n. 10
ottobre 2005

 

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La vita religiosa abita ancora la storia?
(seconda parte)

di Fernanda Barbiero *

 

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L'esigenza insita nella vocazione alla vita religiosa è la tensione alla santità; siamo chiamate a essere lievito, segno e profezia della santità della Chiesa. Non solo siamo chiamate a essere sante, ma anche a essere viste come sante. Un segno, se esiste, si vede: «Nessuno accende una lampada per metterla sotto il moggio; la pone invece sul lampadario, perché chi entra veda la luce» (Lc 8,16). Non solo essere, ma anche essere visti come santi. La mancanza di visibilità di essere donne di Dio contraddice la natura del “segno”. I religiosi, e le religiose, sono visti come uomini e donne impegnati in ogni genere di attività sociale. Per usare un linguaggio più comune, sono visti più per quello che fanno che per quello che sono. è vero che l’abito non fa il monaco. In effetti ciò che conta è il loro stile di vita. Ora il loro stile essenziale dovrebbe essere quello che li porta ad essere lievito e profezia. E tuttavia se è facile comprendere che cosa significhi essere lievito, non è così per l’essere profeti.

Ripensare la storia

Il profeta è colui che interpreta la storia. E la croce della storia fa nascere la domanda sul suo significato: le interruzioni e le cadute, le riprese e i nuovi inizi pongono l’interrogativo inevitabile intorno a un possibile senso di tutto questo. «L’interpretazione della storia è in ultima analisi un tentativo di comprendere il senso e l’agire del patire degli uomini in essa»1. Profeta è colui che sa riscattare la dignità della storia attraverso la trasformazione profonda della vita delle persone. La storia com’è, perché c’è tanto male, tanta violenza, perché le cose non vanno come le avevamo pensate. C’è solo da riconciliarci con questa storia, cioè di aiutarci ad amare e amarla profondamente. Occorre imparare a dire la famosa espressione del Cantico dei Cantici: «come sei bella amica mia», aiutarci a riconoscere che questa umanità, a parte le sue ferite, è l’unica umanità di Dio. Questo Dio che amiamo e che professiamo, che celebriamo come profondamente presente nelle nostre storie, lo dobbiamo cercare lì. Non ci sono scappatoie: nella nostra vita il punto di partenza è la quotidianità. Dio va cercato là, nella storia, non nelle immagini che abbiamo di Lui. Che cosa intendiamo per Dio?

Cambiare l’immagine di Dio è necessario, perché l’immagine non è Dio. L’immagine di Dio che ci siamo fatte è provvisoria e funzionale al cammino della fede e della speranza. Alcuni filosofi, sottolineando questo fatto, lo hanno radicalizzato. Ma è innegabile che ogni immagine che ci formiamo è proiettiva. Contiene cioè una componente che nasce dalle esigenze, dai modelli culturali, dalla modalità di interpretare il mondo e la vita, propri di ciascuna persona e di ciascuna epoca. Per questo i grandi mistici hanno insistito sulla necessità di distaccarsi dalle immagini di Dio per trovare Dio e vivere rapporti autentici con Lui2. Tutti i mistici continuamente ripetono che Dio può essere incontrato solo nel silenzio totale, cioè nell’abbandono di tutte le parole, di tutte le immagini, perché ogni parola, ogni immagine umana è mediazione, ossia s’interpone tra la Realtà e la nostra mente.

Se le cose stanno in questo modo, dobbiamo interrogarci e riconciliarci con la storia come qualcosa di realmente importante, come unico tempio dove Dio ha preso volto e casa. Non ci può essere incompatibilità tra la relazione mistica con il Cristo risorto e l’impegno di seguirlo sulle tracce del regno di Dio nelle intricate vicende della storia e nella lotta per difendere il diritto dell’uomo alla vita piena, ossia il diritto di soddisfare i suoi bisogni reali. Noi religiose siamo state formate a un tipo di fede e di spiritualità che ci trattiene nella ragione.

