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"Pulisco
la tomba di Monsignore perché era mio padre…Perché quelli come me lui li
amava, non gli facevano schifo. Ci parlava, ci toccava, ci chiedeva,
addirittura si confidava con noi. Se sapessi l’affetto che aveva per
noi! Per questo gli pulisco la tomba; egli ha dato la sua vita per me…”.
Queste parole sono
pronunciate da un povero vestito di cenci e coi capelli pieni di polvere
della città di El Salvador, che una mattina d’inverno pulisce con cura,
con uno dei suoi stracci sporchi di unto e di tempo, la tomba di Mons.
Romero, l’arcivescovo assassinato il 24 marzo 1980, mentre celebrava la
messa.
Le parole di questo
povero sono la costante testimonianza che i miseri danno nei confronti
dei santi. I santi non solo accolgono, ma amano. Amare vuol dire
parlare, toccare, chiedere, confidarsi, mettersi alla stessa altezza.1
I santi amano, si fanno
prossimo, si prendono cura: sempre, senza condizioni, perché sanno che
nessuno può vivere senza amore.
Prendersi cura è il
cuore del genio femminile, è il modo tipico di amare della donna, di
ogni donna, è il modo femminile di stare accanto. Come ricorda la
Mulieris dignitatem, «la donna non può ritrovare se stessa se non
donando l’amore agli altri» e ancora «Dio le affida in modo speciale
l’uomo», la persona umana: uomo o donna, giovane o anziano, povero o
ricco, bianco o nero…, senza distinzioni e preclusioni.
«La Chiesa cattolica –
diceva il Card. Stepinac, oggi beato, durante l’omelia della festa di
Cristo Re (31 ottobre 1943) – non conosce razze di padroni e razze di
schiavi. La Chiesa cattolica conosce solo razze creature di Dio e, se
stima qualcuno più degli altri, questi è colui che ha il cuore più
nobile e non il pugno più forte. Per essa è un uomo tanto il nero
dell’Africa centrale quanto l’europeo. Per essa è uomo tanto il re nel
palazzo regale quanto l’ultimo poveraccio e lo zingaro sotto la tenda».
L’altro è
mio fratello, mia sorella, mio familiare.
Nel suo testamento,
dedicato alle nuove generazioni, il poeta turco Nazim Hikmet ha scritto:
«Non vivere su questa terra come un estraneo o come un turista nella
natura. Vivi in questo mondo come nella casa di un padre: credi al
grano, alla terra, al mare, ma prima di tutto credi nell’uomo.
Ama le nuvole, le
macchine, i libri, ma prima di tutto ama l’uomo.
Senti la tristezza del
ramo che secca, dell’astro che si spegne, dell’animale ferito che
rantola, ma prima di tutto senti la tristezza e il dolore dell’uomo».2
Chi ama sente,
sperimenta la tristezza nel cuore di un fratello o di una sorella, che
diventa la sua tristezza, il suo peso e la sua ala.
Ho appena citato due
passi della Mulieris dignitatem, «la donna non può ritrovare
se stessa se non donando l’amore agli altri» e «Dio le affida in
modo speciale l’uomo». Essi dicono l’attitudine propria della donna
di innalzare l’amore a partire dalla vita per accettare il vincolo
dell’interdipendenza e ritrovarvi le radici della vera solidarietà. È
proprio l’universo femminile a ricordare allora, con la sua ricchezza,
che «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un
essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene
rivelato l’amore, se non lo esperimenta e non lo fa proprio, se non vi
partecipa vivamente» (Redemptor hominis, n. 10). In questa
prospettiva, ricordare che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e
somiglianza significa ricordare che Dio, chiamando l’uomo «all’esistenza
per amore, l’ha chiamato nello stesso tempo all’amore» (Familiaris
consortio, n. 11).
