Paolo o Giovanni?
Nel paragrafo 34 della
sua prima Enciclica Deus Caritas est papa Benedetto XVI scrive:
«San Paolo nel suo inno alla carità (cfr. 1Cor 13), ci insegna che la
carità è sempre più che semplice attività: Se anche distribuissi
tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato ma non
avessi la carità, niente mi giova» (v. 3). Quindi conclude: «Questo
inno deve essere la Magna Carta dell’intero servizio ecclesiale;
in esso sono riassunte tutte le riflessioni che, nel corso di questa
Enciclica, ho svolto sull’amore».
Con queste parole il
Santo Padre stesso, in persona, si preoccupa di offrire la chiave
interpretativa autentica del suo scritto. Né noi possiamo presumere di
non tenerne conto.
Bisogna dunque partire
da Paolo? Eppure il titolo e l’inizio della lettera suggerirebbero
Giovanni!
Come mai?
In realtà i riferimenti
biblici presenti nella enciclica papale suppongono proprio una sorta di
centralità della riflessione paolina a partire soprattutto dal testo di
Gal 5,6 sull’amore operante. Ed è ancora un testo paolino, 2Cor 5,14,
che fornisce la motivazione dell’Enciclica stessa là dove il Santo
Padre, facendo sua la constatazione di Paolo, scrive ripetutamente:
«L’amore di Cristo ci spinge».
Il che significa che
ciò che preme a papa Benedetto è anzitutto ribadire la connessione
strettissima esistente fra l’amore, visto come sentimento e tensione
interiore, e la carità che non soltanto verifica nel concreto
l’autenticità dell’amore, ma rimanda anche in modo assolutamente chiaro,
all’amore di Cristo.
Con questo riferimento
il santo Padre indica allo stesso tempo sia quell’amore la cui fonte è
Cristo, amante per eccellenza, sia l’amore inteso come naturale eco,
traboccante per gli altri, dell’amore ricevuto da Lui.
Infatti, dopo essersi
dilungato, in modo particolarmente nuovo per un’enciclica papale, sulla
descrizione delle due forme dell’amore condivise dalla letteratura e
dall’opinione pubblica, quella dell’eros e quella della philìa,
alla fine il papa riconduce tutto il suo discorso alla proposta dell’agape
attingendo a piene mani dall’Antico e dal Nuovo Testamento.
Dunque non dalla
riflessione filosofica o poetica, né da fondamenti specificamente
antropologici, ma dalla Scrittura il santo Padre ricava quelle
convinzioni profonde che lo hanno condotto a scrivere un’enciclica
simultaneamente antica e nuova come antico e nuovo simultaneamente è il
comandamento dell’amore proposto dalla Prima lettera di Giovanni
così determinante nell’insieme della riflessione papale.
Antico e Nuovo
Testamento
Sembra che il punto di
partenza di questa riflessione di papa Ratzinger si possa rintracciare
nel libro dell’amore per eccellenza che è il Cantico dei Cantici
in cui il santo Padre trova due parole diverse per indicare l’amore (n.
6): dodim e ahabà. Cosa che gli permette di evidenziare
l’insicurezza sottesa all’utilizzazione della prima e il superamento
dell’indeterminatezza, ancora in ricerca, che è sottesa alla seconda.
Il riferimento alla
traduzione dell’ebraico ahabà nel greco agape gli permette
così di precisare che con quest’ultimo termine si «esprime l’esperienza
dell’amore che diventa scoperta dell’altro» e dunque superamento di quel
«carattere egoistico prima chiaramente dominante».
Infatti «adesso l’amore
diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso,
l’immersione nell’ebbrezza della felicità, ma cerca invece il bene
dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca».
Su questo fondamento
dell’Antico Testamento si innesta l’insegnamento di Gesù quando dice:
«Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde
la salverà» (Lc 17,33). Ma su questa intuizione si fonda
soprattutto l’intera vita personale di Gesù, «che attraverso la croce lo
conduce alla resurrezione».