è una spiritualità congelata nella filosofia dell’essere, non più attuale per l’urgenza di costruire un’etica. Ed etica vuol dire relazione di vita, non ragione. Lévinas definisce questa ragione numinosa, ossia invisibile, tale da giustificare il non assumere pienamente la responsabilità del Regno. Noi dovremmo semplificare la religiosità e renderla più vicina ai bisogni reali dei poveri. C’è troppo “invisibile”, troppo arcano. La direzione della vita religiosa pare dimostrare che la santità ha il suo epicentro nell’al di là, nell’invisibile, o in una carità molto più vicina all’elemosina che alla responsabilità e all’impegno per un mondo più giusto. «Cercate il regno di Dio e la sua giustizia», ha detto Gesù. Dove?

 

Conoscere i segni dei tempi

Il regno di Dio centro della predicazione di Gesù si accompagna alla capacità di discernere i segni dei tempi, a comprendere il tempo in forma profetica. Non in forma pragmatica, sulla quale scende il rimprovero di Gesù ai capi del suo tempo e ai capi di tutti i tempi:

«Voi sapete distinguere bene l’oggi: oggi farà buon tempo perché il cielo è rosso. E di mattina: oggi pioverà perché il cielo è rosso scuro; ma non siete capaci di conoscere i segni dei tempi» (Mt 16,1-4).

Diversamente dal Concilio, che voleva un progetto pastorale per un mondo secolarizzato, la vita religiosa ha seguito un indirizzo di spiritualità parallela al mondo secolarizzato. Il richiamo a conoscere i segni dei tempi è stato tradito. La vita religiosa è passata attraverso un processo di spiritualizzazione e di clericalizzazione radicale. Per ritornare alla profezia, penso che la migliore via sia quella della testimonianza della fede. La vita religiosa al suo interno deve esprimere la fede cristiana, quella espressa da Gesù. La fede che non è idea, concetto, ma sale, luce, lievito. è urgente che i religiosi si accorgano che si sta passando dall’epoca dominata dal concetto, dall’idea dell’essere, all’epoca del fatto, del reale. La vita religiosa è sfidata dalla stessa storia a portare alle ultime conseguenze il senso dell’Incarnazione.

La vita religiosa ha spiritualizzato il discorso che Dio rivolgeva all’umanità. Dio parla all’umanità non solo attraverso la parola, ma soprattutto con la decisione di farsi prossimo all’uomo, per renderlo collaboratore della creazione, ispirato e guidato dall’amore. La storia, che nel significato biblico è il racconto di questa prossimità, è divenuta il luogo dove esercitare le virtù per prepararsi all’eternità. La storia per l’uomo spirituale è l’elemento in cui si muove la vita dello spirito. La vita spirituale – inoltre – noi l’abbiamo messa dentro una storia individuale di salvezza, di redenzione, di purificazione, in cui il risultato dipende in gran parte dalla grazia, dall’aiuto che viene dall’alto. Così i religiosi hanno fatto della vita una occasione e una preparazione per il cielo. C’è da augurarsi un cambio rivoluzionario nelle nostre comunità. La grazia della libertà che Cristo ci ha donato non è la libertà dalla materia, dal sensibile, come ci insegnava una filosofia spiritualista, ma è una libertà dentro le cose, dentro la storia.

Lo Spirito non ci libera separandoci dal materiale, come ci insegna il platonismo, ma ci libera assumendo la sua realtà che implica un essere con gli altri e un essere con le cose. Gustare profondamente il «tutto è vostro» di Paolo, tutto è vostro, perché nulla è mio. L’uomo spirituale è colui che ha raggiunto quella relazione per cui il nostro volto è aperto continuamente ad accogliere i messaggi di dolore, di gioia, di bisogno, di aiuto, di protezione, che ci inviano altri volti che incontriamo. Vuol dire amare al di là dell’erotismo egoista. Questo non si raggiunge nella solitudine, ma nella relazione concreta.

Ecco perché io sono disposta ad affermare con molta forza che la santità è prima di tutto, o allo stesso tempo, etica. Non possiamo pensare che Dio, attraverso gli eventi storici, «i segni dei tempi», ci mostri un cammino differente, un’altra maniera di essere santi. «Santo» – diceva Platone – «è colui che piace agli dei». La domanda “io piaccio a Dio?” ci viene rimandata. Ti sei proposto con il tuo vivere di non fare male agli altri? Del Maestro Gesù è detto che passava facendo del bene, a chi? A Dio? Non ne ha nessun bisogno. All’altro! Quello che avete fatto all’altro l’avete fatto a me. Non è una sfumatura il dire «l’avete fatto a me!», perché questo atto di giustizia etico è un atto religioso, intrinsecamente è un atto di amore verso Dio.