Nella sua splendida
Enciclica “Deus Caritas est” Benedetto XVI dice testualmente: «Lo
sguardo rivolto al fianco squarciato di Cristo è stato il punto di
partenza della mia Lettera enciclica» e ancora «chiunque ha bisogno di
me e io posso aiutarlo, è il mio prossimo» (n. 15). Con questa sua prima
Enciclica egli vuole entrare nel cuore della fede cristiana; il
cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita soltanto
con queste parole: «Noi abbiamo creduto all’amore di Dio».
Amare, prendersi cura,
farsi prossimo
è la vocazione peculiare della donna, la creatura umana voluta da Dio
per generare, custodire, educare la vita, soprattutto oggi, in una
società che patisce una profonda crisi antropologica e che sfida proprio
le donne – e a fortiori noi consacrate – ad assicurare una
globalizzazione centrata sulla persona e di conseguenza sulla
solidarietà, in particolare con chi soffre nel corpo e nello spirito. È
infatti soltanto la centralità della persona che nel nostro mondo
multiculturale porta a valorizzare la comunione tra singoli e
popoli al di sopra di ogni sistema, idea o ideologia; a scoprire
il vero significato della relazione e ciò che l’altro – non più nemico o
concorrente – può offrire; a sviluppare il paradigma di una
civiltà planetaria e nel contempo plurale; a salvaguardare le
istanze universalistiche di ogni cultura in uno spirito aperto alle
differenze e alla molteplicità, senza alcuna volontà omologante.
La persona umana non è
una cosa che posso usare, strumentalizzare, manipolare, dominare. Non
può essere sacrificata alla storia, alla fama dei grandi, al guadagno,
al vizio, ad interessi economici e politici. La persona umana deve
essere rispettata e protetta sempre, fin dal concepimento, fino alle
soglie della morte.
È dentro questa crisi
antropologica globale che esplode il problema della povertà nelle sue
molteplici forme, antiche e nuove, e percuote la coscienza dei credenti
e di tanti uomini e donne di buona volontà. Chi è appassionato della
vita, e la donna è custode della vita, e vuole la felicità di ogni
essere umano sente il grido dei poveri, anche quando la sua natura si
ribella, sente il grido dei poveri che non trova ascolto: «Avevo fame
e ho ancora fame. Avevo sete e resto assetato. Ero straniero e non trovo
una terra amica. Ero carcerato e nessuno mi ha liberato. Ero nudo e
continuo a vestirmi di freddo. Ero malato e muoio solo. Avevo dubbi e
nessuno mi aiuta a capire. Ero angosciato e nessuno mi dà speranza. Ero
bambino di strada e solo la strada con le sue violenze mi accoglie».3
Ero violentata e mi hanno insultato…..
Il grido dei poveri,
dei bambini, degli anziani, delle donne… Noi donne, donne consacrate,
sentiamo, vogliamo sentire, il grido delle donne, che si è fatto
esplicito nella Conferenza di Pechino (ormai purtroppo dimenticata). Più
di una volta mi sono interrogata: quale risvolto concreto hanno avuto,
anche in ambito cattolico, due delle parole chiave di Pechino:
empowerment (energia, potere, capacità e volontà di mettere al
centro la persona) e mainstreaming (punto di vista femminile)?
Per limitarmi a qualche dato, che evidenzia come poco o nulla sia
cambiato rispetto a dieci anni fa, ricordo le parole di Hillary Clinton
pronunciate in seno alla Conferenza: alle bimbe viene negato il cibo, o
sono affogate, o gli si spezza la spina dorsale semplicemente perché
sono nate femmine. In Cina, India e Corea del Sud le ecografie prenatali
sono divenute funzionali all’aborto selettivo: female foeticide.
In Tibet questi metodi estesi alla sterilizzazione hanno portato a un
vero e proprio genocidio. In Bosnia-Erzegovina si sono stimati circa
300.000 stupri; tra i 114.000.000 di donne che subiscono mutilazioni
sessuali, più di 2.000.000 ogni anno sono bambine. In Thailanda e nelle
Filippine centinaia di migliaia di ragazze sono avviate alla
prostituzione o vendute come schiave nei paesi arabi. In Paesi evoluti
come Canada, Olanda, Norvegia e Stati Uniti un terzo delle donne
denunciano abusi sessuali durante l’infanzia e l’adolescenza. In India
ogni giorno 13 donne muoiono per questioni legate alla dote, e spesso
arse vive.
