n. 9
settembre 2006

 

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«Lasciando da parte gli esempi dei tempi antichi veniamo agli atleti che sono stati più vicini a noi. Mettiamoci davanti agli occhi gli esempi eroici della nostra generazione». Non è un invito di oggi, anche se potrebbe sembrarlo. Fu scritto nientemeno che da San Clemente I, papa, «terzo dopo gli apostoli» al dire di Ireneo di Lione, verso la fine del I secolo. È preso dalla celebre Epistola  ai Corinzi scritta da lui alla comunità di Corinto, appunto, in occasione di forti lacerazioni interne.

Ed è un invito validissimo ancora oggi, epoca di martiri e di santi, di eroismi conosciuti da molti, come quello di don Andrea Santoro, di sr. Laura Mainetti delle Figlie della Croce o sr. Teresilla Barillà delle Serve di Maria Riparatrici, oppure semplicemente ignoti ai più, o noti soltanto, ma proprio soltanto, al Dio che ci scruta e ci conosce.

Prendiamo questa affermazione di san Clemente perché il 23 giugno u.s. alle 12, nella Sala della Conciliazione del Palazzo Apostolico Lateranense, il Card. Camillo Ruini, Presidente CEI e Vicario del papa per la diocesi di Roma, apriva la fase diocesana del processo di beatificazione e canonizzazione del servo di Dio Eduardo Francisco Pironio, un ‘esempio eroico della nostra generazione’. La sua biografia corre, infatti, dal 3 gennaio 1920 al 5 febbraio 1998.

Lo ricordiamo anche perché egli è stato per nove anni, su nomina di Paolo VI, Pro-Prefetto di quel Dicastero che allora si chiamava Congregazione per i Religiosi e gli Istituti secolari, e oggi Congregazione Istituti Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica. Un ‘personaggio’ che ha amato la Chiesa dedicando ad essa le luci e le intuizioni, la scienza e la sapienza di una mente illustre, le fatiche di una vita totalmente e gioiosamente dedita e, pur senza essere religioso, ha amato nella Chiesa quella porzione di popolo di Dio che fa parte alla sua stessa identità e della sua missione: la vita consacrata.

Alcune caratteristiche fanno da sfondo a tutta la sua esistenza: la devozione mariana, la speranza, la gioia, la missionarietà, la fede coraggiosa che sa fidarsi di Dio anche quando, nei disegni misteriosi della sua Provvidenza, Egli consente la prova.

È stato un cantore di Maria. Nato e vissuto – anche se non sempre geograficamente - all’ombra della basilica-santuario nazionale Nostra Signora di Lujàn, patrona del suo paese natale, l’Argentina, scriveva nel suo testamento: «Ringrazio il Signore perché mi ha fatto capire il mistero di Maria nel mistero di Gesù e perché la Vergine è stata sempre presente nella mia vita personale e nel mio ministero. Debbo tutto a Lei. Confesso che debbo a Lei la fecondità  della mia parola. E che le grandi date della  mia vita – di croce e di gioia – sono sempre state ricorrenze mariane». Non riecheggia qui il “totus tuus” di Giovanni Paolo II?

È stato un cantore della speranza e della pace, e della gioia. Perché la speranza e la gioia cristiana stanno bene insieme. L’una non può stare senza l’altra. Sono sempre in osmosi. La speranza, soprattutto la speranza escatologica, rende vivi. E in tempi particolarmente difficili, soprattutto per l’America Latina, ma non solo, quando la teologia della liberazione e i vari e plurimi governi dittatoriali e le molte e variegate frange rivoluzionarie mettevano in continua agitazione e strattonavano popolazioni intere, la sua parola scritta od orale era sempre opportuna, calda, convincente, pacata e densa, speranzosa. Una parola mai aggressiva, puntuale sempre, anche quando partecipava a riunioni e assemblee di religiosi, a capitoli generali, allora, in piena rivoluzione post-conciliare, particolarmente difficili.

È stato un cantore della evangelizzazione, della Chiesa missionaria, della Chiesa-comunione. Contemporaneamente è stato cantore della storia. Perché l’annuncio o lo si fa nella storia del proprio tempo con gli accorgimenti appropriati o non è annuncio. Dopo che Giovanni Paolo II ebbe lanciato ai vescovi della Conferenza Episcopale Laltino-americana (8 marzo 1983) l’urgenza di una ‘nuova evangelizzazione’ egli commenta: «È una evangelizzazione che ci porta a una nuova lettura della storia, a un lettura evangelica e contemplativa dei segni dei tempi. Significa saper discernere ciò che Dio chiede con la fame, la miseria, il terrorismo, con la violenza e con la guerra, con la fame e con la sete di Dio che prende la nostra gioventù. In mezzo la secolarismo che è caratteristico del nostro tempo vi è fame e sete di Dio nei giovani e questo è uno dei migliori segni dei tempi. Dobbiamo saper leggere evangelicamente la storia per impegnarci con essa a partire dal messaggio di salvezza… Nuova evangelizzazione è una penetrazione più profonda, più concreta fatta con l’esperienza della parola di Dio che è Cristo».

Nel ticchettio del pendolo della quotidianità che può diventare uggioso o stancante, e a volte sembra travolgere anche i momenti più semplici, saper tessere con pace il presente e offrire motivazioni forti di speranza per il futuro è essere costruttori di storia e di umanità nuova, matura e feconda; è compiere opera di vera evangelizzazione. Nella possibile tensione quotidiana, offrire spazi alla relazionalità gratuita, al servizio disinteressato è porre le tessere del mosaico che contribuiranno alla costruzione di una storia nuova, concreta, pur piccola. Ma ciò richiede, esige sempre serenità e libertà del profondo, richiede aggancio alla ‘grazia’ che da Dio parte e, raggiungendo l’umanità, la trasforma, la rinvigorisce, la rilancia a mete più alte. Gli uomini e le donne di oggi richiedono donne e uomini nuovi che, nella semplicità evangelica, nella speranza, sullo stile di quella del card. Pironio, non si accontentano del ripetitivo, ma scoprono e colgono l’inedito di Dio nascosto dietro ogni realtà. È proprio da questa quotidianità o in questa quotidianità che si forgiano i santi, gli eroi di tutti i tempi.

La Redazione