Bisogna superare il dualismo nell’etica, nella relazione. Il vero ateismo è questa separazione di Dio dall’umano. Non si tratta di rinunciare al trascendente. Occorre raggiungere il trascendente passando per l’umano o più esplicitamente l’etico. Includendo in questa parola la responsabilità verso gli altri e verso il mondo. Non possiamo accettare santi/e che abbiano collezionato tutte le virtù, meno la responsabilità verso gli altri e verso il mondo. Il santo è il samaritano preso dalla compassione per l’uomo incappato nei briganti. Compassione è una parola fortissima, che nella radice greca rinvia all’utero femminile, alle viscere di tenerezza. La tenerezza che cambia i nostri criteri, il nostro modo di pensare e di agire. Essa compie il volto storico della Pasqua. L’accostarsi di Dio all’uomo. Fratel Réné Voillaume lo aveva profetizzato già negli anni ’50, quando scriveva:

«Forse entreremo in un’epoca della storia del genere umano che sarà il tempo della compassione, nell’impotenza di trovare soluzioni ai problemi posti. Sarà più che mai necessario offrirci in intercessione, in comunione al sacrificio del Signore, immergendoci nella sua Eucaristia»3.

L’Eucaristia dispone e genera l’uomo all’eccomi di fronte a Dio, come Gesù l’Unigenito. La presenza di Dio è condizionata all’“eccomi” dell’uomo. Non vi siete mai fermate sul senso profondo, sulla conseguenza, chiara come il sole, della parola “eccomi” pronunziata nella storia da due esseri umani? «Allora Maria disse: “Eccomi”» (Lc 1,38). E Gesù, al Padre che è stanco della forma di pregare degli uomini, dice: «Eccomi, io vengo a fare la tua volontà» (Eb 10,9). Eccomi è l’atteggiamento che stabilisce la relazione fra Gesù e chi viene chiamato a Lui.

L’unico legame che veramente conta nella logica del Regno è il rapporto discepolare. I religiosi, le religiose, devono tornare a essere discepoli/e. Che cosa significa essere discepoli? è un fatto che avviene nell’intimo e coinvolge le intenzioni di Dio, difficilmente esplorabile. Non è solo il fatto episodico per cui Gesù incontra qualcuno e gli dice «seguimi», ma è un coinvolgimento pieno e immediato nella realtà del Regno. Gesù non è uomo della legge, è uomo del rapporto. Quando Egli chiama qualcuno, lo chiama a una condivisione più profonda del suo evento. Seguire Gesù mette in gioco tutto il destino del discepolo e lo invita a scoprire il fascino del Regno. E, tuttavia, il Regno di Dio, anche se affascina e scuote, anche se cambia profondamente l’esistenza, non ipnotizza, ma interpella.

La disponibilità che Gesù chiede è totale e si rende possibile per mezzo di quell’atteggiamento che nei vangeli, con un termine figurato, denso di equivoci, chiamano morire a se stessi e che la tradizione cristiana chiamerà abnegazione, ma che è soprattutto libertà rispetto a schemi e sicurezze umane. Anche rispetto a se stessi; perché l’egocentrismo, il rifiuto di darsi, il rifiuto di rischiare si radicano soprattutto nel timore di perdere e di perdersi. I discepoli di Gesù sono persone che amano la vita così profondamente da non accettare di renderla banale. E se sono chiamati a dire come Gesù: «Si faccia non la mia ma la tua volontà», non è per rifiutare la propria vita, ma per avvalorarla, per rendere testimonianza a un Dio solidale con gli esseri umani. Possono accettare anche di morire per gli altri, ma non per amore della morte. Non si tratta di rifiutare la vita o la felicità, ma l’ipocrisia e il compromesso.