Oltre i due terzi degli
analfabeti nel mondo sono donne. Percentuali che crescono in Africa (80%
con punte del 97%) e in Cina (70%). Nelle campagne del Kenya le donne
lavorano in media tre ore al giorno più degli uomini. In Africa le donne
rappresentano oltre il 60% della forza lavoro agricola, ma ricevono solo
l’1% del credito agricolo. Quasi ovunque le donne vengono pagate dal 30
al 40% in meno degli uomini, pur essendo impegnate in media il 13% in
più. Anche l’emigrazione penalizza la donna: “partono colf, diventano
schiave”. Nel 2000 si stima che le sole Filippine sradicate all’estero
siano state 8.000.000. Nel mondo islamico non di rado le cristiane sono
perseguitate due volte: in quanto cristiane e in quanto donne; ma la
sorte non è più rosea per le musulmane che si impegnano per
l’emancipazione femminile, o che combattono per la pace: in Pakistan
scrivere un libro che narra la persecuzione islamica contro una famiglia
indù, può costare la vita.4
Nonostante questa
situazione perduri – o forse si aggravi – non possiamo non indicare
delle tendenze contro corrente attraverso alcuni esempi di donne che
tutte conosciamo: Rigoberta Menchù che difende i diritti delle
popolazioni indigene; Vandana Shiva che unisce alla lotta contro la
privatizzazione dell’acqua nel suo paese la difesa dei diritti delle
popolazioni locali; Wangari Maathai che lotta per la riforestazione del
Kenia e per l’indigenza e l’emarginazione delle donne del suo Paese. E
gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Un esempio luminoso ci
viene dalla missionaria laica Annalena Tonelli. Il 1° dicembre 2001,
durante un convegno organizzato in Vaticano dal Pontificio Consiglio per
la Pastorale della Salute, Annalena descrive la sua esperienza di vita
tra gli ultimi e i più sofferenti del mondo. Dopo poco meno di due anni,
il 5 ottobre del 2003, viene uccisa a Borama, cittadina del Somaliland,
ex Somalia britannica, ora parte nord-ovest della Somalia:5 vittima di
un gruppo terroristico che l’ha uccisa nell’Ospedale dove lavorava. Ecco
le sue parole.
«Nulla ha senso al di
fuori dell’amore. La mia vita ha conosciuto tanti e poi tanti pericoli,
ho rischiato la morte tante e poi tante volte. Sono stata per anni nel
mezzo della guerra. Ho esperimentato nella carne dei miei, di quelli che
amavo, e dunque nella mia carne, la cattiveria dell’uomo, la sua
perversità, la sua crudeltà, la sua iniquità. E ne sono uscita con una
convinzione incrollabile: ciò che conta è solo amare. Se anche Dio non
ci fosse, solo l’amore ha un senso, solo l’amore libera l’uomo da tutto
ciò che lo rende schiavo, solo l’amore fa respirare, crescere, fiorire.
Solo l’amore fa sì che noi non abbiamo più paura di nulla, che noi
porgiamo la guancia ancora non ferita allo scherno e alla battitura di
chi ci colpisce, perché non sa quello che fa, e noi rischiamo la vita
per i nostri amici: perché tutto crediamo, tutto sopportiamo, tutto
speriamo. Ed è allora che la nostra vita diventa degna di essere
vissuta, […] che diventa bellezza, grazia, benedizione. Ed è allora che
la nostra vita diventa felicità anche nella sofferenza, perché noi
viviamo nella nostra carne la bellezza del vivere e del morire […]. Vivo
calata profondamente in mezzo ai poveri, ai malati, a quelli che nessuno
ama».
