n. 6
giugno 2006

 

Altri articoli disponibili



 

 

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

trasp.gif (814 byte)

«La verità ha bisogno di un grande vuoto, di un silenzio in cui poter dimorare». Così scrisse nel 1949 María Zambrano. Definita «donna filosofo», con Hannah Arendt ed Edith Stein costituisce il trittico di donne filosofe del secolo scorso. Nata in Spagna è poi vissuta come «eremita errante», secondo una definizione di Massimo Cacciari. Ha suddiviso, infatti, il suo pellegrinare nei lunghi anni della sua vita, dal 1904 al 1991, in varie città europee e dell’America Latina, dal Cile a Cuba, per poi tornare in Spagna e lì concludere la propria esistenza terrena.

Ha partecipato attivamente, come scrittrice, in quanto le è stato possibile, alla vita politica dei suoi anni; soprattutto si è formata al pensiero filosofico di Ortega y Gasset e alla spiritualità e alla mistica dei due grandi maestri spagnoli: s. Giovanni della Croce e s. Teresa d’Avila.

E se Edith Stein era tutta tesa nella ricerca della verità, in una ricerca fatta “non da sola”, questa donna filosofo, delimita gli spazi nei quali sono possibili la ricerca e la dimora della verità: il vuoto e il silenzio. Il vuoto: libertà dai tumulti delle passioni, dal turbinio degli intrecci egoistici, indipendenza dalla ossessività del potere espresso in piccole o grandi dimensioni, e quant’altro possa turbare le radici dell’essere. Il silenzio: assenza di ogni strepitio vano, di ogni sussulto fatuo, di ogni ingorgo gridato e inutile.

La Zambrano ammetteva nel silenzio due dimensioni contrapposte: la dimensione positiva per cui il silenzio irrompe in quella parola che diventa svelamento, e la dimensione negativa in cui il silenzio coatta, imprigiona la parola. Il primo è il silenzio che predispone a quella parola che diventa rivelazione; è il silenzio che permette, favorisce, accompagna la comunicazione, che può esplodere nella parola sagace e prudente a un tempo e dà come frutto l’arricchimento reciproco; il secondo è quello della chiusura, della incomunicabilità che poi dà come frutto una sterile, misera, rattrappita povertà personale e di relazione. Scriveva M. Pontet: «La parola deve riposare su un fondo di silenzio come l’iceberg sulle acque».

Il silenzio nella sua positività è la zona nella quale inizialmente matura l’inesprimibile, e che diventa ricchezza da effondersi. Ma soltanto il silenzio vero può far fiorire una parola vera, autentica. L’uomo ha bisogno della parola, non la ricusa, non la rigetta, ma perché questa parola sia carica di contenuto deve necessariamente poggiare sul silenzio; un silenzio che è espressione e frutto di pace interiore, di quiete dell’anima e dei sensi.

Grande successo nelle sale italiane lo ha riscosso il film Il grande silenzio. Quasi tre ore senza parole. Protagonisti, un gruppo di monaci certosini ritratti nella loro vita quotidiana di preghiera e di lavoro. In questo modo un cineasta, il regista Philip Gronning, che ha passato 6 mesi nel silenzio quasi fantastico, lontano dal mondo e dalla sua confusione, del chiostro della Grande Chartreuse, nelle Alpi francesi, ha insegnato a guardare al proprio interno e ad abbandonarsi a un rapporto intimo e vero con il Signore.

Il mondo, il nostro mondo, così freneticamente convulso, forse le nostre stesse comunità, le nostre persone, prese da tanti impegni, da superlavoro, hanno bisogno di quiete, di silenzio per giungere ad avere, alimentare e incarnare passioni vere; per giungere a quella capacità di relazione che supera le suscettibilità, le diversità di giudizio e interpretazione, le distanze formative, culturali, generazionali, esistenziali. Le nostre comunità, gli stessi gruppi di lavoro, devono poter poggiare su tempi di silenzio per poter giungere a una progettazione comunitaria efficace, accolta e assunta da tutte. Anche perché «senza spazi veri di silenzio – come sosteneva Giovanni Vannucci – non c’è libertà interiore».

Nella Scrittura stessa le affermazioni sul silenzio sono molte e di una gamma di significati molto vasta. «Chi frena la lingua è un uomo prudente» è scritto nel libro dei Proverbi, al capitolo 10, versetto 19 e più avanti: «l’uomo intelligente sa tacere». Nell’ultimo libro, esattamente nell’Apocalisse è scritto: «All’apertura del settimo sigillo si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora». I commentatori scrivono: questo silenzio è «annunziatore della venuta del Signore che eseguirà quanto rivelato dall’apertura dei sigilli». Ecco il silenzio che dispone all’ascolto e potrebbe segnare la scaturigine di una fede più vera e massiccia e ricca, di una speranza mai traballante.

Paolo dice di sé di essere andato in Arabia e di avervi dimorato per alcuni anni. Dopo di che, ossia dopo alcuni anni di vuoto, di distacco da ogni rumore incalzante, di silenzio, irrompe con quella carica di luce e di forza che tutti conosciamo. Parla di Cristo come nessuno; scrive del mistero divino come nessuno; scrive dell’amore di Dio e degli uomini come nessuno ha saputo farlo né prima né dopo di lui; scrive di antropologia, di liberazione, di giustificazione, di grazia, di ministeri, di carismi; esorta, incalza, sprona, fustiga se opportuno, benedice come nessun’altro ha saputo mai farlo.

Siamo tutte, tutti, pellegrini della verità, ma siamo anche, tutte e tutti, pellegrini del silenzio. Il tempo, di “riposo”, di ferie, che l’imminente periodo estivo ci offre in prospettiva, potrebbe trasformarsi nel vivere con forza e tenacia, pacatezza ed equilibrio, l’avventura del silenzio pieno e amoroso. Scriveva Max Picard: «La montagna, il lago, i campi, il cielo sembrano in attesa del segnale di riversare il loro silenzio sulle cose piene di frastuono delle città degli uomini». Nella contemplazione, nel silenzio, cogliere questo stesso silenzio della natura onde fare, con fiducia, “spazio alla verità”: di sé, degli altri, della creazione, del mondo.

La Redazione