Infatti «la vera novità
del Nuovo Testamento non sta in nuove idee, ma nella figura stessa di
Cristo, che dà carne e sangue ai concetti – un realismo inaudito» (n.
12).
“Partendo dal centro
del suo sacrificio personale e dell’amore che in esso giunge al suo
compimento”, Gesù sintetizza nella piccolissima parabola del chicco di
grano che cade nella terra e muore, e così porta molto frutto, l’essenza
dell’amore e dell’esistenza umana (cfr. n. 6).
Amore ascendente e amore
discendente
È alla luce di questo
riferimento totalmente biblico che il santo Padre può riprendere ancora
le intuizioni sull’amore ascendente, inteso come eros,
collegandolo indissolubilmente all’amore discendente, identificato con
l’agape, e constatando: «In realtà eros e agape –
amore ascendente e amore discendente – non si lasciano mai separare
completamente l’uno dall’altro» (n. 7), pur evidenziando, in questa
indissolubilità reciproca, un primato indiscusso dell’agape, dal
momento che senza di esso «l’eros decade e perde anche la sua
stessa natura» (ivi).
Credo che questa sia
un’affermazione assolutamente centrale dovuta, ancora una volta, al
fondamento biblico che tutta la sorregge. La metafora della sorgente è
assai illuminante in tutto questo. Scrive il Santo Padre: «Certo l’uomo
può – come dice il Signore – diventare sorgente dalla quale sgorgano
fiumi d’acqua viva (cfr. Gv 7,37-38). Ma per divenire una tale sorgente,
egli stesso deve bere, sempre di nuovo, a quella prima, originaria
sorgente, che è Cristo, dal cui cuore trafitto scaturisce l’amore di
Dio» (cfr. Gv 19,34).
Del resto «L’amore può
essere ‘comandato’ perché prima è donato» constata il papa riassumendo
tutto l’insegnamento di Giovanni (n. 14).
Questo primato
dell’amore che viene da Lui, dal Crocifisso, fonda ogni altra
possibilità di amore.
Il santo Padre ne
deduce – facendosi per un momento discepolo di Gregorio Magno – un
analogo primato della contemplazione sull’azione ma, di nuovo, senza che
questo comporti una sorta di superiorità di grado della vita
contemplativa sulla vita attiva, essendo soltanto un primato di origine
della prima sulla seconda in analogia al Padre che, rispetto al Figlio,
è origine e fonte della divinità, senza che questo nulla tolga alla
perfetta uguaglianza del Padre col Figlio nell’amplesso comune dello
Spirito Santo.
L’intuizione di papa
Ratzinger sulla pari dignità fra vita attiva e vita contemplativa,
condivisa da Agostino e da Gregorio Magno, i quali parlavano chiaramente
di gemina caritas, mi sembra fondamentale. Essa infatti elimina
in un colpo solo secoli di contrapposizione e di supposta superiorità
dell’una o dell’altra forma di vita, sostenute senza sufficiente
consapevolezza teologica e sfociate in discussioni inutili, spesse volte
perfino laceranti, che hanno prodotto grandi danni alla concezione della
vita consacrata.
Credo che, a partire da
questi suggerimenti del papa teologo, tutti coloro che si dedicano a
riflettere sui fondamenti biblico-teologici della vita consacrata
dovrebbero trarne grande giovamento.
L’approfondimento di
questa tematica, che papa Benedetto compie con l’aiuto di Gregorio
Magno, è di un’importanza fondamentale.
Scrive il santo Padre:
«San Gregorio, in questo contesto, fa riferimento a san Paolo che viene
rapito in alto fino nei più grandi misteri di Dio e così, quando ne
discende, è in grado di farsi tutto a tutti (cfr. 2Cor 12,2-4; 1Cor
9,22). Inoltre indica l’esempio di Mosè che sempre di nuovo entra nella
tenda sacra restando in dialogo con Dio per poter così, a partire da
Dio, essere a disposizione del suo popolo. Dentro (la tenda) rapito in
alto mediante la contemplazione, si lascia fuori (della tenda) incalzare
dal peso dei sofferenti: intus in contemplationem rapitur, foris
infirmantium negotiis urgetur» (n. 7).