Quante altre, come lei,
hanno speso e spendono tutta la propria vita per farsi prossimo, per
prendersi cura. Penso all’arcobaleno dei diversi carismi e alle donne
sante che li hanno suscitati o sviluppati: Teresa d’Avila, Caterina,
Luisa, Maria Domenica, Brigida, Teresa di Calcutta… Donne umili e grandi
che si “prendono cura”, vivendo pienamente e con gaudio la propria
missione nella Chiesa.
Accanto a queste donne,
purtroppo, ne dobbiamo menzionare altre che ci stiamo abituando a
vedere, pur con sgomento, in questi ultimi anni: invece di seminare vita
generano morte.
Penso alle donne
kamikaze, in particolare alle terroriste che a Beslan, in Ossezia, il 3
settembre del 2004 uccisero, paradossalmente proprio durante la
celebrazione di una festa della pace, centinaia di persone, la maggior
parte bambini. «Beslan impressiona e spaventa per lo sfondamento di
quell’argine che è l’amore alla vita da parte di chi la vita la tesse
nel suo grembo ed è chiamata a custodirla con tutto il suo essere. La
corsa di quei bambini disperati e nudi, violentati nella loro innocenza
anche da donne che quel pudore dovrebbero insegnarlo e custodirlo, è il
segno – la ferita – che si è passato il limite, si è varcato quel
confine interiore che si erge nel cuore dell’uomo come il baluardo più
sicuro della vita e della sua dignità».6
Domandiamoci: che cosa
fare di fronte a tutto questo? Come scriveva Etty Hillesum, «a ogni
nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzettino di amore e di
bontà che avremo conquistato in noi stessi». Ecco la prima sfida: noi
siamo la prima frontiera dell’amore, il primo campo in cui gettare il
seme dell’amore e della bontà. Non possiamo seminare bontà se non siamo
buone. La bontà non è una virtù obsoleta: pensiamo a papa Giovanni XXIII.
Questo premesso,
entriamo ora in qualche dettaglio del tema, mettendo a fuoco alcune
realtà e ferite che riguardano specificamente il mondo femminile e
aspettano il balsamo del nostro amore.
Le povertà “feriali”: il
grido coperto dal silenzio
Il grido coperto dal
silenzio. Pensiamo al problema delle donne nubili o separate con figli e
ai problemi della salute dovuti spesso all’invecchiamento (si vive più a
lungo rispetto al passato). Pensiamo alla condizione economica delle
donne anziane che è spesso precaria e non consente loro di avere una
reale “qualità di vita” (la casa, le cure e l’assistenza, il tempo
libero, l’accesso all’informazione). Sappiamo che la solitudine
frequente delle donne anziane è una delle ragioni delle depressioni
gravi, dell’incremento dell’alcoolismo, dell’abuso di psicofarmaci.
Pensiamo alle donne
disoccupate o con un lavoro mal retribuito e precario. In questo caso,
la dipendenza economica e psicologica dal partner maschile opera
un effetto boomerang sulla vita delle donne: più si è dipendenti,
meno disponibilità economica si ha, meno vita sociale si fa, più
difficoltà si incontrano nel trovare un’occupazione. La scarsa autonomia
personale non fa altro che generare povertà e ulteriore dipendenza,
innescando un meccanismo a spirale di discesa in una condizione di
deprivazione.
Pensiamo alle donne
casalinghe nelle famiglie con un solo percettore di reddito, in
particolare se numerose o travagliate, e alle donne in famiglie con
grandi problemi (ad esempio la presenza di un disabile o di un anziano
non autosufficiente): il lavoro di cura viene ulteriormente amplificato,
rendendo ancora più difficile la sintesi tra impegno professionale e
familiare e inasprendo la dipendenza femminile dal nucleo familiare e
parentale o dai sussidi assistenziali.
Tra le povertà estreme
è in aumento quella delle persone senza fissa dimora, di cui il 23,3%
sono giovani donne. Tra le immigrate, che rappresentano oltre il 40%
degli stranieri in Italia, la povertà è una condizione endemica – anche
se non generale – legata a innumerevoli fattori.
