L'esigenza
insita nella vocazione alla vita religiosa è la tensione alla santità;
siamo chiamate a essere lievito, segno e profezia della santità della
Chiesa. Non solo siamo chiamate a essere sante, ma anche a essere viste
come sante. Un segno, se esiste, si vede: «Nessuno accende una
lampada per metterla sotto il moggio; la pone invece sul lampadario,
perché chi entra veda la luce» (Lc 8,16). Non solo essere, ma anche
essere visti come santi. La mancanza di visibilità di essere donne di
Dio contraddice la natura del “segno”. I religiosi, e le religiose, sono
visti come uomini e donne impegnati in ogni genere di attività sociale.
Per usare un linguaggio più comune, sono visti più per quello che fanno
che per quello che sono. è
vero che l’abito non fa il monaco. In effetti ciò che conta è il
loro stile di vita. Ora il loro stile essenziale dovrebbe essere quello
che li porta ad essere lievito e profezia. E tuttavia se è facile
comprendere che cosa significhi essere lievito, non è così per l’essere
profeti.
Ripensare la storia
Il profeta è colui che interpreta la storia.
E la croce della storia fa nascere la domanda sul suo significato: le
interruzioni e le cadute, le riprese e i nuovi inizi pongono
l’interrogativo inevitabile intorno a un possibile senso di tutto
questo. «L’interpretazione della storia è in ultima analisi un
tentativo di comprendere il senso e l’agire del patire degli uomini in
essa»1. Profeta è colui che sa
riscattare la dignità della storia attraverso la trasformazione profonda
della vita delle persone. La storia com’è, perché c’è tanto male, tanta
violenza, perché le cose non vanno come le avevamo pensate. C’è solo da
riconciliarci con questa storia, cioè di aiutarci ad amare e amarla
profondamente. Occorre imparare a dire la famosa espressione del Cantico
dei Cantici: «come sei bella amica mia», aiutarci a riconoscere
che questa umanità, a parte le sue ferite, è l’unica umanità di Dio.
Questo Dio che amiamo e che professiamo, che celebriamo come
profondamente presente nelle nostre storie, lo dobbiamo cercare lì. Non
ci sono scappatoie: nella nostra vita il punto di partenza è la
quotidianità. Dio va cercato là, nella storia, non nelle immagini che
abbiamo di Lui. Che cosa intendiamo per Dio?
Cambiare l’immagine di Dio è necessario,
perché l’immagine non è Dio. L’immagine di Dio che ci siamo fatte è
provvisoria e funzionale al cammino della fede e della speranza. Alcuni
filosofi, sottolineando questo fatto, lo hanno radicalizzato. Ma è
innegabile che ogni immagine che ci formiamo è proiettiva. Contiene cioè
una componente che nasce dalle esigenze, dai modelli culturali, dalla
modalità di interpretare il mondo e la vita, propri di ciascuna persona
e di ciascuna epoca. Per questo i grandi mistici hanno insistito sulla
necessità di distaccarsi dalle immagini di Dio per trovare Dio e vivere
rapporti autentici con Lui2. Tutti
i mistici continuamente ripetono che Dio può essere incontrato solo nel
silenzio totale, cioè nell’abbandono di tutte le parole, di tutte le
immagini, perché ogni parola, ogni immagine umana è mediazione, ossia
s’interpone tra la Realtà e la nostra mente.
Se le cose stanno in questo modo, dobbiamo
interrogarci e riconciliarci con la storia come qualcosa di realmente
importante, come unico tempio dove Dio ha preso volto e casa. Non ci può
essere incompatibilità tra la relazione mistica con il Cristo risorto e
l’impegno di seguirlo sulle tracce del regno di Dio nelle intricate
vicende della storia e nella lotta per difendere il diritto dell’uomo
alla vita piena, ossia il diritto di soddisfare i suoi bisogni reali.
Noi religiose siamo state formate a un tipo di fede e di spiritualità
che ci trattiene nella ragione.
