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La
Traccia di riflessione della Chiesa italiana in preparazione al
Convegno di Verona inizia con queste impegnative parole: «In questo
inizio di millennio, carico di sfide e di possibilità, il Signore
risorto chiama i cristiani a essere suoi testimoni credibili,
mediante una vita rigenerata dallo Spirito e capace di porre i segni di
un’umanità e di un mondo rinnovati». Uno degli ambiti per l’esercizio di
questa testimonianza è costituito dalle forme e dalle condizioni di
esistenza in cui emerge e si esprime la fragilità umana. «La
speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei
casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere
con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, al
cammino della vita»1. E questo può
avvenire solo non emarginando la fragilità dalla nostra vita ma
riconoscendola come caratteristica della nostra “umanità” e umanizzando
la relazione con tutti coloro che, in modi e situazioni particolarmente
dolenti, ne vivono gli effetti più gravi.
La fragilità incrocia
continuamente i vari ambiti della testimonianza che, come cristiani,
siamo chiamati ad esprimere: segna la vita affettiva e familiare, è
presente nei luoghi del lavoro e della festa, entra nei mondi della
comunicazione, della formazione e del vivere sociale. E nelle varie
esperienze di fragilità Dio fa risuonare ancora oggi i suoi inviti
chiamando il singolo credente, e tutta la comunità, alla testimonianza
per far sì che il Vangelo di Gesù Cristo «esprima la sua verità perenne
nelle mutevoli circostanze della vita»2.
I cristiani non vivono separati dal mondo ma neppure in esso
confusi. Come pellegrini dentro la storia, ma in cammino verso
una meta che la trascende, essi sono invitati ad essere nel mondo
testimoni di speranza (cfr 1Pt 2,11).
1. Le fragilità della
vita
Sono molte le forme in
cui la fragilità si esprime: la malattia, il dolore, la disabilità, il
disagio, la debolezza, la vulnerabilità, la povertà, l’estraneità e
molte altre ancora. Ogni forma di fragilità è simbolo di tante altre,
provocazione a riflettere, a coinvolgerci, ad uscire dalle nostre
illusioni e a testimoniare, a guardare in faccia esperienze che vorremmo
lontane da noi, altre-dalle-nostre, che ameremmo non incontrare e
non vedere ma che spesso sono dentro alla nostra psiche, nella casa in
cui viviamo o abitano dietro la porta accanto. Ci sentiamo
improvvisamente fragili quando qualcuno che amiamo ne è toccato o per
fatti di cronaca particolarmente violenti e dolorosi. Ci meravigliamo di
non esserci accorti di sofferenze così disperanti, di relazioni d’amore
che stavano cambiando di segno. Sono storie spesso drammatiche per la
solitudine che accompagna il mistero di una violenza estrema che non è
frutto di odio ma che ha radice in una cura e in un affetto profondi che
non hanno saputo trovare vie praticabili per la speranza di un futuro
dignitoso: simbolo di una fragilità personale e familiare aggravata da
un troppo fragile sostegno sociale3.
Nei momenti di
particolare fragilità le persone avrebbero bisogno di una “rete” di
protezione e di solidarietà che non sempre può risolvere il loro dolore,
ma che può renderlo almeno più umano e sopportabile, di compagni di
viaggio che accettano di fare insieme un pezzo di strada4.
E nella nostra prossimità, presenza a volte impotente e fragile, le
persone che soffrono possono riscoprire la tenerezza di un Dio che ha
accettato, per salvarci, di farsi impotente e fragile: dalla culla fuori
dall’albergo fin sulla croce fuori dalla città.