La povertà femminile
non riguarda però solo i beni materiali, ma si allarga – come sappiamo –
alle violenze fisiche, alla prostituzione, al lavoro nero,
all’analfabetismo, agli abusi sessuali, fenomeni tutti che non
colpiscono solo le donne straniere.
Inoltre, l’umiliazione
delle donne nei media è un fenomeno preoccupante. Va segnalato
innanzitutto che la presenza della donna nel mondo dei mass media
è in crescita. Aumentano le assunzioni di donne nelle redazioni, ma
secondo alcune stime, sono sempre le ragazze la maggioranza dei
lavoratori precari nel settore. Si femminilizza dunque il mondo
dell’informazione, ma ogni politica di mainstreaming e di
empowerment nel settore si presenta lunga e faticosa. L’immagine
della donna che viene presentata dai media è stereotipata; c’è
una commercializzazione del corpo femminile nella pubblicità e una
minore attenzione, da parte delle stesse donne, riguardo alla
strumentalizzazione della sessualità nelle immagini pubblicitarie della
moda. Salvo eccezioni, l’unica immagine attribuita alle donne immigrate
è quella della “cronaca nera”.
Di più, la
manipolazione genetica tende a fare dell’utero della donna una specie di
laboratorio sperimentale ed è la stessa immagine del corpo femminile ad
essere manipolata in modo sostanziale, cioè costruita secondo criteri
funzionali alle possibilità tecniche della chirurgia plastica e della
medicina estetica.
Domandiamoci: dov’è
finito il riserbo, quella virtù femminile tanto cara alle nostre nonne e
mamme? E noi consacrate crediamo ancora alla fecondità di questa virtù
che i nostri sommi artisti hanno immortalato nel volto di tante
splendide Madonne? Nell’educazione delle giovani e nella formazione alla
vita consacrata facciamo spazio a questa virtù?
Pensiamo poi alle
violenze sessuali e ai maltrattamenti fisici e psicologici che avvengono
nell’ambito familiare. Una recente indagine dell’ISTAT attesta che l’80%
dei casi di violenza avviene nel contesto di rapporti di fiducia e circa
il 90% delle donne che si rivolgono a un centro anti-violenza hanno
subìto danno fisico o sessuale nell’ambito familiare. Il traffico delle
donne ai fini dello sfruttamento sessuale investe oggi molti Paesi. I
dati dimostrano che la cultura della violenza e dell’omertà, nonostante
il forte impegno – anche organizzato – delle donne, è molto diffusa. C’è
inoltre una certa complicità sotterranea che cerca di nascondere il
fenomeno, quando avviene dentro le mura domestiche, e permane
l’illusione che il violento o lo stupratore sia sempre un “estraneo” o
uno “straniero”.
Tutte queste situazioni
meritano qualche riflessione trasversale, che ci interessa come donne e
come donne consacrate: non dimentichiamo che la povertà che colpisce le
donne è spesso invisibile e tocca a noi individuarla soprattutto
quando si veste di dignità e discrezione; quando la donna deve
dipendere sempre e totalmente dal reddito del marito rischia di
perdere la stima di sé e di sottovalutare le proprie risorse; il
lavoro di cura che le donne prestano nella famiglia (accudire i
figli, curare un malato, un anziano, un handicappato…) non è considerato
e remunerato e viene pertanto sottovalutato rispetto al lavoro
professionale; la povertà che colpisce le donne, soprattutto quella
estrema, è una violazione della dignità umana.
