n. 10
ottobre 2005

 

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Amicizia e vita consacrata

di Anna Bissi *

 

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Amicizia e vita consacrata sono due realtà non sempre facili da coniugare e numerosi possono essere i motivi di tale problematico rapporto. L’amicizia è talvolta considerata più un ostacolo che un aiuto alla vita comune; anche attualmente, benché il fenomeno fosse più frequente in epoca pre-conciliare, nelle nostre fraternità sentiamo parlare di amicizia particolare, di un tipo di legame che privilegia il rapporto con una sorella e, di conseguenza, esclude le altre dalla relazione. Essa è dunque vissuta come una minaccia per la vita fraterna, una fonte di divisione, un’ingiustizia verso chi si sente messo da parte o privato di un rapporto intimo, a cui invece desidererebbe accedere. In altre occasioni il termine amicizia nasconde realmente un modo immaturo di porsi in relazione, in cui si riscontrano le caratteristiche di una dipendenza infantile più che di un rapporto adulto.

Diverse sono le forme assunte da questo tipo di legame: talora esso si esprime come bisogno vicendevole e impellente della presenza dell’altro/a, necessità di cercarlo/a, di stargli sempre vicino, di condividere tutto, in un modo che tende a discriminare, a emarginare i membri della comunità. In altre situazioni, invece, uno dei due partner del rapporto amichevole vive una sorta di sudditanza e d’idealizzazione nei confronti dell’altro che, a sua volta, tende a strumentalizzarlo, a farsi servire, a usarlo per trarne vantaggi personali. Può anche accadere che l’amicizia sia percepita come pericolosa da un’autorità che, spesso inconsapevolmente, vive il proprio ruolo come un potere sempre minacciato da eventuali attacchi. Le relazioni amicali sono, allora, avvertite come possibili alleanze contro e il ritrovarsi insieme di alcune sorelle viene letto con sospetto e interpretato come una sorta di coalizione, il cui fine è quello di mettere in cattiva luce l’autorità.

 

Amicizia e fraternità

Al fine di riuscire a vivere serenamente dei legami di amicizia, all’interno di una comunità religiosa, è bene che tutti i membri sappiano riconoscere le sue caratteristiche e, di conseguenza, le differenze che la contraddistinguono rispetto ai rapporti fraterni.

Tra tutte le possibili forme di relazione che una persona può intessere, lo specifico della fraternità è il suo carattere diffusivo per eccellenza: essa, infatti, non può escludere nessuno, non può emarginare, tenere al di fuori, poiché trova la sua origine non in una dimensione psicologica, come l’amicizia o l’amore, né in un legame di sangue, viscerale, come i rapporti familiari, ma in una realtà ontologica, che accomuna ogni essere umano. Siamo sorelle in quanto creature pensate e volute da Dio, nostro creatore, legate da vincoli profondi, quali la comune umanità e il rapporto filiale rispetto a un Padre, che ci ha creati e ci ama.

Questo legame di fraternità, o di sorellanza, si rafforza quando è sostenuto da una comune appartenenza: a una famiglia di sangue oppure a una comunità legata da valori condivisi, come avviene appunto nella vita religiosa. Ciò che rende fratelli o sorelle dei consacrati non nasce unicamente dal riconoscersi figli pensati e voluti da Dio, ma promana dal condividere dei valori, dei fini, un carisma, una missione. Nessuno dei membri di una comunità, di conseguenza, può essere estromesso da tale rapporto, né per motivi psicologici, quali la maggiore o minore simpatia, né per le qualità che lo/a caratterizzano o per il potere che esercita. All’interno della fraternità tutti devono essere considerati uguali e, se a qualcuno può essere accordata più attenzione, questi non sarà il più dotato, il più importante, ma il più piccolo e semplice.

Anche l’amicizia, come ci ricorda il detto inglese: gli amici dei miei amici sono anche amici miei, è una relazione a carattere diffusivo, tanto da essere definita come il meno geloso degli affetti1. Quando è esclusiva, invece, la si deve considerare malata: essa, infatti, non può rinchiudersi su se stessa, ma ha bisogno di condividere, di partecipare, di confrontarsi e interrogarsi, di scambiare pareri. è proprio questa la sua caratteristica principale, che la contraddistingue e la differenzia rispetto all’amore sponsale il quale, per sua natura, può esprimersi pienamente solo attraverso il coinvolgimento con un’unica persona. Quando tende all’esclusione, all’unicità, più che di fronte a una vera amicizia, ci troviamo davanti a una sua deformazione, a una manifestazione di dipendenza, a una ricerca di sostegno reciproco, talvolta persino a un utilitarismo mascherato.