Intervenire sul disagio
e sulla sofferenza significa spesso rompere il circolo vizioso tra
isolamento e solitudine, lavorare insieme (con-laborare) perché
si instauri un circolo virtuoso nel quale l’amore crea relazioni
di riconoscimento, di solidarietà e di sostegno, affettivamente forti, e
si impegna per una sua cura adeguata, integrando, come ci ricorda
Benedetto XVI, nel suo primo Messaggio per la Giornata mondiale del
malato, a proposito del disagio mentale, terapia appropriata e
sensibilità nuova. Il malato non va disgiunto dalla famiglia che va
sostenuta perché solo se è forte riesce ad aiutare il proprio caro,
mentre se è fragile rischia di bruciarsi ed esaurire le energie
non solo fisiche, ma anche emotive e relazionali. I singoli samaritani
devono imparare a “prendersi cura insieme” delle persone che chiedono
l’olio della consolazione e cercano il vino della speranza,
segni della grazia che apre la notte del dolore alla luce pasquale del
Cristo crocifisso e risorto5.
Nelle esperienze di
particolare fragilità cadono le nostre illusioni, le nostre finzioni, le
nostre maschere e le nostre difese, siamo chiamati a guardare in faccia
il limite proprio della nostra umana identità. Interrogandoci sul
significato della fragilità umana, specialmente quando è la nostra
fragilità, finiamo per interrogarci sul senso della nostra esistenza,
siamo spinti a chiarire a noi stessi la grandezza e i limiti della
nostra libertà, l’inter-dipendenza che ci costituisce fin da
prima del nostro nascere, la reciproca fragilità che definisce qualsiasi
relazione d’amore, come anche quella di cura. Eliminare la fragilità è
forse una delle utopie che qualificano il nostro tempo. Ma la fragilità
continua ad esistere e con la fragilità dobbiamo continuamente
misurarci.
2. Salvati da un Dio
fragile
La fragilità
caratterizza la nostra umanità ma anche quella di un Dio che,
nell’incarnazione del Figlio e nella sua morte in croce, la assume e la
salva. Il messaggio biblico è un messaggio di salvezza. Il nostro Dio è
un Dio salvatore. Ma c’è qualcosa di paradossale, di controcorrente, e
quindi di umanamente stolto e scandaloso, nel Dio che in Gesù si è
rivelato. «Il Dio che ci ha rivelato Gesù salva l’uomo con la forza
della sua debolezza. Il nostro Dio dimostra la sua onnipotenza
salvandoci nell’impotenza di Gesù; facendosi debole e fragile ci fa
forti; facendosi peccato ci fa santi; rendendosi mortale ci dà la vita»6
(cfr. 1Cor 1,18-25). Fin dal momento dell’incarnazione, in tutta la sua
vita e specialmente nell’estrema fragilità della morte in croce Dio si
fa solidale con la nostra fragilità, la salva assumendola come propria e
facendola luogo di riconciliazione con l’umanità, di rivelazione di sé e
della sua presenza d’amore.
In molte esperienze di
fragilità che segnano la nostra vita e quella di coloro che amiamo, il
dolore prende spesso il sopravvento e il controllo su di noi. Soluzioni
religiose diverse vengono proposte per rispondere al perché del
nostro soffrire, cercandone il “senso” in cui Dio è implicato,
sottolineandone, di volta in volta, la trascendenza o l’immanenza,
l’onnipotenza o la debolezza, la forza o la fragilità, il nascondimento
o la rivelazione, il silenzio o la parola, la distanza o la vicinanza
d’amore.
Anche nel dare un senso
alle nostre fragilità, nel riconoscerle come pienamente umane e
nell’umanizzare le relazioni con coloro che le vivono con particolare
dolore, dobbiamo “ripartire da Gesù Cristo”, tenere fisso il nostro
sguardo sul volto del Signore e sul suo agire7.
Per un cristiano il senso ultimo della fragilità e del dolore che
segnano il suo vivere e il suo morire non può essere pienamente spiegato
ma vissuto dentro all’esperienza di testimonianza di fede, di
speranza e d’amore. «Gesù Cristo non è venuto a spiegarci la sofferenza,
ma a riempirla della sua presenza, a condividerla, a trasfigurarla,
mostrandoci in quale spirito si deve assumere, per conformarci a Lui»8.