Per tutti questi
motivi, perché siamo donne, e perché abbiamo scelto di seguire Gesù, non
possiamo esimerci dal farci carico delle tante donne che patiscono la
povertà nella propria carne e nel proprio spirito, pur consapevoli che
nel fare un viaggio dentro il mondo della povertà è a volte più
impegnativo e costoso che raggiungere una missione ai confini del mondo…
La nostra scelta
vocazionale ci chiede di scendere “dentro i drammi della povertà”, di
mettere la persona del povero, della donna povera, prima del sabato, di
farci esperte nell’ascolto e nell’accoglienza di fronte
all’anonimato e alle forme di solitudine che percuotono troppi fratelli
e sorelle. Guai ad essere tutta bocca e niente orecchie o a innalzare
troppe antenne paraboliche, segno che il nostro cuore e i nostri
interessi sono radicati altrove, nel mondo delle sicurezze di ogni
genere, e che la povertà per noi non è la “patria del cuore”. Ogni
carisma è ricco di una grazia particolare che lo rende balsamo per le
tante povertà: carismi della misericordia, della compassione,
dell’educazione, della prevenzione, del recupero…
A questo proposito,
pensando che molti dei problemi a cui ho fatto cenno hanno un’incidenza
sulla famiglia o derivano dalla profonda crisi che la percuote, desidero
fare un accenno alla forza solidale ed evangelizzatrice dei voti. Per le
famiglie, per le mogli e le mamme in particolare, che vivono in un
momento difficile di precarietà economica, affettiva, spirituale, noi
possiamo essere il segno della fedeltà alla vocazione. La nostra
povertà, vissuta radicalmente può insegnare che nella famiglia è
importante dare priorità agli affetti e alle relazioni umane, anziché al
denaro e alle cose; la nostra castità dice che la sessualità merita di
essere vissuta come momento gioioso di comunicazione e di dono; la
nostra obbedienza può essere emblematica per le relazioni tra gli sposi
e dei genitori con i figli (pensiamo all’incidenza che il clima della
famiglia ha sull’educazione).
Non dimentichiamoci,
infine, che se la miseria colpisce soprattutto le donne, queste ultime
sono anche le prime a proteggere i propri cari dalla povertà e
dall’esclusione sociale, spesso nel silenzio; che le donne più povere
devono essere coinvolte per prime quando si tratta di concepire,
attuare, valutare strategie di azione contro la povertà; che non è
possibile eliminare la povertà femminile prescindendo dal ruolo
ricoperto dagli uomini e dalla collaborazione con loro.
Ho richiamato la
fecondità dei carismi e la forza testimoniante dei voti come strada
privilegiata per essere balsamo delle ferite che percuotono la famiglia.
Desidero ora allargare l’ottica della riflessione e portare lo sguardo
su Maria, la tutta bella, la povera, l’obbediente. Ogni carisma esprime
un tratto peculiare di Maria. Se penso al mio Istituto, che si dedica in
particolare all’educazione della donna, faccio subito riferimento a
“Maria a Cana”. “ Fate quello che Egli vi dirà!”. Questa – a mio avviso
- è l’immagine di Maria che connota ogni carisma educativo: apprendere
dal Signore, essere a disposizione di Dio, seguire le sue orme, guidati
da Maria. Oppure, “Maria presso la croce”. Maria, la donna che “stava”
presso il Figlio morente, richiama il carisma della com-passione che
caratterizza molte Congregazioni che si dedicano ai malati, agli
anziani, agli emarginati . Pensiamo alle Congregazioni che si ispirano a
“Maria che visita Elisabetta” e si impegnano per l’evangelizzazione dei
popoli, per l’evangelizzazione delle parrocchie, oppure a quelle che
fanno proprio nella contemplazione quotidiana l’esempio di “Maria nel
Cenacolo” in attesa dello Spirito, oppure quelle che si ispirano a Maria
che prende il suo bambino, ricercato da Erode, e fugge in Egitto o a
Maria che custodisce in cuore la profezia del vecchio Simeone: “Anche a
te una spada trafiggerà l’anima”.
Alla sequela di Maria
ogni donna consacrata è chiamata a testimoniare che la castità
del cuore, del corpo, della vita è l’espressione piena e forte di un
amore totale per Dio che rende la persona libera, piena di gioia
profonda e disposta alla missione, Si tratta di una testimonianza
importantissima di fronte ad una cultura che tende sempre più a
banalizzare l’amore umano e a chiudersi alla vita.
(continua)
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