A differenza della fraternità, però, l’amicizia non è universale e, di conseguenza, non può essere aperta a tutti. Essa, infatti, non si basa su una realtà ontologica, sulla comune appartenenza alla famiglia umana, ma su fattori psicologici, quali, in primo luogo, la simpatia e gli interessi comuni. Per essere veramente amici bisogna condividere un’attrattiva, una passione, sentirsi affini nel modo di pensare la vita, vivere in consonanza.

è dunque impossibile sperimentare una tale reciprocità con tutti, anche all’interno di una fraternità religiosa. La comune partecipazione a uno stesso carisma, infatti, non esige una forte intesa a livello psicologico e affettivo. Non è necessario avere gli stessi gusti e provare simpatia per le sorelle con cui si vive, per sperimentare un solido senso di appartenenza a una comunità religiosa: ciò che viene richiesto dalla vita comune è il rispetto e l’amore reciproco, un amore che nasce non dai sentimenti, ma dalla volontà e dall’adesione al Vangelo. è proprio questo il legame profondo che unisce e crea vincoli fraterni; qui si colloca il nucleo della vita comune, mentre il resto, amicizia compresa, non può che essere considerato un sovrappiù, utile, desiderabile, ma non indispensabile. Il suo rifiuto, però, proprio in nome di quei pericoli sopra accennati, può essere fonte d’impoverimento per la comunità e d’inutile e gravosa sofferenza per i suoi membri. è allora importante trovare dei criteri che favoriscano una vita fraterna serena, capace di contenere e coniugare relazioni di tipo diverso.

 

Come coniugare queste due realtà

 

Ciò che spesso rende difficile sviluppare sani rapporti di amicizia all’interno delle comunità religiose è l’importanza esagerata attribuita al criterio dell’uniformità, sovente ritenuto un valore atto a salvaguardare giustizia, povertà, attenzione agli ultimi. Quando esso, però, è applicato troppo rigidamente, finisce per costituire una sorta di gabbia, all’interno della quale tutti i membri vengono rinchiusi, senza lasciare spazio all’iniziativa personale, alla creatività, alla spontaneità dei sentimenti. Le persone più controllate e intransigenti si trovano a proprio agio in questo stile comunitario, che rischia però di allontanare chi è più dotato, più vivace emotivamente o intellettualmente, ma anche più capace di creare relazioni profonde. Una comunità matura accoglie e rispetta ogni suo membro, anche gli ultimi, i meno dotati e soprattutto coloro che, affettivamente, si possono definire meno amabili. Il Vangelo ci ricorda che la bontà e l’attenzione devono essere riservate a tutti; solo così riusciremo a realizzare quell’aspirazione profonda, che c’induce a desiderare di sentire rivolte anche a noi le stesse parole di simpatia e stima indirizzate alle prime comunità cristiane (cfr. At 4,33-35). Nello stesso tempo, una fraternità matura sa accogliere le differenze presenti al suo interno, senza imporre schemi rigidi e inflessibili: cerca di fare in modo che ogni sorella si senta amata e, contemporaneamente, accetta la presenza di relazioni più intime, più intense tra alcuni dei suoi membri.

Gesù stesso non ha mai usato criteri di uniformità nelle sue amicizie: attento a tutti, buono con tutti, egli ha privilegiato alcune persone, le ha tenute più vicine a sé, le ha rese partecipi di momenti “speciali” della sua vita, a cui altri non hanno avuto accesso. Gesù non è stato ingiusto, ma ha solo risposto alla logica dell’amore, e quindi anche a quella dell’amicizia, le quali richiedono che ogni rapporto sia unico, personale, irripetibile.

Celate dietro alle lotte contro i rapporti personali profondi fra consorelle, non troviamo però solo rigidezza e uniformità. Spesso, infatti, il termine amicizia particolare nasconde qualche cosa di diverso, motivazioni molto profonde, intimamente radicate, ma mai riconosciute e accettate. La paura, l’invidia e la gelosia stanno di frequente alla base degli scontri presenti nelle nostre fraternità, scontri talvolta avvenuti “allo scoperto” ma, nella maggioranza dei casi, attuati in quelle forme, tipicamente femminili, che tendono più al pettegolezzo, all’insinuazione, al lasciar capire, che all’affrontare direttamente i problemi. Le persone amiche spesso possono creare timore: si ha paura di una possibile alleanza, si sospetta e si diffida, paventando una relazione che potrà diventare fonte di disaccordo, se non di divisione. Ciò che si teme maggiormente, però, è l’esclusione, la mancanza: l’amicizia degli altri, infatti, è sovente percepita a livello inconscio come “qualcosa di cui sono stato deprivato”; si fa difficoltà a gioire di due o tre sorelle che si vogliono bene, poiché immediatamente ci si sente rifiutati, esclusi da questo rapporto. Se fosse stato offerto a noi, lo avremmo accolto con gioia e magari avremmo rischiato di creare una relazione troppo stretta, di eccessiva dipendenza; poiché però ci sentiamo “tagliate fuori”, lo critichiamo e valutiamo negativamente, quasi rappresentasse una minaccia per l’intera comunità.