Ciascuno si chiede il
senso delle fragilità che ci fanno soffrire e nel cercare una risposta
pone più volte questa domanda a Dio. Ma quel Dio, al quale pone la sua
domanda, gli risponde dall’estrema fragilità della croce. «Nella croce
di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza,
ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta». Nella croce
Dio fa compagnia al dolore umano e il suo senso di assurdità è vinto
dall’interno9.
Il significato
definitivo della sofferenza di Gesù appare però, in maniera
compiuta, solo nell’evento della risurrezione, risposta ultima
del Padre al grido del suo Figlio, che dà senso e compimento al suo
atteggiamento di filiale fiducia e obbedienza. La domenica di
Risurrezione non annulla, però, il Venerdì di passione. La potenza del
Risorto non annulla la fragilità del Crocifisso.
La tensione tra croce e
risurrezione continua a segnare la vita dei cristiani, chiamati a vivere
tra due atteggiamenti diversi ma contemporaneamente presenti: la ricerca
di un senso per il dolore non ancora eliminato, per la fragilità
che segna la nostra vita, accolta e vissuta come un segno della
partecipazione alla passione del Cristo; la consapevolezza che la
potenza scaturita dalla risurrezione del Figlio di Dio è già
efficace nel tempo della Chiesa, nelle sue “mediazioni” salvifiche e
nelle sue relazioni d’amore. Sono queste “mediazioni” del suo amore ad
esserne la testimonianza narrante, la miglior “teo-logia”.
La figura più adulta
del nostro testimoniare Dio è la «fede che opera per mezzo della carità»
(Gal 5,6), la fede che prende “corpo” e si fa storia nella condivisione
e nell’amore10.
3. Rispettare il Suo
nome
Il bambino malato è un
segno particolare di fragilità. «Quando un bambino entra in ospedale, –
scrive Andrea Canevaro – è come se fosse portato nel bosco, lontano da
casa. Ci sono bambini che si riempiono le tasche di sassolini bianchi, e
li buttano per terra, in modo da saper ritrovare la strada di casa anche
di notte, alla luce della luna. Ma ci sono bambini che non riescono a
far provvista di sassolini, e lasciano delle briciole di pane secco come
traccia per tornare indietro. È una traccia molto fragile e bastano le
formiche a cancellarla: i bambini si perdono nel bosco e non sanno più
ritornare a casa»11. Nella
nostra relazione con il bambino siamo chiamati al rispetto, attenti a
non calpestare i suoi fragili cammini, ma anche la particolare fragilità
dei suoi genitori12.
Accanto al bambino
malato e ai suoi genitori, le interpretazioni religiose e le immagini di
Dio che presentiamo con le nostre parole, ma soprattutto con la nostra
presenza e con il nostro atteggiamento, giocano un ruolo importante e
vitale per far fronte alla situazione. Sono un fattore chiave per la
loro salute anche a livello spirituale. Dovremmo essere meno
preoccupati, accanto a chi soffre, di una teodicea che fa “discorsi” su
Dio, e cerca di difenderlo, ma piuttosto di una teodicea pastorale:
far sentire che Dio è vicino attraverso la nostra vicinanza, la nostra
tenerezza, la nostra cura e il nostro amore, e che è presente anche nei
nostri imbarazzati silenzi, un Dio che parla di sé (teo-logia)
attraverso le nostre relazioni che ne testimoniano l’amore.
Se è vero che solo
l’amore è credibile, anche noi, attraverso le nostre pur fragili
relazioni d’amore possiamo rendere credibile Dio (e quindi salvarlo agli
occhi di chi soffre) «nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se
il suo silenzio rimane incomprensibile per noi»13.
