A
micizia e vita
consacrata sono due realtà non sempre facili da coniugare e numerosi
possono essere i motivi di tale problematico rapporto. L’amicizia è
talvolta considerata più un ostacolo che un aiuto alla vita comune;
anche attualmente, benché il fenomeno fosse più frequente in epoca
pre-conciliare, nelle nostre fraternità sentiamo parlare di amicizia
particolare, di un tipo di legame che privilegia il rapporto con una
sorella e, di conseguenza, esclude le altre dalla relazione. Essa è
dunque vissuta come una minaccia per la vita fraterna, una fonte di
divisione, un’ingiustizia verso chi si sente messo da parte o privato di
un rapporto intimo, a cui invece desidererebbe accedere. In altre
occasioni il termine amicizia nasconde realmente un modo immaturo
di porsi in relazione, in cui si riscontrano le caratteristiche di una
dipendenza infantile più che di un rapporto adulto.
Diverse sono le forme assunte da questo tipo
di legame: talora esso si esprime come bisogno vicendevole e impellente
della presenza dell’altro/a, necessità di cercarlo/a, di stargli sempre
vicino, di condividere tutto, in un modo che tende a discriminare, a
emarginare i membri della comunità. In altre situazioni, invece, uno dei
due partner del rapporto amichevole vive una sorta di sudditanza e
d’idealizzazione nei confronti dell’altro che, a sua volta, tende a
strumentalizzarlo, a farsi servire, a usarlo per trarne vantaggi
personali. Può anche accadere che l’amicizia sia percepita come
pericolosa da un’autorità che, spesso inconsapevolmente, vive il proprio
ruolo come un potere sempre minacciato da eventuali attacchi. Le
relazioni amicali sono, allora, avvertite come possibili alleanze
contro e il ritrovarsi insieme di alcune sorelle viene letto con
sospetto e interpretato come una sorta di coalizione, il cui fine è
quello di mettere in cattiva luce l’autorità.
Amicizia e fraternità
Al fine di riuscire a vivere serenamente dei
legami di amicizia, all’interno di una comunità religiosa, è bene che
tutti i membri sappiano riconoscere le sue caratteristiche e, di
conseguenza, le differenze che la contraddistinguono rispetto ai
rapporti fraterni.
Tra tutte le possibili forme di relazione che
una persona può intessere, lo specifico della fraternità è il suo
carattere diffusivo per eccellenza: essa, infatti, non può
escludere nessuno, non può emarginare, tenere al di fuori, poiché trova
la sua origine non in una dimensione psicologica, come l’amicizia o
l’amore, né in un legame di sangue, viscerale, come i rapporti
familiari, ma in una realtà ontologica, che accomuna ogni essere
umano. Siamo sorelle in quanto creature pensate e volute da Dio,
nostro creatore, legate da vincoli profondi, quali la comune umanità e
il rapporto filiale rispetto a un Padre, che ci ha creati e ci ama.
Questo legame di fraternità, o di sorellanza,
si rafforza quando è sostenuto da una comune appartenenza: a una
famiglia di sangue oppure a una comunità legata da valori condivisi,
come avviene appunto nella vita religiosa. Ciò che rende fratelli
o sorelle dei consacrati non nasce unicamente dal riconoscersi
figli pensati e voluti da Dio, ma promana dal condividere dei valori,
dei fini, un carisma, una missione. Nessuno dei membri di una comunità,
di conseguenza, può essere estromesso da tale rapporto, né per motivi
psicologici, quali la maggiore o minore simpatia, né per le qualità che
lo/a caratterizzano o per il potere che esercita. All’interno della
fraternità tutti devono essere considerati uguali e, se a qualcuno può
essere accordata più attenzione, questi non sarà il più dotato, il più
importante, ma il più piccolo e semplice.
Anche l’amicizia, come ci ricorda il detto
inglese: gli amici dei miei amici sono anche amici miei, è una
relazione a carattere diffusivo, tanto da essere definita come il
meno geloso degli affetti1.
Quando è esclusiva, invece, la si deve considerare malata: essa,
infatti, non può rinchiudersi su se stessa, ma ha bisogno di
condividere, di partecipare, di confrontarsi e interrogarsi, di
scambiare pareri. è
proprio questa la sua caratteristica principale, che la contraddistingue
e la differenzia rispetto all’amore sponsale il quale, per sua natura,
può esprimersi pienamente solo attraverso il coinvolgimento con un’unica
persona. Quando tende all’esclusione, all’unicità, più che di fronte a
una vera amicizia, ci troviamo davanti a una sua deformazione, a una
manifestazione di dipendenza, a una ricerca di sostegno reciproco,
talvolta persino a un utilitarismo mascherato.