è
una spiritualità congelata nella filosofia dell’essere, non più attuale
per l’urgenza di costruire un’etica. Ed etica vuol dire relazione di
vita, non ragione. Lévinas definisce questa ragione numinosa, ossia
invisibile, tale da giustificare il non assumere pienamente la
responsabilità del Regno. Noi dovremmo semplificare la religiosità e
renderla più vicina ai bisogni reali dei poveri. C’è troppo
“invisibile”, troppo arcano. La direzione della vita religiosa pare
dimostrare che la santità ha il suo epicentro nell’al di là,
nell’invisibile, o in una carità molto più vicina all’elemosina che alla
responsabilità e all’impegno per un mondo più giusto. «Cercate il
regno di Dio e la sua giustizia», ha detto Gesù. Dove?
Conoscere i segni dei tempi
Il regno di Dio centro della predicazione di
Gesù si accompagna alla capacità di discernere i segni dei tempi, a
comprendere il tempo in forma profetica. Non in forma pragmatica, sulla
quale scende il rimprovero di Gesù ai capi del suo tempo e ai capi di
tutti i tempi:
«Voi sapete distinguere bene l’oggi: oggi
farà buon tempo perché il cielo è rosso. E di mattina: oggi pioverà
perché il cielo è rosso scuro; ma non siete capaci di conoscere i segni
dei tempi» (Mt 16,1-4).
Diversamente dal Concilio, che voleva un
progetto pastorale per un mondo secolarizzato, la vita religiosa ha
seguito un indirizzo di spiritualità parallela al mondo secolarizzato.
Il richiamo a conoscere i segni dei tempi è stato tradito. La vita
religiosa è passata attraverso un processo di spiritualizzazione e di
clericalizzazione radicale. Per ritornare alla profezia, penso che la
migliore via sia quella della testimonianza della fede. La vita
religiosa al suo interno deve esprimere la fede cristiana, quella
espressa da Gesù. La fede che non è idea, concetto, ma sale, luce,
lievito. è urgente che i
religiosi si accorgano che si sta passando dall’epoca dominata dal
concetto, dall’idea dell’essere, all’epoca del fatto, del reale. La vita
religiosa è sfidata dalla stessa storia a portare alle ultime
conseguenze il senso dell’Incarnazione.
La vita religiosa ha spiritualizzato il
discorso che Dio rivolgeva all’umanità. Dio parla all’umanità non solo
attraverso la parola, ma soprattutto con la decisione di farsi prossimo
all’uomo, per renderlo collaboratore della creazione, ispirato e guidato
dall’amore. La storia, che nel significato biblico è il racconto di
questa prossimità, è divenuta il luogo dove esercitare le virtù per
prepararsi all’eternità. La storia per l’uomo spirituale è l’elemento in
cui si muove la vita dello spirito. La vita spirituale – inoltre – noi
l’abbiamo messa dentro una storia individuale di salvezza, di
redenzione, di purificazione, in cui il risultato dipende in gran parte
dalla grazia, dall’aiuto che viene dall’alto. Così i religiosi hanno
fatto della vita una occasione e una preparazione per il cielo. C’è da
augurarsi un cambio rivoluzionario nelle nostre comunità. La grazia
della libertà che Cristo ci ha donato non è la libertà dalla materia,
dal sensibile, come ci insegnava una filosofia spiritualista, ma è una
libertà dentro le cose, dentro la storia.
Lo Spirito non ci libera separandoci dal
materiale, come ci insegna il platonismo, ma ci libera assumendo la sua
realtà che implica un essere con gli altri e un essere con le cose.
Gustare profondamente il «tutto è vostro» di Paolo, tutto è
vostro, perché nulla è mio. L’uomo spirituale è colui che ha raggiunto
quella relazione per cui il nostro volto è aperto continuamente ad
accogliere i messaggi di dolore, di gioia, di bisogno, di aiuto, di
protezione, che ci inviano altri volti che incontriamo. Vuol dire amare
al di là dell’erotismo egoista. Questo non si raggiunge nella
solitudine, ma nella relazione concreta.
Ecco perché io sono disposta ad affermare con
molta forza che la santità è prima di tutto, o allo stesso tempo, etica.
