n.6
giugno 2007

 

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L'interculturalità sfida la comunità formativa
di Bruno Secondin

 

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La nostra stagione sta modificando e trasformando radicalmente i modelli e i paradigmi di tutto il sistema culturale e ci spinge verso un «riconoscimento trasformatore» delle differenze, insieme sovversivo e carico di promesse. Di teorie se ne trovano tante, forse meno si trova una rilettura dall’interno della parola di Dio. Intendo qui rileggere le vicende della Chiesa primitiva come modello ed esempio di risposte creative di fronte alla sfida della diversità delle culture.

Passi incerti ma esploratori

Le vicende della Chiesa giovane sono sempre un archetipo ispirativo, e ben sappiamo che non sono solo quelle narrate da Luca negli Atti, ma sono implicate anche nella stessa scelta delle pericopi evangeliche, nelle esortazioni delle lettere paoline o di altri apostoli, e ritornano allusivamente anche nell’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse. Si tratta allora di un panorama complesso, che qui io mi limito ad accennare, ma meriterebbe molto più tempo e stile adatto. Scelgo alcuni passaggi di Atti degli Apostoli.

a. La scelta dei sette diaconi (At 6,1-7): siamo in un momento interessante e insieme convulso. Lo scontro fra i testimoni di Gesù risorto e i capi e responsabili della religione ebraica si è fatto aspro e pericoloso, tanto che si parla addirittura di intenzioni di «metterli a morte» (At 5,33), vista la simpatia crescente e incontrollabile da parte del popolo. Le due visioni sono inconciliabili: da una parte i capi che non vogliono riconoscere di essersi sbagliati nella condanna del rabbi di Nazaret, Gesù; dall’altra gli apostoli che rafforzano il loro successo anche con i «molti miracoli e prodigi» (At 5,1), attirando con sé il popolo anche da fuori Gerusalemme.

Il successo esterno, seppure contrastato e ostacolato con rudezza, nascondeva però un conflitto interno, che aspettava solo l’occasione per esplodere. A Gerusalemme c’erano fra i discepoli di Gesù Cristo due gruppi etnici e culturali ben diversi: gli ebrei nati e cresciuti sul posto, e gli ellenisti, cioè coloro che erano immigrati in terra di Israele, ma continuavano a vivere e sentire le cose in altro modo, e avevano anche le proprie sinagoghe. La prevalenza giudaica forse li schiacciava, li emarginava dal culto e da tutta l’organizzazione, e l’andirivieni degli apostoli dalla prigione e dal Sinedrio rendeva la guida delle migliaia di discepoli complicata, e le esigenze concrete mal gestite.

Da qui si spiega il malcontento (gongysmòs), che è insieme mormorazione e tensione, irritabilità e voglia di reazione. La disuguaglianza nell’assistenza delle vedove è probabilmente un pretesto immeditato, ma sotto sotto si capisce che il problema era più complesso. La risposta dei responsabili è stata molto saggia e leale: il problema esisteva davvero, la responsabilità era anche attribuibile alla loro gestione confusa, la soluzione non era il richiamo alla fiducia e alla sottomissione, ma la ricerca insieme di una soluzione che rendesse possibile una corresponsabilità integrata.

E di fatto la crisi aiuta i capi a capire meglio la loro specifica funzione (Parola e culto), mentre chiedono consiglio per affidare ad altri le mense e la diaconia. E i 7 diaconi portano tutti nomi greci: segno di una condivisione di responsabilità, una prima fase di superamento della monocultura. Hanno inventato un ministero (il diaconato), chiedendo e dando fiducia, hanno ridimensionato il predominio della cultura dominante, hanno aperto la strada ad un’integrazione che presto farà i conti in altri contesti con altre sfide. Questa «crisi» interna, affrontata con lealtà e immaginazione, ma anche con reciproca fiducia, ha suscitato una grande ondata di adesioni (At 6,7). Poteva essere una catastrofe, invece è stata un’occasione di crescita e di diversificazione che ha liberato energie represse: infatti saranno proprio i diaconi i primi testimoni creativi. Stefano è predicatore e martire e Filippo è l’evangelizzatore itinerante (in Samaria, con l’eunuco: At 8,5-40).

b. Rinascere in periferia: la fondazione di Antiochia (At 11,19-30). Si tratta ora di una vicenda più complessa, perché la storia riguarda un gruppo di fuggiaschi, scampati alla persecuzione scoppiata al tempo della lapidazione di Stefano, che giungono fino ad Antiochia. Antiochia è una grande città siriana (500.000 abitanti), multietnica, multiculturale, multireligiosa, tollerante, crocevia culturale. Seguiamo le vicende di questi discepoli di Gesù in questo nuovo contesto, dove si ritrovano per caso, dopo la fuga e la paura.