A differenza della fraternità, però,
l’amicizia non è universale e, di conseguenza, non può essere
aperta a tutti. Essa, infatti, non si basa su una realtà ontologica,
sulla comune appartenenza alla famiglia umana, ma su fattori
psicologici, quali, in primo luogo, la simpatia e gli interessi comuni.
Per essere veramente amici bisogna condividere un’attrattiva, una
passione, sentirsi affini nel modo di pensare la vita, vivere in
consonanza.
è
dunque impossibile sperimentare una tale reciprocità con tutti, anche
all’interno di una fraternità religiosa. La comune partecipazione a uno
stesso carisma, infatti, non esige una forte intesa a livello
psicologico e affettivo. Non è necessario avere gli stessi gusti e
provare simpatia per le sorelle con cui si vive, per sperimentare un
solido senso di appartenenza a una comunità religiosa: ciò che viene
richiesto dalla vita comune è il rispetto e l’amore reciproco, un amore
che nasce non dai sentimenti, ma dalla volontà e dall’adesione al
Vangelo. è proprio questo
il legame profondo che unisce e crea vincoli fraterni; qui si colloca il
nucleo della vita comune, mentre il resto, amicizia compresa, non può
che essere considerato un sovrappiù, utile, desiderabile, ma non
indispensabile. Il suo rifiuto, però, proprio in nome di quei pericoli
sopra accennati, può essere fonte d’impoverimento per la comunità e
d’inutile e gravosa sofferenza per i suoi membri.
è allora importante
trovare dei criteri che favoriscano una vita fraterna serena,
capace di contenere e coniugare relazioni di tipo diverso.
Come coniugare queste due realtà
Ciò che spesso rende difficile sviluppare
sani rapporti di amicizia all’interno delle comunità religiose è
l’importanza esagerata attribuita al criterio dell’uniformità,
sovente ritenuto un valore atto a salvaguardare giustizia, povertà,
attenzione agli ultimi. Quando esso, però, è applicato troppo
rigidamente, finisce per costituire una sorta di gabbia, all’interno
della quale tutti i membri vengono rinchiusi, senza lasciare spazio
all’iniziativa personale, alla creatività, alla spontaneità dei
sentimenti. Le persone più controllate e intransigenti si trovano a
proprio agio in questo stile comunitario, che rischia però di
allontanare chi è più dotato, più vivace emotivamente o
intellettualmente, ma anche più capace di creare relazioni profonde. Una
comunità matura accoglie e rispetta ogni suo membro, anche gli ultimi, i
meno dotati e soprattutto coloro che, affettivamente, si possono
definire meno amabili. Il Vangelo ci ricorda che la bontà e l’attenzione
devono essere riservate a tutti; solo così riusciremo a realizzare
quell’aspirazione profonda, che c’induce a desiderare di sentire rivolte
anche a noi le stesse parole di simpatia e stima indirizzate alle prime
comunità cristiane (cfr. At 4,33-35). Nello stesso tempo, una fraternità
matura sa accogliere le differenze presenti al suo interno, senza
imporre schemi rigidi e inflessibili: cerca di fare in modo che ogni
sorella si senta amata e, contemporaneamente, accetta la presenza di
relazioni più intime, più intense tra alcuni dei suoi membri.
Gesù stesso non ha mai usato criteri di
uniformità nelle sue amicizie: attento a tutti, buono con tutti, egli ha
privilegiato alcune persone, le ha tenute più vicine a sé, le ha rese
partecipi di momenti “speciali” della sua vita, a cui altri non hanno
avuto accesso. Gesù non è stato ingiusto, ma ha solo risposto alla
logica dell’amore, e quindi anche a quella dell’amicizia, le quali
richiedono che ogni rapporto sia unico, personale, irripetibile.
Celate dietro alle lotte contro i rapporti
personali profondi fra consorelle, non troviamo però solo rigidezza e
uniformità. Spesso, infatti, il termine amicizia particolare
nasconde qualche cosa di diverso, motivazioni molto profonde,
intimamente radicate, ma mai riconosciute e accettate. La paura,
l’invidia e la gelosia stanno di frequente alla base degli scontri
presenti nelle nostre fraternità, scontri talvolta avvenuti “allo
scoperto” ma, nella maggioranza dei casi, attuati in quelle forme,
tipicamente femminili, che tendono più al pettegolezzo,
all’insinuazione, al lasciar capire, che all’affrontare direttamente i
problemi. Le persone amiche spesso possono creare timore: si ha paura di
una possibile alleanza, si sospetta e si diffida, paventando una
relazione che potrà diventare fonte di disaccordo, se non di divisione.