 

Una profezia è tale quando qualcuno la compie

Incoraggiare la vita religiosa per un impegno storico-profetico è necessità dell’oggi, in cui accanto alle antiche forme di vita religiosa ne nascono di nuove, il cui posto non appare chiaro nella storia. Esse sembrano disattendere l’impegno storico-profetico per dare alla persona pacificazione e consolazione. Osserva B. Secondin: «Ci si è spostati da un messianismo storico sociale a un messianismo individuale che impedisce una presa di posizione nella storia». In realtà le comunità storiche hanno bisogno delle nuove e viceversa. Le prime sono chiamate a confrontarsi e a ridimensionare la loro eredità. Le seconde sono chiamate a rielaborare l’ispirazione originaria e a farla integrare con il kairos dell’oggi.

«Il lascito di un profeta, il “mantello” che Eliseo ha raccolto da Elia, è simbolo del dato che la vita religiosa non la si inventa e non la si crea dal nulla: la si riceve e da essa si è generati nell’obbedienza al Vangelo e alla voce di Dio presente nella storia» (Enzo Bianchi).

Occorre instaurare un dialogo fraterno nell’apertura allo Spirito. Si tratta di abbattere i muri, di uscire dai ghetti della nostra mentalità, delle nostre piccole o grandi appartenenze e allargare gli orizzonti. Entrare nella dimensione di appartenere alla vita è la cosa più importante. Sciogliere le nostre paure e resistenze a tenere insieme il nuovo e l’antico, la passione per Cristo e la passione per l’umanità e condividere la comune sete della vita.

Di fronte alla tentazione di fissarci in noi stessi o di guardare indietro, la risposta è di spostarsi nei luoghi dove risuona la parola di Dio, dove si fa memoria di Gesù, i luoghi dell’alternativa, del sogno di una vita differente. Occorre accorgerci che la vita è profondamente abitata dal mistero. Una teologa domenicana, Antonietta Potente, chiama questa dimensione la religiosità della vita e in essa scorge il rovesciamento della vita religiosa per dare a tutti la possibilità di una nuova familiarità con il mistero. Noi non siamo così familiari con il mistero come pensiamo. Siamo familiari con la religione, con le nostre ideologie religiose, con i nostri stili, con i nostri modi di vivere la religione, ma non con il mistero.

Il mistero è Cristo. Cristo è l’annuncio della vita umana. Vivere il Vangelo con semplicità e pochi mezzi è una scelta mistica e politica, che consente di incontrare oggi il Signore della vita. Allora «La notte è anche un sole» (Beata Angela da Foligno). E se i tempi sono tristi è tempo di speranze, non di paure. La paura ha segnato fin troppo il nostro rapporto con il mondo, il nostro rapporto con gli altri, perché ci è stato detto che l’uomo è per l’uomo un lupo. La vita religiosa, invece, dovrebbe restituire all’umano la possibilità di fratellanza come la sua radice più propria, perché l’uomo è per l’uomo.

Se la vita religiosa vuole conoscere un nuovo rilancio, deve ritrovare il suo spessore antropologico, il suo statuto di marginalità e di flessibilità carismatica, deve essere capace di intuire nuovi bisogni e inventare nuove forme di aggregazione sui valori. Credo che non sia dei religiosi vendere pane: è dei religiosi essere lievito che tutto fermenta – osservava acutamente B. Secondin in una intervista rilasciata alla rivista Jesus –. Il lievito ha il suo luogo dentro la pasta: occorre abitare questa nostra storia e non vivere a cespuglio, preoccupati del proprio particolare, magari sulla base di progetti dettati dalla paura e dalla nevrosi di sopravvivere comunque.

 

Note

* Suora delle Maestre di S. Dorotea, Teologa e Madre Provinciale per il Nord Italia. [Torna al testo]

1. K. Lowith, Significato e fine della storia, Milano 1989, p. 23.  [Torna al testo]

2. Meister Eckart, un mistico domenicano del XIV secolo, quando predicava alle monache domenicane della Germania, di cui era responsabile, diceva: “Se volete trovare Dio, abbandonate il vostro Dio”. Dio lo si ritrova oltre ogni nostra immagine: “Quando l’anima giunge nell’Uno e vi penetra con totale rigetto di se stessa, trova Dio come nulla”. Meister Eckart, Sermone Surrexit autem Saulus, in Sermoni tedeschi, Adelphi, Milano 1985, p. 205. Oppure  anche Idem, I Sermoni, a cura di M. Vannini, editore Libri, Milano 2003.  [Torna al testo]

3. R. Voillaume, Charles de Foucauld e i suoi discepoli.  [Torna al testo]

 

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