, per dar loro parole di speranza. Sembra voglia
guidarli a scoprire che nella vita si possono trovare sempre delle
possibilità, delle opzioni. Rimanendo inchiodata al passato, o protesa
solo verso il futuro, la persona si chiude in un intimismo che non
rimanda né a Dio né ai fratelli. La sorpresa della vita del qui e
ora, vissuta con fede, rivela Dio che continua a rendersi
presente nella storia.
Gesù, rispettoso dei ritmi di
conversione, non forza mai i tempi, non stravolge il naturale percorso
umano. Egli accoglie le delusioni dei discepoli e non li giudica, in
attesa che i discepoli acquistino la consapevolezza di sé, degli altri,
della realtà, della storia come presenza visibile del Mistero. Quando si
sceglie di non rimanere ancorati a ciò che distoglie dal presente, si ha
la capacità di vedere e di guardare la vita con occhi liberi, di agire
secondo il cuore di Dio nella storia.
È possibile che, durante il cammino
lungo sette miglia, i discepoli non abbiano incontrato qualcuno? Dove
erano l’orfano, la vedova e il forestiero? I discepoli ritirati da ogni
tipo di relazione, non si accorgono di coloro che passano accanto,
inchiodati come erano alla sola esperienza terrena di Gesù Cristo.
Egli, risorto, li riporta a dare un
significato al passato, facendo riferimento a ciò che è stato detto dai
profeti. Li aiuta a riprendere in mano la loro vita per risignificarla
alla luce della risurrezione. Essi imparano, così, a sentire e vedere la
vita, ascoltando la Scrittura. Si accorgono della presenza dell’Altro,
imparano a cercare la relazione con l’Altro in un modo autentico.
Passano, infatti, dalla relazione che soddisfa delle attese – Noi
speravamo che fosse lui a liberare Israele (Lc 24,21) – alla
consapevolezza di Qualcuno che nell’oggi condivide la propria vita con i
suoi – a tavola prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo
diede loro (cfr. Lc 24,30) – e ai quali chiede di agire nella storia
come lui.
Mentre la fragilità dei progetti e
delle attese che richiamano la paura e la morte, a causa
dell’interruzione della linea del futuro, conducono spesso ad usare e
gettare il presente, Gesù Cristo continua ancora oggi ad affidare ai
consacrati/e la missione di costruttori di ponti di relazioni. Egli si
dona attraverso il pane spezzato e chiede di essere pane per i fratelli
e le sorelle che si incontrano, a condividere il pane con loro.
La certezza di questa consegna fatta
da Gesù ai suoi permette di sentire il cuore ardere nel petto, mentre
parla attraverso le Scritture, e di ripercorrere senza incertezze la
strada che va verso Gerusalemme, per essere testimoni di un amore che si
dona fino al martirio.
I discepoli di Èmmaus, partiti da
Gerusalemme con la tristezza nel cuore, ritornano dagli undici con la
speranza, fondamento della gioia, per annunciare con passione che il
Signore è risorto.
Come sarebbe bello che gli altri, le
altre, potessero credere che il Signore è davvero risorto (cfr. Lc
24,34), solo perché, incontrandoci con la gioia nel cuore, si sentano
riconosciute come persone da benedire e con le quali condividere il
pane!
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