Non possiamo pensare che Dio, attraverso gli eventi storici, «i segni
dei tempi», ci mostri un cammino differente, un’altra maniera di
essere santi. «Santo» – diceva Platone – «è colui che piace
agli dei». La domanda “io piaccio a Dio?” ci viene rimandata.
Ti sei proposto con il tuo vivere di non fare male agli altri? Del
Maestro Gesù è detto che passava facendo del bene, a chi? A Dio? Non ne
ha nessun bisogno. All’altro! Quello che avete fatto all’altro l’avete
fatto a me. Non è una sfumatura il dire «l’avete fatto a me!»,
perché questo atto di giustizia etico è un atto religioso,
intrinsecamente è un atto di amore verso Dio.
Bisogna superare il dualismo nell’etica,
nella relazione. Il vero ateismo è questa separazione di Dio dall’umano.
Non si tratta di rinunciare al trascendente. Occorre raggiungere il
trascendente passando per l’umano o più esplicitamente l’etico.
Includendo in questa parola la responsabilità verso gli altri e verso il
mondo. Non possiamo accettare santi/e che abbiano collezionato tutte le
virtù, meno la responsabilità verso gli altri e verso il mondo. Il santo
è il samaritano preso dalla compassione per l’uomo incappato nei
briganti. Compassione è una parola fortissima, che nella radice greca
rinvia all’utero femminile, alle viscere di tenerezza. La tenerezza che
cambia i nostri criteri, il nostro modo di pensare e di agire. Essa
compie il volto storico della Pasqua. L’accostarsi di Dio all’uomo.
Fratel Réné Voillaume lo aveva profetizzato già negli anni ’50, quando
scriveva:
«Forse entreremo in un’epoca della storia
del genere umano che sarà il tempo della compassione, nell’impotenza di
trovare soluzioni ai problemi posti. Sarà più che mai necessario
offrirci in intercessione, in comunione al sacrificio del Signore,
immergendoci nella sua Eucaristia»3.
L’Eucaristia dispone e genera l’uomo all’eccomi
di fronte a Dio, come Gesù l’Unigenito. La presenza di Dio è
condizionata all’“eccomi” dell’uomo. Non vi siete mai fermate sul
senso profondo, sulla conseguenza, chiara come il sole, della parola “eccomi”
pronunziata nella storia da due esseri umani? «Allora Maria disse:
“Eccomi”» (Lc 1,38). E Gesù, al Padre che è stanco della forma di
pregare degli uomini, dice: «Eccomi, io vengo a fare la tua volontà»
(Eb 10,9). Eccomi è l’atteggiamento che stabilisce la relazione
fra Gesù e chi viene chiamato a Lui.
L’unico legame che veramente conta nella
logica del Regno è il rapporto discepolare. I religiosi, le religiose,
devono tornare a essere discepoli/e. Che cosa significa essere
discepoli? è un fatto che
avviene nell’intimo e coinvolge le intenzioni di Dio, difficilmente
esplorabile. Non è solo il fatto episodico per cui Gesù incontra
qualcuno e gli dice «seguimi», ma è un coinvolgimento pieno e
immediato nella realtà del Regno. Gesù non è uomo della legge, è uomo
del rapporto. Quando Egli chiama qualcuno, lo chiama a una condivisione
più profonda del suo evento. Seguire Gesù mette in gioco tutto il
destino del discepolo e lo invita a scoprire il fascino del Regno. E,
tuttavia, il Regno di Dio, anche se affascina e scuote, anche se cambia
profondamente l’esistenza, non ipnotizza, ma interpella.
La disponibilità che Gesù chiede è totale e
si rende possibile per mezzo di quell’atteggiamento che nei vangeli, con
un termine figurato, denso di equivoci, chiamano morire a se stessi e
che la tradizione cristiana chiamerà abnegazione, ma che è soprattutto
libertà rispetto a schemi e sicurezze umane. Anche rispetto a se stessi;
perché l’egocentrismo, il rifiuto di darsi, il rifiuto di rischiare si
radicano soprattutto nel timore di perdere e di perdersi. I discepoli di
Gesù sono persone che amano la vita così profondamente da non accettare
di renderla banale. E se sono chiamati a dire come Gesù: «Si faccia
non la mia ma la tua volontà», non è per rifiutare la propria vita,
ma per avvalorarla, per rendere testimonianza a un Dio solidale con gli
esseri umani. Possono accettare anche di morire per gli altri, ma non
per amore della morte. Non si tratta di rifiutare la vita o la felicità,
ma l’ipocrisia e il compromesso.