Ciò che si teme maggiormente, però, è l’esclusione, la mancanza:
l’amicizia degli altri, infatti, è sovente percepita a livello inconscio
come “qualcosa di cui sono stato deprivato”; si fa difficoltà a gioire
di due o tre sorelle che si vogliono bene, poiché immediatamente ci si
sente rifiutati, esclusi da questo rapporto. Se fosse stato offerto a
noi, lo avremmo accolto con gioia e magari avremmo rischiato di creare
una relazione troppo stretta, di eccessiva dipendenza; poiché però ci
sentiamo “tagliate fuori”, lo critichiamo e valutiamo negativamente,
quasi rappresentasse una minaccia per l’intera comunità.
Amicizia e autorità
Un ruolo particolare nella non facile
gestione del rapporto tra amicizia e vita fraterna spetta alla guida
della comunità. Il suo compito è innanzi tutto di vigilare,
affinché non avvengano abusi. Ciò comporta in primo luogo la capacità di
individuare le dinamiche comunitarie meno mature: i legami troppo
stretti, invischiati, le gelosie, le rivalità. La responsabile, inoltre,
deve fare attenzione a non schierarsi: disposta ad ascoltare tutti, a
capire le intenzioni e i punti di vista di ogni sorella, deve però
evitare di allearsi con una parte contro l’altra; al contrario, il suo
ruolo le richiede la capacità di sedare gli animi, proporre letture
diverse della realtà e, soprattutto, non alimentare invidie e gelosie,
da qualunque parte esse provengano. Una superiora saggia, però, non può
nemmeno permettersi l’assenteismo, apparente soluzione di conflitti
comunitari, che, di fatto, complica i problemi invece di risolverli.
Deve saper prendere posizione, valutando se davvero una relazione
amicale è eccessiva, immatura o addirittura non sana e verificando se le
accuse di “amicizia particolare” nascono da dati reali o invece da
invidia, competizione, gelosia.
Infine, il compito forse più arduo, e
indubbiamente più importante, che le compete è quello della sincerità
verso se stessa. Chi presiede alla vita comune, infatti, non è
esente da conflitti: ciò implica, per esempio, la possibilità di
percepire inconsciamente il proprio servizio come un potere e, di
conseguenza, di vederlo minacciato da eventuali amicizie. La sorella con
cui molte altre desiderano intessere relazioni profonde può, infatti,
essere vissuta come una rivale, una presenza destabilizzante perché ha
più successo o è più amata.
Nello stesso tempo la guida della comunità
dovrà fare attenzione alle proprie amicizie, affinché non costituiscano
una fonte di sofferenza per le altre, che da esse si sentono escluse.
Per questo motivo sarà utile conservare uno spazio di silenzio, di
riservatezza, evitare le eccessive confidenze, i legami troppo stretti e
tendere soprattutto alla libertà interiore. Non sempre è facile superare
le naturali tendenze umane, che ci rendono alcune persone più affini,
simpatiche e desiderabili rispetto ad altre; è però importante che chi
presiede la comunità lotti ogni giorno perché il suo cuore si dilati e,
pur coltivando rapporti intimi con le sorelle sull’esempio di Gesù,
diventi sempre più capace di accogliere ognuna in modo unico e
personale.
L’amico/a, custode dell’anima
All’interno della vita consacrata, però,
l’amicizia non può basarsi unicamente sulla simpatia e l’affinità. La
dimensione psicologica, presente all’origine di tale legame e
indubbiamente molto importante, non è sufficiente per creare un affetto
veramente solido e profondo. Se ci si limitasse a instaurare un rapporto
fondato su comuni interessi o reciproca intesa, verrebbe esclusa una
dimensione fondamentale della persona: il suo naturale orientamento
verso Dio.
Commentando il brano delle Confessioni2,
comunemente conosciuto come L’estasi di Ostia, testo che egli
considera esemplare ed espressione compiuta della grandezza
dell’amicizia, L. Boros mette in risalto come in essa si esercita una
conoscenza comune, un incontro di due persone in cui tutto il loro
essere vibra all’unisono. Questa possibilità di cogliere l’essere
dell’altro, questa esperienza così ricca, a livello interiore e
relazionale, non esaurisce però le possibilità dell’amicizia; infatti,
insieme con l’essere, nel medesimo atto, si viene toccati anche
dall’Assoluto3.