 

Amicizia e autorità

 

Un ruolo particolare nella non facile gestione del rapporto tra amicizia e vita fraterna spetta alla guida della comunità. Il suo compito è innanzi tutto di vigilare, affinché non avvengano abusi. Ciò comporta in primo luogo la capacità di individuare le dinamiche comunitarie meno mature: i legami troppo stretti, invischiati, le gelosie, le rivalità. La responsabile, inoltre, deve fare attenzione a non schierarsi: disposta ad ascoltare tutti, a capire le intenzioni e i punti di vista di ogni sorella, deve però evitare di allearsi con una parte contro l’altra; al contrario, il suo ruolo le richiede la capacità di sedare gli animi, proporre letture diverse della realtà e, soprattutto, non alimentare invidie e gelosie, da qualunque parte esse provengano. Una superiora saggia, però, non può nemmeno permettersi l’assenteismo, apparente soluzione di conflitti comunitari, che, di fatto, complica i problemi invece di risolverli. Deve saper prendere posizione, valutando se davvero una relazione amicale è eccessiva, immatura o addirittura non sana e verificando se le accuse di “amicizia particolare” nascono da dati reali o invece da invidia, competizione, gelosia.

Infine, il compito forse più arduo, e indubbiamente più importante, che le compete è quello della sincerità verso se stessa. Chi presiede alla vita comune, infatti, non è esente da conflitti: ciò implica, per esempio, la possibilità di percepire inconsciamente il proprio servizio come un potere e, di conseguenza, di vederlo minacciato da eventuali amicizie. La sorella con cui molte altre desiderano intessere relazioni profonde può, infatti, essere vissuta come una rivale, una presenza destabilizzante perché ha più successo o è più amata.

Nello stesso tempo la guida della comunità dovrà fare attenzione alle proprie amicizie, affinché non costituiscano una fonte di sofferenza per le altre, che da esse si sentono escluse. Per questo motivo sarà utile conservare uno spazio di silenzio, di riservatezza, evitare le eccessive confidenze, i legami troppo stretti e tendere soprattutto alla libertà interiore. Non sempre è facile superare le naturali tendenze umane, che ci rendono alcune persone più affini, simpatiche e desiderabili rispetto ad altre; è però importante che chi presiede la comunità lotti ogni giorno perché il suo cuore si dilati e, pur coltivando rapporti intimi con le sorelle sull’esempio di Gesù, diventi sempre più capace di accogliere ognuna in modo unico e personale.

 

L’amico/a, custode dell’anima

 

All’interno della vita consacrata, però, l’amicizia non può basarsi unicamente sulla simpatia e l’affinità. La dimensione psicologica, presente all’origine di tale legame e indubbiamente molto importante, non è sufficiente per creare un affetto veramente solido e profondo. Se ci si limitasse a instaurare un rapporto fondato su comuni interessi o reciproca intesa, verrebbe esclusa una dimensione fondamentale della persona: il suo naturale orientamento verso Dio.

Commentando il brano delle Confessioni2, comunemente conosciuto come L’estasi di Ostia, testo che egli considera esemplare ed espressione compiuta della grandezza dell’amicizia, L. Boros mette in risalto come in essa si esercita una conoscenza comune, un incontro di due persone in cui tutto il loro essere vibra all’unisono. Questa possibilità di cogliere l’essere dell’altro, questa esperienza così ricca, a livello interiore e relazionale, non esaurisce però le possibilità dell’amicizia; infatti, insieme con l’essere, nel medesimo atto, si viene toccati anche dall’Assoluto3.