Il testo dice chiaro che «non predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei» (At 11,19): vale a dire continuavano a fare come facevano a Gerusalemme, chiusi nella loro cultura e si sceglievano i destinatari in conformità con la loro origine. Non è una scelta a caso, è una scelta di proposito, voluta, frutto di una chiusura mentale sostenuta anche dal trauma che li aveva sradicati. Però tra loro qualcuno ha una marcia in più, ha nel sangue e nella vita l’esperienza di incontri culturali più aperti, ha imparato a vivere e condividere con altri mondi culturali e religiosi valori e discorsi. Sono di Cipro e di Cirene, dice il testo. E per questo provano a parlare anche ai Greci. Breve espressione, che nasconde molte cose: non si trattava solo di differenza anagrafica o linguistica, si trattava di mondi culturali totalmente altri, di linguaggi religiosi da inventare, da immaginare, da coordinare in maniera nuova e fuori schema.

Un’avventura, un rischio che poteva essere fatale, certamente anche una preoccupazione che avrà reso inquieto il vivere dei fuggiaschi giudei, già traumatizzati per loro conto. Eppure alcuni hanno coraggio di correre quel rischio, di esplorare con immaginazione e libertà: ma senza rinunciare all’elemento trans-culturale, che era «predicare la buona novella del Signore Gesù» (At 11,20). Il rischio è premiato da una grande adesione di gente che «si convertì al Signore», anche qui c’è il richiamo all’elemento trans-culturale. E Luca mette insieme la mano del Signore che accompagna e premia il rischio e l’iniziativa e gli orecchi di Gerusalemme, a cui giunge la notizia della crescita dei credenti, e che invia ad Antiochia un suo rappresentante, Barnaba. Questi era già ben conosciuto e stimato a Gerusalemme (cf. At 4,36-37; 9,26-30), dove si era fatto notare per la generosità, ma anche per la probità e la capacità di capire il nuovo, in particolare con Saulo convertito.

Seguiamo ora l’azione di Barnaba, di cui si fa subito un elogio, che appare finalizzato a capire che qualità ci vogliono per capire e discernere in queste circostanze. Ci vuole cioè un’esperienza non piccina ma virtuosa, robusta e stabile; un’apertura all’improvvisazione dello Spirito e uno guardo di fede che sappia riconoscere l’essenziale e distinguerlo dal resto. Intanto si dice che va sul posto e vede e riconosce la grazia del Signore e si rallegra. Evidentemente ha una sincera apertura mentale e di fede, e non giudica per sentito dire, ma verificando, accettando di essere al servizio dei disegni del Signore, sentendosi arricchito da ciò che incontra, e che altri hanno realizzato. Non mette avanti il suo ruolo, non è condizionato da quello che possono pensare coloro che lo hanno mandato: e che probabilmente volevano mettere sotto controllo l’effervescenza antiochena. Barnaba è coinvolto, si sente anzi gratificato dalla diversità, trova ragioni per gioire e per servire la crescita di quell’esperienza.

Per questo gioca tutta la sua autorità mettendosi al servizio della nuova esperienza, esortando «tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore» (At 11,24). Si tratta di un’esortazione che non è rivolta solo agli intraprendenti che avevano rotto gli schemi parlando anche ai greci. È piuttosto un’esortazione rivolta a tutti, giudaizzanti ed ellenisti, a perseverare in questa esplorazione e creazione di una comunità aperta e interculturale, consentita dalla situazione locale meno monoculturale di Gerusalemme. Barnaba ha intuito che Antiochia era diventata un laboratorio di nuova universalità, di integrazione dinamica e promettente: ciò che non sarebbe mai riuscito a Gerusalemme. In qualche modo ha ritrovato se stesso, la sua stessa autenticità di uomo di Cipro, sciolto da certe rigidità e interprete intuitivo dei nuovi sentieri di Dio. E questa posizione ha dato slancio e coraggio a «una folla considerevole» di lasciarsi aggregare al Signore, perché era chiaro che le difese e autonomie culturali erano scomparse.