Solo una società che
rispetta la vita umana come umana, specialmente nelle sue espressioni
più fragili, è una società a misura d’uomo. Solo una Chiesa che
accoglie il nascituro e protegge il bambino, che cura
il malato e si prende cura di quello più grave, che soccorre
il povero, che ospita l’abbandonato, l’emarginato e
l’immigrato, che visita il carcerato, che protegge
l’anziano, può dirsi veramente “maestra d’umanità”. L’accoglienza della
fragilità non riguarda solo le situazioni estreme. «Occorre far crescere
uno stile di vita verso il proprio essere creatura e nei rapporti
con ogni creatura: la propria esistenza è fragile e in ogni relazione
umana si viene in contatto con altra fragilità, così come ogni ambiente
umano o naturale è frutto di un fragile equilibrio»14.
Torna forte, –
nell’esperienza di fragilità della malattia, della sofferenza e della
colpa, – l’obbligo di levarsi i sandali e di fare continua
attenzione a non nominare il nome di Dio invano.
4. La reciprocità
dell’amore
La fragilità può
trovare significato (essere “salvata”) nella fraterna solidarietà,
nell’affetto, nell’amore che riconcilia con la condizione umana. Ognuno
di noi è frutto della cura donata alla nostra non-autonomia, alla
nostra fragilità che non è solo iniziale, biologica, ma perdura per
tutto il nostro percorso biografico: la fragilità ci definisce, è
causa di bisogno, ma anche motivo di dono. Quello che l’umana
fragilità cerca è la relazione di riconoscimento (il reciproco
riconoscimento del bambino da parte della madre e della madre da parte
del bambino) e per questa strada passa il dono (reciproco anche
se in forme differenti).
Solo il riconoscere e
accettare nella nostra vita e nelle nostre relazioni l’apertura a Dio, e
la relazione creaturale e filiale che a Lui ci lega, è capace di
riscattare la nostra fragilità, di inserirla in una dinamica d’amore che
la trascende, in un futuro che definitivamente la salva. Tutto questo è
evidente nelle situazioni-limite di sofferenza, dove
materialmente ben poco si può fare, ma che comunque hanno un senso,
perché sono l’occasione del reciproco riconoscimento come persone in
rapporto a Dio, del reciproco donarsi il suo Amore. Siamo prima dei
nostri scambi d’amore ma di questi abbiamo bisogno per crescere.
Come chiesa,
sull’esempio di Maria, siamo chiamati ad essere il grembo che accoglie
le persone fragili e le salva dall’emarginazione e dal non-senso,
riconoscendo innanzitutto in loro l’immagine di Dio e la stessa presenza
del Cristo: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e
mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi
avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a
trovarmi» (Mt 25,35-36). Potremmo aggiungere: fragile e mi avete
trattato con cura. «Questa pagina – sottolinea Giovanni Paolo II
nella Novo Millennio Ineunte – non è un semplice invito alla
carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul
mistero di Cristo. Su questa pagina, non meno che sul versante
dell’ortodossia, la Chiesa misura la sua fedeltà di Sposa di Cristo» (n.
49). È, quindi, anche una pagina di ecclesiologia.
Non sempre è possibile
guarire il dolore. A volte si è impotenti e si resta in silenzio.
Proprio il silenzio è spesso il servizio più grande. E proprio un amore
che condivide il dolore, come Maria ai piedi della croce, può rivelarsi
anche “luogo teo-logico”: in cui Dio si rivela e nel quale
possiamo purificare la nostra stessa teo-logia. La sofferenza,
per la fragilità in cui getta la persona, può diventare anche lo
spazio nel quale lo Spirito santo «viene in aiuto alla nostra
debolezza» (Rm 8,26), a quella di colui che soffre ma anche a quella di
chi lo prende in cura, e ispira forme di scambio d’amore reciproco «in
cui ciascuno dà e riceve nella dimensione profonda e più silenziosa del
suo essere»15.