Ciò è tanto più vero dell’amicizia fra
persone consacrate, amicizia che può essere considerata veramente tale
solo se è spirituale e quindi mossa, guidata dallo Spirito santo, Colui
che, nell’unire i cuori, li introduce in una relazione più intima con il
Padre e il Figlio. Aelredo di Rievaulx, il monaco cantore dell’amicizia
spirituale, spiega come essa deve cominciare in Cristo, svilupparsi
in Cristo e porre in Cristo il suo fine e la sua perfezione4.
Ciò significa, quindi, che all’affettività psicologica, indispensabile
perché tale legame possa esistere, si deve aggiungere un interesse
comune, l’interesse per eccellenza nella vita di un/a
religioso/a: quello per il Signore Gesù. Esso non solo costituisce il
nesso più profondo che unisce le due persone, ma rappresenta anche la
maggiore preoccupazione all’interno del legame. Dice ancora giustamente
Aelredo che l’amico è, in qualche modo, il guardiano dell’amore o,
come altri preferisce, il custode dell’anima stessa5.
Ciò significa, allora, che egli dovrà prendersi a cuore le fatiche e le
sofferenze dell’altro/a, gioire della sua felicità, tollerare i suoi
limiti, ma soprattutto desiderare per lui/lei una relazione sempre più
intima e profonda con il Signore e sentire come suo compito specifico
quello di favorirla, farla crescere, promuoverla e custodirla.
I requisiti dell’amicizia spirituale
Per questo motivo la vera amicizia nello
Spirito deve rispondere ad alcuni requisiti essenziali.
Essa è innanzi tutto povera, non
esigente, non pretenziosa: l’amico/a accoglie, riceve con gratitudine e
nello stesso tempo sa rispettare i tempi e il cammino dell’altro/a. Essa
inoltre è discreta, non ha bisogno di troppe parole, di
chiacchiere inutili, di scambi continui e, anche se li desidera, è
tuttavia capace di rinunciarvi. La vera amicizia, inoltre, è fedele,
disposta ad accogliere l’altro/a anche nei tempi bui, nelle stagioni
difficili, quando ha bisogno di essere sostenuta, difesa oppure fa
difficoltà a vivere un legame di reciprocità. Essa è sincera: non
blandisce l’altra, non la manipola per i propri scopi; al contrario, il
suo desiderio di bene per lei esige la purezza di cuore e la capacità di
dire la verità, anche quando questa può essere sgradevole e dunque non
facile da manifestare. è
anche misericordiosa, perché non giudica, non esprime
valutazioni, ma accetta sempre in modo incondizionato. Amico/a, infatti,
è colui, o colei, che comprende e accoglie in profondità tutti i moti
del cuore dell’altro/a: proprio in questo sta la dolcezza che procede
dall’amicizia, quella felicità, quella sicurezza e gioia
che provengono dall’avere uno/a con cui parlare come a te stesso6;
uno a cui non temi di confidarti se sei caduto; cui non arrossisci di
rivelare i progressi nelle cose spirituali, uno al quale puoi affidare
tutti i segreti del cuore e scoprirne i progetti7.
Come ogni forma di amore, anche l’amicizia
conosce i momenti difficili. Per quanto gradevole possa essere la
compagnia dell’altro/a e profonda l’affinità, anche questa relazione
incontrerà alla fine i suoi momenti di fatica e d’incomprensione. Le
differenze nel sentire, di temperamento, di vedute, proprio quelle
diversità che rendono più attraenti le relazioni potranno provocare dei
piccoli o grandi conflitti. Ciò significa che, come ogni altro legame,
anche l’amicizia non può essere lasciata alla spontaneità, ma
richiede un impegno, una volontà specifica di crescere e
approfondire il legame. Vero amico/a, infatti, è colui, o colei, che sa
mettersi da parte, sa lasciare spazio alla differenza, rispettare
l’unicità, e nello stesso tempo è in grado di mettere in questione,
porre interrogativi, quando il pensiero o l’agire dell’altro/a non
risponde agli ideali da entrambi condivisi. Lasciare spazio e
vigilare sono quindi due atteggiamenti fondanti l’amicizia
spirituale, quando essa è veramente tale: desiderosa di veder
crescere Gesù nell’altro/a, secondo le parole di colui che il
Vangelo definisce amico dello Sposo e sulla cui bocca pone queste
parole così ricche di sapienza: Egli deve crescere e io invece
diminuire… (cfr. Gv 3,30).
Note
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