c. La nuova avventura esplorativa: poteva sembrare che l’avventura - che era stata già di per sé molto rischiosa e audace, tanto da impressionare gli “orecchi” di Gerusalemme - dovesse fermarsi lì, perché già troppa ne aveva fatta di strada. E invece «Barnaba poi partì alla volta di Tarso per cercare Saulo» (At 11,25): sembra quasi che Barnaba stesso avesse in mente questa destinazione fin dal principio, perché il testo (anche in greco: uscì poi verso Tarso) pare presentare il viaggio come un complemento del progetto di Barnaba. La fuga-cacciata di Saulo da Gerusalemme era stata un trauma per il persecutore convertito e ancora sospettato dai credenti di non essere proprio convertito e anche inviso dai suoi stessi «ellenisti» (At 9,26-30). Ma è da pensare che anche Barnaba, che aveva capito la risorsa che era quel Saulo e aveva garantito per lui (At 9,27), non lo avesse affatto dimenticato, e anzi aspettasse le circostanze adatte per ritrovarlo e reintegrarlo.

E infatti da Antiochia poteva più facilmente riuscire a recuperarlo e farlo maturare nell’attività comune di predicazione. Ma bisognava anche aiutarlo a guarire le ferite subite: per questo Barnaba stesso va a cercarlo, lo trova, lo accompagna nella nuova comunità e «per un anno intero si radunarono nell’assemblea e insegnarono alla folla numerosa» (alla lettera nel greco). C’è un recupero materiale del fratello isolato, facendolo sentire cercato e desiderato; ma anche un inserimento nella comune ekklesia, perché sia accettato e si faccia accettare, e così insieme imparare a vivere e ad evangelizzare, per un tempo sufficientemente ampio.

Possiamo riconoscere nel procedimento di Barnaba alcune esigenze importanti: quello che conta non è il ruolo e la distinzione, ma la disponibilità a incontrarsi, a riconoscersi, a dialogare, per sanare antiche emarginazioni e ferite. E per questo perfino Antiochia passa momentaneamente in secondo piano, per ritrovare un fratello e dargli la possibilità di sentirsi cercato e amato, desiderato e accolto. Ma anche il fratello deve imparare a farsi accogliere, a collaborare per un tempo ampio, stimando anche le abitudini e gli stili degli altri in armonia e concordia. Da questa integrazione, che diviene convivialità di storie e di carismi, guarigione e integrazione, collaborazione e servizio, nasce una nuova identità. Tanto che il testo la esprime con un titolo che viene dato dalla gente, ma ben esprime quello che c’è dentro: «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).

Possiamo fermarci solo al nome, e metterci dentro tutto quello che abbiamo in mente noi oggi. Ma possiamo meglio vederci la sintesi di quello che era successo: sono cristiani quelli che hanno avuto il coraggio di uscire dai traumi che li bloccavano, che hanno parlato anche ai greci, che sono stati confortati e incoraggiati dal rappresentante della istituzione centrale, che hanno saputo recuperare la risorsa sprecata che era Saulo, che hanno sistematicamente lavorato insieme a lungo istruendo la folla. Cristiani perciò come sintesi, somma di tutte queste cose, e non solo come un riferimento al nome (Cristòs) che sempre avevano in bocca.

Dalla periferia e da gente buttata per caso e per trauma lontano dalla loro patria, è nata e si è sviluppata una realtà insieme autentica e transculturale, ma anche capace di aprirsi ad altri destinatari in maniera comunicativa ed efficace, capace di integrare la novità senza paura, capace mettere in gioco la propria originalità periferica per recuperare chi era stato estromesso e costretto all’emarginazione umiliante.

d. Una comunità interculturale consolidata e disponibile (At 13,1-5). L’avventura di Antiochia non è certo finita lì, al titolo di «cristiani» che sarà poi applicato a tutti, quelli di Gerusalemme compresi. Date le tensioni insopportabili a cui sono sottoposti a Gerusalemme i credenti, lo stesso Pietro è costretto a uscirne fuori e si trasferisce in altro luogo (At 12,17). Dal capitolo 13 degli Atti, il protagonismo ormai passa ad Antiochia, da cui partirà il primo grande viaggio missionario, affidato a Barnaba e Saulo. Ma vorrei fermarmi solo alla situazione della comunità di Antiochia, prima della partenza per l’opera alla quale lo Spirito li ha destinati (cf At 13,2). In particolare ci possiamo fermare ai primi tre versetti del capitolo 13, perché descrivono bene la comunità ormai consolidata e matura nella sua identità multiculturale, serenamente integrata, e nella sua identità «cristiana».