Mettersi umilmente alla
scuola del malato e del sofferente può aprire percorsi sapienziali
per costruire una diversa visione della vita, della salute, della
fragilità e della cura. Le persone più fragili possono insegnare «che
cosa è l’amore che salva e possono diventare annunciatrici di un mondo
nuovo, non più dominato dalla forza, dalla violenza e dall’aggressività,
ma dall’amore, dalla solidarietà, dall’accoglienza, un mondo nuovo
trasfigurato dalla luce di Cristo, il Figlio di Dio per noi uomini
incarnato, crocifisso e risorto»16.
C’è bisogno, però, di uno sguardo contemplativo che, nella fede,
sappia scoprire in loro l’immagine vivente del Creatore, il volto del
Figlio dolente, crocifisso e risorto, e la misteriosa, ma sempre
presente e multiforme, azione dello Spirito17.
C’è bisogno anche di
un’attenzione particolare: in un rapporto “comunionale”, nel quale ci si
lascia toccare dalle ferite dell’altro e dai suoi dolori, la fragilità
dell’altro entra in sintonia con le nostre fragilità e si diventa
vulnerabili. Chi sta accanto alle persone particolarmente fragili e se
ne prende cura “con-passione”, ha bisogno di un’attenta
formazione non solo professionale ma anche relazionale e spirituale18.
5. La preziosità
della speranza
La speranza è un
bene fragile e prezioso, e solo nell’amore trova il suo
nutrimento, il grembo per crescere. Nella relazione con chi soffre la
speranza si impegna nell’amore e da esso viene nutrita. E in questo
servizio il cristiano dà ragione della speranza che è in lui (1Pt 3,15).
La speranza ultima può essere trovata nelle speranze finite ogni volta
che le speranze finite contengono i segni relazionali di Dio e del suo
amore. Il concetto di viaggio ci parla di una speranza (e quindi di un
futuro) basata sulla fiducia dell’alleanza, anche quando la fine non è
in vista, ma ci sono presenze amiche e significative che ci accompagnano
e ci rassicurano.
Nella fiducia
relazionale con la madre, e nella sicurezza del suo amore, il bambino si
apre alla speranza. La Chiesa si offre, in questo senso, come comunità
di speranza ogni volta che in essa vengono vissuti, nelle relazioni
significative del presente, degli anticipi del regno d’amore di
Dio. E questa anticipazione, che dà forma al presente come al futuro, è
celebrata in modo particolare nei sacramenti. Sono essi la
memoria del futuro, il pegno sicuro di un suo realizzarsi, «luogo
dove le diverse forme di fragilità umana sono vinte nella loro radice
più profonda»19.
Della speranza che non
delude, il Signore ha lasciato un pegno particolare nell’Eucaristia,
nella quale è già in atto la speranza che alimenta l’attesa, la vera
risposta alla nostra ricerca del senso della vita e del nostro futuro:
una tensione escatologica che dà impulso al nostro cammino storico,
ponendo un seme di vivace speranza che «stimola il nostro senso di
responsabilità» verso il presente20.
Nella logica pasquale dell’Eucaristia, memoriale di morte e
risurrezione, il cristiano è chiamato a costruire nel già del suo
tempo presente il non ancora del mondo futuro, a vivere la croce
della sua vita fragile nella speranza della risurrezione di cui
l’Eucaristia è esperienza e garanzia. Ogni volta che celebriamo
l’Eucaristia il divino Viandante cammina con noi, ci spiega le
Scritture, sostiene la nostra fragile speranza e ci scalda il cuore
aprendolo al coraggio dell’annuncio e della testimonianza (cfr.
Lc 24,13-35)21.
Nel segno fragile del
pane spezzato e condiviso Dio “ri-vela” (svela e continuamente
nasconde) ancora oggi l’onnipotenza del suo amore e ce ne rende
misteriosamente partecipi.
Nella fragilità del
nostro prenderci cura è misteriosamente presente la forza del Suo
Spirito d’amore, sostegno della nostra fede e ragione della nostra
speranza.