L’amore nei Padri della
Chiesa
In realtà tutto questo
conduce inevitabilmente il lettore, e il santo Padre ne è profondamente
cosciente, alla teologia tradizionale dei Padri sull’immagine di Dio
riflessa nell’interiorità dell’uomo. «Sì, esiste una unificazione
dell’uomo con Dio – il sogno originario dell’uomo – ma questa
unificazione non è un fondersi insieme – spiega il papa teologo- un
affondare nell’oceano anonimo del Divino; è unità che crea amore, in cui
entrambi – Dio e l’uomo – restano se stessi e tuttavia diventano
pienamente una cosa sola: “Chi si unisce al Signore forma con lui un
solo spirito”, dice san Paolo (1 Cor 6,17)» (n. 10).
Da questa misteriosa
unità nella distinzione, così fondamentale nella teologia biblica
cristiana, il santo Padre parte non soltanto per suggerire alcuni punti
di antropologia cristiana, ma anche per sviluppare ulteriormente la sua
particolare concezione dell’amore fra uomo e donna. Spiega papa
Ratzinger: «Adamo trova l’aiuto di cui ha bisogno: ‘Questa volta essa è
carne della mia carne e osso dalle mie ossa’ (Gn 2,23). È possibile
vedere sullo sfondo di questo racconto concezioni quali appaiono, per
esempio, nel mito riferito da Platone» (n.11); ciò non toglie in ogni
caso che sia fondamentale affermare che l’uomo «solo nella comunione con
l’altro sesso possa diventare ‘completo’».
Il che permette di
capire la profezia su Adamo contenuta nel libro della Genesi, là dove si
legge: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a
sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24).
Il santo Padre può così
concludere con estrema serenità: primo, che «l’eros è come
radicato nella natura stessa dell’uomo» (un’affermazione del tutto
ovvia, a partire dall’intuizione biblica, e tuttavia a suo modo di suono
quasi rivoluzionario ad alcune orecchie cristiane contemporanee);
secondo, che l’eros inscritto nella creazione dell’uomo suppone il
matrimonio inteso come «un legame caratterizzato da unicità e
definitività» (anche questa un’affermazione del tutto ovvia e tuttavia
di difficile accoglienza nella società contemporanea).
Il santo Padre, ben
consapevole di simili difficoltà non torna però indietro e ribadisce le
sue convinzioni, attinte all’insegnamento biblico, sintetizzando:
«All’immagine del Dio monoteistico corrisponde il matrimonio
monogamico». Per cui «il matrimonio basato su un amore esclusivo e
definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e
viceversa». Stabilendo poi solennemente il principio che «il modo di
amare di Dio diventa la misura dell’amore umano» (n. 11).
Un principio, che posto
in relazione con il mistero dell’amore fatto carne in Gesù di Nazaret
permette a papa Benedetto di scendere nelle profondità abissali di ciò
che ha enunciato fin da principio nella sua Enciclica con le parole di
1Gv 4,8 proclamando al mondo intero che ‘Dio è amore’.
Spiega papa Ratzinger:
«È sulla morte in croce di Cristo che questa verità può essere
contemplata», perché proprio «partendo da lì deve definirsi che cosa sia
l’amore». Infatti solo partendo da «questo sguardo il cristiano trova la
strada del suo vivere e del suo amare» (n. 12). Un vivere e un amare che
restano squisitamente personali, fondando teologicamente la diversità
delle scelte di vita cristiana che possono andare dalla chiamata al
compimento ‘naturale’ nel matrimonio, al misteriosissimo completamento
umano che uomini e donne, chiamati da un particolarissimo sguardo
ricevuto dal Crocifisso stesso alla vita consacrata, realizzano in Lui.
La connessione
strettissima fra sacrificio della croce ed eucaristia è, a questo punto,
del tutto ovvia e naturale per qualunque battezzato. Così come viene
accolta con naturalezza l’osservazione che nell’Eucaristia «l’agape di
Dio viene a noi corporalmente per continuare il suo operare in noi e
attraverso di noi». E che «solo a partire da questo fondamento
cristologico-sacramentale si può capire correttamente l’insegnamento di
Gesù sull’amore» (n. 14): Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo
molti, siamo un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane
(1Cor 10,17), dice san Paolo.
