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«La
verità ha bisogno di un grande vuoto, di un silenzio in cui poter dimorare».
Così scrisse nel 1949 María Zambrano. Definita «donna filosofo», con Hannah
Arendt ed Edith Stein costituisce il trittico di donne filosofe del secolo
scorso. Nata in Spagna è poi vissuta come «eremita errante», secondo una
definizione di Massimo Cacciari. Ha suddiviso, infatti, il suo pellegrinare nei
lunghi anni della sua vita, dal 1904 al 1991, in varie città europee e
dell’America Latina, dal Cile a Cuba, per poi tornare in Spagna e lì concludere
la propria esistenza terrena.
Ha partecipato attivamente,
come scrittrice, in quanto le è stato possibile, alla vita politica dei suoi
anni; soprattutto si è formata al pensiero filosofico di Ortega y Gasset e alla
spiritualità e alla mistica dei due grandi maestri spagnoli: s. Giovanni della
Croce e s. Teresa d’Avila.
E se Edith Stein era tutta tesa
nella ricerca della verità, in una ricerca fatta “non da sola”, questa donna
filosofo, delimita gli spazi nei quali sono possibili la ricerca e la dimora
della verità: il vuoto e il silenzio. Il vuoto: libertà dai tumulti delle
passioni, dal turbinio degli intrecci egoistici, indipendenza dalla ossessività
del potere espresso in piccole o grandi dimensioni, e quant’altro possa turbare
le radici dell’essere. Il silenzio: assenza di ogni strepitio vano, di ogni
sussulto fatuo, di ogni ingorgo gridato e inutile.
La Zambrano ammetteva nel silenzio due dimensioni
contrapposte: la dimensione positiva per cui il silenzio irrompe in quella
parola che diventa svelamento, e la dimensione negativa in cui il silenzio
coatta, imprigiona la parola. Il primo è il silenzio che predispone a quella
parola che diventa rivelazione; è il silenzio che permette, favorisce,
accompagna la comunicazione, che può esplodere nella parola sagace e prudente a
un tempo e dà
come frutto l’arricchimento reciproco; il secondo è quello della chiusura, della
incomunicabilità che poi dà
come frutto una sterile, misera, rattrappita povertà personale e di relazione.
Scriveva M. Pontet: «La parola deve riposare su un fondo di silenzio come
l’iceberg sulle acque».
Il silenzio nella sua
positività è la zona nella quale inizialmente matura l’inesprimibile, e che
diventa ricchezza da effondersi. Ma soltanto il silenzio vero può far fiorire
una parola vera, autentica. L’uomo ha bisogno della parola, non la ricusa, non
la rigetta, ma perché questa parola sia carica di contenuto deve necessariamente
poggiare sul silenzio; un silenzio che è espressione e frutto di pace interiore,
di quiete dell’anima e dei sensi.
Grande successo nelle sale
italiane lo ha riscosso il film Il grande silenzio. Quasi tre ore senza
parole. Protagonisti, un gruppo di monaci certosini ritratti nella loro vita
quotidiana di preghiera e di lavoro. In questo modo un cineasta, il regista
Philip Gronning, che ha passato 6 mesi nel silenzio quasi fantastico, lontano
dal mondo e dalla sua confusione, del chiostro della Grande Chartreuse, nelle
Alpi francesi, ha insegnato a guardare al proprio interno e ad abbandonarsi a un
rapporto intimo e vero con il Signore.
Il mondo, il nostro mondo, così
freneticamente convulso, forse le nostre stesse comunità, le nostre persone,
prese da tanti impegni, da superlavoro, hanno bisogno di quiete, di silenzio per
giungere ad avere, alimentare e incarnare passioni vere; per giungere a quella
capacità di relazione che supera le suscettibilità, le diversità di giudizio e
interpretazione, le distanze formative, culturali, generazionali, esistenziali.
Le nostre comunità, gli stessi gruppi di lavoro, devono poter poggiare su tempi
di silenzio per poter giungere a una progettazione comunitaria efficace, accolta
e assunta da tutte. Anche perché «senza spazi veri di silenzio – come sosteneva
Giovanni Vannucci – non c’è libertà interiore».
Nella Scrittura stessa le
affermazioni sul silenzio sono molte e di una gamma di significati molto vasta.
«Chi frena la lingua è un uomo prudente» è scritto nel libro dei Proverbi, al
capitolo 10, versetto 19 e più avanti: «l’uomo intelligente sa tacere».
Nell’ultimo libro, esattamente nell’Apocalisse è scritto: «All’apertura del
settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora». I commentatori
scrivono: questo silenzio è «annunziatore della venuta del Signore che eseguirà
quanto rivelato dall’apertura dei sigilli». Ecco il silenzio che dispone
all’ascolto e potrebbe segnare la scaturigine di una fede più vera e massiccia e
ricca, di una speranza mai traballante.
Paolo dice di sé di essere
andato in Arabia e di avervi dimorato per alcuni anni. Dopo di che, ossia dopo
alcuni anni di vuoto, di distacco da ogni rumore incalzante, di silenzio,
irrompe con quella carica di luce e di forza che tutti conosciamo. Parla di
Cristo come nessuno; scrive del mistero divino come nessuno; scrive dell’amore
di Dio e degli uomini come nessuno ha saputo farlo né prima né dopo di lui;
scrive di antropologia, di liberazione, di giustificazione, di grazia, di
ministeri, di carismi; esorta, incalza, sprona, fustiga se opportuno, benedice
come nessun’altro ha saputo mai farlo.
Siamo tutte, tutti, pellegrini
della verità, ma siamo anche, tutte e tutti, pellegrini del silenzio. Il tempo,
di “riposo”, di ferie, che l’imminente periodo estivo ci offre in prospettiva,
potrebbe trasformarsi nel vivere con forza e tenacia, pacatezza ed equilibrio,
l’avventura del silenzio pieno e amoroso. Scriveva Max Picard: «La montagna, il
lago, i campi, il cielo sembrano in attesa del segnale di riversare il loro
silenzio sulle cose piene di frastuono delle città degli uomini». Nella
contemplazione, nel silenzio, cogliere questo stesso silenzio della natura onde
fare, con fiducia, “spazio alla verità”: di sé, degli altri, della creazione,
del mondo.
La Redazione
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