NOTE
1. Conferenza
Episcopale Italiana, Testimoni di Gesù Risorto, speranza del mondo,
Traccia di riflessione in preparazione al Convegno Ecclesiale di
Verona 16-20 ottobre 2006, Paoline, Milano, nn. 1 e 15/c. [Torna
al testo]
2. Giovanni
Paolo II, Pastores dabo vobis. Esortazione apostolica
postsinodale, 25 marzo 1992, n. 10. [Torna al testo]
3. Sandrin
L., Fragile vita. Lo sguardo della teologia pastorale, Camilliane,
Torino 2005, pp. 130-132. Cfr. questo testo anche per un’introduzione
alla teologia pastorale e ai temi collegati alla fragilità. [Torna
al testo]
4. Cfr.
Sandrin L., Compagni di viaggio. Il malato e chi lo cura, Paoline,
Milano 2000. [Torna al testo]
5. Prefazio
comune VIII, Gesù buon samaritano. [Torna al testo]
6. Venturi
G., La fragilità salvata, in AA.VV.,
Una fragilità salvata. Testimoni di Gesù risorto, speranza del
mondo, in “Comunicare la fede”, 2 (2006), p. 9. [Torna
al testo]
7. Giovanni
Paolo II, Novo Millennio Ineunte. Lettera Apostolica al termine
del Grande Giubileo dell’Anno 2000, 6 gennaio 2001. [Torna
al testo]
8. Latourelle
R., L’uomo e i suoi problemi alla luce di Cristo, Cittadella,
Assisi 1992 (or. r. 1981), p. 400. [Torna al testo]
9. Giovanni
Paolo II, Salvifici Doloris, Lettera Apostolica sul senso
cristiano della sofferenza umana, 11 febbraio 1984, n. 19. [Torna
al testo]
10. CEI,
Testimoni di Gesù risorto… n. 8. [Torna al testo]
11. Canevaro
A., I bambini che si perdono nel bosco, La Nuova Italia, Firenze
1976. [Torna al testo]
12. Cfr.
la storia di Ernie in Perkins-Buzo J.R., Theodicy in the face of
children’s suffering and death, in “The Journal of Pastoral Care”, 2
(1994), pp. 155-161.
[Torna
al testo]
13. Benedetto
XVI, Deus caritas est. Lettera enciclica sull’amore cristiano, 25
dicembre 2005, n. 38. [Torna al testo]
14. CEI,
Testimoni di Gesù risorto… n. 15/c. [Torna al
testo]
15. Vanier.,
Ogni uomo è una storia sacra, EDB, Bologna 1999 (or.fr.1994), p.
32 [Torna al testo]
16. Giovanni
Paolo II, Messaggio ai partecipanti al Simposio internazionale su
“Dignità e diritti della persona con handicap mentale”, Città del
Vaticano 5 gennaio 2004. Cfr. anche CEI – Ufficio nazionale per la
Pastorale della salute. Alla scuola del malato, 14°. Giornata
Mondiale del Malato, 11 febbraio2006, Camilliane, Torino 2005. [Torna
al testo]
17.
Cfr. Giovani Paolo II,
Evangelium vitae. Lettera enciclica, 25 marzo 1995, n. 83. [Torna
al testo]
18.
Cfr. Sandrin L.,
Aiutare senza bruciarsi. Come superare il burnout nelle professioni di
aiuto, Paoline, Milano 2004. [Torna al testo]
19. Venturi
G., La fragilità salvata, in AA. VV. Una fragilità salvata.
Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo, in “Comunicare la
fede”, 2 (febbraio 2006), p. 10. [Torna al testo]
20. Giovanni
Paolo II, Ecclesia de Eucaristia. Lettera enciclica, 17 aprile
2003, nn. 18 e 20. [Torna al testo]
21. Cfr.
Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine. Lettera Apostolica per
l’Anno dell’Eucaristia (ottobre 2004 – ottobre 2005) 7 ottobre 2004. [Torna
al testo]
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