Una
profezia è tale quando qualcuno la compie
Incoraggiare la vita religiosa per un impegno
storico-profetico è necessità dell’oggi, in cui accanto alle antiche
forme di vita religiosa ne nascono di nuove, il cui posto non appare
chiaro nella storia. Esse sembrano disattendere l’impegno
storico-profetico per dare alla persona pacificazione e consolazione.
Osserva B. Secondin: «Ci si è spostati da un messianismo storico
sociale a un messianismo individuale che impedisce una presa di
posizione nella storia». In realtà le comunità storiche hanno
bisogno delle nuove e viceversa. Le prime sono chiamate a confrontarsi e
a ridimensionare la loro eredità. Le seconde sono chiamate a rielaborare
l’ispirazione originaria e a farla integrare con il kairos
dell’oggi.
«Il lascito di un profeta, il “mantello”
che Eliseo ha raccolto da Elia, è simbolo del dato che la vita religiosa
non la si inventa e non la si crea dal nulla: la si riceve e da essa si
è generati nell’obbedienza al Vangelo e alla voce di Dio presente nella
storia» (Enzo Bianchi).
Occorre instaurare un dialogo fraterno
nell’apertura allo Spirito. Si tratta di abbattere i muri, di uscire dai
ghetti della nostra mentalità, delle nostre piccole o grandi
appartenenze e allargare gli orizzonti. Entrare nella dimensione di
appartenere alla vita è la cosa più importante. Sciogliere le nostre
paure e resistenze a tenere insieme il nuovo e l’antico, la passione per
Cristo e la passione per l’umanità e condividere la comune sete della
vita.
Di fronte alla tentazione di fissarci in noi
stessi o di guardare indietro, la risposta è di spostarsi nei luoghi
dove risuona la parola di Dio, dove si fa memoria di Gesù, i luoghi
dell’alternativa, del sogno di una vita differente. Occorre accorgerci
che la vita è profondamente abitata dal mistero. Una teologa domenicana,
Antonietta Potente, chiama questa dimensione la religiosità della vita e
in essa scorge il rovesciamento della vita religiosa per dare a tutti la
possibilità di una nuova familiarità con il mistero. Noi non siamo così
familiari con il mistero come pensiamo. Siamo familiari con la
religione, con le nostre ideologie religiose, con i nostri stili, con i
nostri modi di vivere la religione, ma non con il mistero.
Il mistero è Cristo. Cristo è l’annuncio
della vita umana. Vivere il Vangelo con semplicità e pochi mezzi è una
scelta mistica e politica, che consente di incontrare oggi il Signore
della vita. Allora «La notte è anche un sole» (Beata Angela da Foligno).
E se i tempi sono tristi è tempo di speranze, non di paure. La paura ha
segnato fin troppo il nostro rapporto con il mondo, il nostro rapporto
con gli altri, perché ci è stato detto che l’uomo è per l’uomo un lupo.
La vita religiosa, invece, dovrebbe restituire all’umano la possibilità
di fratellanza come la sua radice più propria, perché l’uomo è per
l’uomo.
Se la vita religiosa vuole conoscere un nuovo
rilancio, deve ritrovare il suo spessore antropologico, il suo statuto
di marginalità e di flessibilità carismatica, deve essere capace di
intuire nuovi bisogni e inventare nuove forme di aggregazione sui
valori. Credo che non sia dei religiosi vendere pane: è dei religiosi
essere lievito che tutto fermenta – osservava acutamente B. Secondin in
una intervista rilasciata alla rivista Jesus –. Il lievito ha il
suo luogo dentro la pasta: occorre abitare questa nostra storia e non
vivere a cespuglio, preoccupati del proprio particolare, magari sulla
base di progetti dettati dalla paura e dalla nevrosi di sopravvivere
comunque.
Note