E papa Benedetto
commenta: «L’unione con Cristo è allo stesso tempo unione con tutti gli
altri ai quali Egli si dona. Io non posso avere Cristo solo per me»
(ivi), né mi posso illudere di tralasciare completamente l’attenzione
all’altro, «volendo essere solamente ‘pio’ e compiere i miei ‘doveri
religiosi’, perché allora si inaridisce anche il rapporto con Dio» (n.
18); né posso pensare di avere con gli altri un rapporto «soltanto ‘corretto’,
ma senza amore» (ivi).
L’amore poi non è
soltanto un sentimento – precisa il santo Padre –, che spiega: «Il
sentimento può essere una meravigliosa scintilla iniziale, ma non è la
totalità dell’amore. È proprio della maturità dell’amore coinvolgere
tutte le potenzialità dell’uomo e includere l’uomo nella sua interezza».
Questa maturità «unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto
totalizzante dell’amore» in un processo continuamente in divenire,
perché «l’amore non è mai concluso e completato» (n. 17, passim).
“L’amore cresce –
conclude papa Benedetto – attraverso l’amore. L’amore è divino perché
viene da Dio e ci unisce a Dio e, mediante questo processo unificante,
ci trasforma in un Noi che supera le nostre divisioni e ci fa diventare
una cosa sola, fino a che, alla fine, Dio sia <tutto in tutti> (1Cor
15,28)”. (n. 18).
I servizi della carità
La seconda parte
dell’Enciclica inizia con una vera e propria sinfonia di testi biblici
dai quali parte il santo Padre per riassumere i concetti principali
espressi nella prima parte e rilanciare il discorso sull’amore aprendolo
ai molteplici servizi propri di una carità operante.
Fondamentali, in questa
parte, sono due proposte paradigmatiche poste l’una di fronte all’altra:
primo, la dimensione trinitaria della carità supportata dalla
splendida citazione di sant’Agostino: «Se vedi la carità, vedi la
Trinità»; secondo, il riferimento alla koinonia originaria
della Chiesa descritta negli Atti degli Apostoli (cfr. nn. 19-20), col
prezioso riferimento allo Spirito indicato come «forza che trasforma il
cuore della Comunità ecclesiale, affinché sia nel mondo testimone
dell’amore del Padre, che vuole fare dell’umanità, nel suo Figlio,
un’unica famiglia» (n. 19).
Da cui l’esaltante
conseguenza del servizio della carità della Chiesa, inteso come
“espressione di un amore che cerca il bene integrale dell’uomo, cerca la
sua evangelizzazione mediante la Parola e i Sacramenti, e cerca la sua
promozione nei vari ambiti della vita e dell’attività umana.
Amore è pertanto –
sottolinea il papa – il servizio che la Chiesa svolge per venire
costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali,
degli uomini” ( n. 19). Un compito che la Chiesa non può esimersi dal
compiere «a tutti i suoi livelli: dalla comunità locale alla Chiesa
particolare fino alla Chiesa universale nella sua globalità» (n. 20).
La Chiesa infatti «non
può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i
Sacramenti e la Parola» (n. 22). Direi che in questa triade:
Servizio, Sacramenti, Parola, debba essere vista la sintesi della
parte propositiva di tutta l’Enciclica. L’elevazione del Servizio della
carità allo stesso livello di Sacramento e Parola, nonostante che essa
sia del tutto ovvia nell’insegnamento del Nuovo Testamento, costituisce
forse, accanto alla pari dignità fra vita attiva e contemplativa, della
quale abbiamo già parlato, la particolare accentuazione che papa
Benedetto intende dare al suo servizio pastorale e al suo magistero
universale.