Ciò è tanto più vero dell’amicizia fra persone consacrate, amicizia che può essere considerata veramente tale solo se è spirituale e quindi mossa, guidata dallo Spirito santo, Colui che, nell’unire i cuori, li introduce in una relazione più intima con il Padre e il Figlio. Aelredo di Rievaulx, il monaco cantore dell’amicizia spirituale, spiega come essa deve cominciare in Cristo, svilupparsi in Cristo e porre in Cristo il suo fine e la sua perfezione4. Ciò significa, quindi, che all’affettività psicologica, indispensabile perché tale legame possa esistere, si deve aggiungere un interesse comune, l’interesse per eccellenza nella vita di un/a religioso/a: quello per il Signore Gesù. Esso non solo costituisce il nesso più profondo che unisce le due persone, ma rappresenta anche la maggiore preoccupazione all’interno del legame. Dice ancora giustamente Aelredo che l’amico è, in qualche modo, il guardiano dell’amore o, come altri preferisce, il custode dell’anima stessa5. Ciò significa, allora, che egli dovrà prendersi a cuore le fatiche e le sofferenze dell’altro/a, gioire della sua felicità, tollerare i suoi limiti, ma soprattutto desiderare per lui/lei una relazione sempre più intima e profonda con il Signore e sentire come suo compito specifico quello di favorirla, farla crescere, promuoverla e custodirla.

 

I requisiti dell’amicizia spirituale

 

Per questo motivo la vera amicizia nello Spirito deve rispondere ad alcuni requisiti essenziali.

Essa è innanzi tutto povera, non esigente, non pretenziosa: l’amico/a accoglie, riceve con gratitudine e nello stesso tempo sa rispettare i tempi e il cammino dell’altro/a. Essa inoltre è discreta, non ha bisogno di troppe parole, di chiacchiere inutili, di scambi continui e, anche se li desidera, è tuttavia capace di rinunciarvi. La vera amicizia, inoltre, è fedele, disposta ad accogliere l’altro/a anche nei tempi bui, nelle stagioni difficili, quando ha bisogno di essere sostenuta, difesa oppure fa difficoltà a vivere un legame di reciprocità. Essa è sincera: non blandisce l’altra, non la manipola per i propri scopi; al contrario, il suo desiderio di bene per lei esige la purezza di cuore e la capacità di dire la verità, anche quando questa può essere sgradevole e dunque non facile da manifestare. è anche misericordiosa, perché non giudica, non esprime valutazioni, ma accetta sempre in modo incondizionato. Amico/a, infatti, è colui, o colei, che comprende e accoglie in profondità tutti i moti del cuore dell’altro/a: proprio in questo sta la dolcezza che procede dall’amicizia, quella felicità, quella sicurezza e gioia che provengono dall’avere uno/a con cui parlare come a te stesso6; uno a cui non temi di confidarti se sei caduto; cui non arrossisci di rivelare i progressi nelle cose spirituali, uno al quale puoi affidare tutti i segreti del cuore e scoprirne i progetti7.

Come ogni forma di amore, anche l’amicizia conosce i momenti difficili. Per quanto gradevole possa essere la compagnia dell’altro/a e profonda l’affinità, anche questa relazione incontrerà alla fine i suoi momenti di fatica e d’incomprensione. Le differenze nel sentire, di temperamento, di vedute, proprio quelle diversità che rendono più attraenti le relazioni potranno provocare dei piccoli o grandi conflitti. Ciò significa che, come ogni altro legame, anche l’amicizia non può essere lasciata alla spontaneità, ma richiede un impegno, una volontà specifica di crescere e approfondire il legame. Vero amico/a, infatti, è colui, o colei, che sa mettersi da parte, sa lasciare spazio alla differenza, rispettare l’unicità, e nello stesso tempo è in grado di mettere in questione, porre interrogativi, quando il pensiero o l’agire dell’altro/a non risponde agli ideali da entrambi condivisi. Lasciare spazio e vigilare sono quindi due atteggiamenti fondanti l’amicizia spirituale, quando essa è veramente tale: desiderosa di veder crescere Gesù nell’altro/a, secondo le parole di colui che il Vangelo definisce amico dello Sposo e sulla cui bocca pone queste parole così ricche di sapienza: Egli deve crescere e io invece diminuire… (cfr. Gv 3,30).

 

Note

* Psicologa [Torna al testo]

1. C.S. Lewis, I quattro amori, Jaca Book, Milano 1980, p. 82. [Torna al testo]

2. Agostino, Le Confessioni, IX, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1989, p. 249. [Torna al testo]

3. Boros L., Incontrare Dio nell’uomo, Queriniana, Brescia 1972, p. 80. [Torna al testo]

4. Cfr. Aelredo Di Rievaulx,  L’amicizia spirituale, Cantagalli, Siena 1982, p. 89. [Torna al testo]

5. Ibid., p.88 [Torna al testo]

6. Cicerone, Dell’amicizia, 22. [Torna al testo]

7. Aelredo, op.cit., p. 106. [Torna al testo]

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