Da qui un invito
spontaneo – mi sembra – per tutti i componenti del corpo ecclesiale, a
prendere sul serio queste due accentuazioni del papa per farne un
approfondimento adeguato a tutti i livelli generazionali e culturali,
sia nell’ambito laicale che in quello della vita consacrata, che porti a
scoprire in ciò che ci siamo permessi di chiamare con linguaggio
patristico gemina caritas, l’obiettivo o il fine della comune
appartenenza cristiana.
Il santo Padre offre a
questo proposito una vera e propria traccia di lavoro quando,
sintetizzando i due dati essenziali del suo insegnamento, scrive:
a) L’intima natura
della Chiesa si esprime in un triplice compito: annuncio della Parola di
Dio (kerygma-martyria), celebrazione dei Sacramenti (leiturgia),
servizio della carità (diakonia).
Sono compiti che si
presuppongono a vicenda e non possono essere separati l’uno dall’altro.
La carità non è per la
Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe
anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione
irrinunciabile della sua stessa essenza.
b) La Chiesa è la
famiglia di Dio nel mondo. In questa famiglia non deve esserci nessuno
che soffra per mancanza del necessario.
Al contempo però la
caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa” (n. 25).
La dimensione ecumenica
della carità è fuori discussione, così come è ovvio l’impegno, anche
politico, dei credenti per una società umana la più giusta possibile,
per il semplice fatto che, come diceva Agostino in un’altra delle perle
patristiche proposte da papa Ratzinger: Remota itaque iustitia quid
sunt regna nisi magna latrocinia?; cioè: “se non c’è giustizia a
cosa si riducono i regni se non a un grande latrocinio?”. Un giudizio
severissimo nei confronti di qualunque istituzione politica che non
ponga scrupolosamente se stessa a servizio della giustizia.
L’impegno politico va
comunque perseguito – sottolinea il papa – tenendo conto che «alla
struttura del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di
Cesare e ciò che è di Dio» (cfr. Mt 22,21).
Particolarmente
importante per i credenti che sono stati chiamati alla vita consacrata è
il richiamo del santo Padre a garantire la «formazione del cuore» (cfr.
n. 31).
Una formazione che
dovrebbe realizzare «quell’incontro con Dio in Cristo che susciti in
loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore
del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire
dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa
operante nell’amore» (cfr. Gal 5,6).
Il programma del
cristiano – il programma del buon Samaritano, il programma di Gesù – è
‘un cuore che vede’, spiega ulteriormente il papa. «Questo cuore vede
dove c’è bisogno di amore e agisce in modo conseguente» (n. 31). E fa
tutto questo con atteggiamento assolutamente gratuito, privo
scrupolosamente di secondi fini, senza tuttavia lasciare da parte né Dio
né Cristo, dal momento che è in gioco sempre tutto l’uomo e «spesso è
proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza» (ivi).
Conclusione
Conclude il papa: «Il
cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere
di Lui e lasciar parlare solamente l’amore. Egli sa che Dio è amore (cfr.
1Gv 4,8) e si rende presente proprio nei momenti in cui nient’altro
viene fatto fuorché amare… Di conseguenza la migliore difesa di Dio e
dell’uomo consiste proprio nell’amore» (ivi).
Non poteva esserci
conclusione più bella di questa in una Lettera Enciclica interamente
dedicata all’amore. Da queste parole del santo Padre riceviamo infatti
una tale provocazione alla libertà da fugare una volta per tutte, in noi
e in ogni nostro interlocutore, qualunque preoccupazione moralistica,
proselitistica, ideologica e quant’altro dovesse oscurare la limpidità
dell’amore di Dio che si è riversato sopra di noi col sangue
preziosissimo di Cristo e che continua a permeare la Chiesa e ogni
singolo fedele grazie al dono ineffabile dello Spirito Santo.
L’ultima parte
dell’Enciclica rivela la consapevolezza di papa Ratzinger sulla vacuità
delle parole, e delle attività, perfino di quelle di un papa, se non
sono accompagnate dalla testimonianza di una vita che faccia appunto
dell’agape, come insegna Paolo nel suo bellissimo inno di 1Cor
13, la fonte, il centro e il culmine dell’intera vita di fede.
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