Notiamo intanto che i responsabili della comunità ora sono cinque, e ognuno ha una caratteristica peculiare, che merita di essere avvertita, seppure tutti sono catalogati come «profeti e dottori». Ogni nome evoca uno scenario specifico e differente: Barnaba lo conosciamo già, cipriota, levita, trasmigrato a Gerusalemme, inviato ad Antiochia, il più maturo e autorevole del gruppo. Simeone detto «negro», il che significa di una etnia completamente differente, e perciò forse anche con una storia di difficile accoglienza per la sua diversità di razza. Lucio di Cirene, cioè originario di un’altra terra lontana (in Libia), con altre tradizioni e costumi, di una città nota per la intraprendenza dei suoi abitanti. Manaèn educato insieme ad Erode il tetrarca, e quindi certamente dotato di una educazione raffinata e di amicizie importanti. Infine Saulo, di cui da altre parti noi conosciamo la formazione prestigiosa come rabbino, l’origine di Tarso e anche la fase di persecutore, a cui è seguito un periodo di emarginazione e isolamento. Ecco allora cinque personalità completamente differenti, dai percorsi di vita non sovrapponibili: eppure qui sono presentate come gruppo che si dedica in maniera abituale e regolare (i verbi sono all’imperfetto, ad indicare una prassi abituale e prolungata), che riprende anche dopo la voce dello Spirito. Per indicare che davvero la identità «cristiana» li sta sempre di nuovo plasmando e guidando nella reciproca fiducia, nell’attività di «dottori e profeti» e anche ora nel discernimento delle novità dello Spirito.

È proprio in questo contesto che può risuonare la chiamata “sovversiva” dello Spirito: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (At 13,2). Si tratta di un duplice processo: da una parte riconoscere, discernendo in clima di preghiera e sobrietà, il senso e la sfida della nuova destinazione. Anche perché si tratta di lasciar andare Barnaba, il grande e autorevole responsabile, e Saulo l’ultimo arrivato, dal passato non trasparente. E dall’altra parte per la comunità si tratta di trovare un nuovo equilibrio nella responsabilità, probabilmente associando altri non nominati qui, in modo da continuare ad essere stabili nell’evangelizzazione, anche se con nuovi protagonisti e avere fiducia nell’attività di coloro che se ne sono andati, per una avventura dalle incognite numerose. Il concentrarsi di nuovo nella preghiera e nel discernimento e poi l’accomiatare «imponendo loro le mani» (At 13,3), indicano un processo - e non soltanto un passaggio isolato - di corresponsabilità, di condivisione e di disponibilità a riconoscere in quello che succederà un frutto comune. Cosa che del resto si manifesterà con chiarezza in quello che viene descritto al loro ritorno: «Non appena furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta della fede. E si fermarono per non poco tempo insieme ai discepoli» (At 14, 27-28).

Proseguire con lo stesso metodo e con fedeltà dinamica

Da quello che abbiamo visto avvenire nella comunità primitiva, attraverso vari passaggi, non sempre facili e sereni, comunque sempre coraggiosi e creativi, è andata prendendo forma un’esperienza di comunità cristiana sempre di nuovo spinta “oltre” dagli avvenimenti e dalle circostanze. Ogni volta superando le barriere delle abitudini, rompendo con le sicurezze acquisite a fatica, reinventando equilibri e sintesi religiose e culturali, di relazioni interpersonali e di intreccio di diversità. E si potrebbe proseguire oltre scoprendo che questi successivi eventi, che mettono a fuoco l’identità senza però congelarla in uno schema fisso, ma anzi facendo scoprire nuove chances e nuove avventure di evangelizzazione, continuano a prodursi e a moltiplicarsi. Ma anche generano ad un certo punto un conflitto radicale, alla cui soluzione sarà chiamata a partecipare Gerusalemme con i suoi capi (At 15,6-29), ed anche l’intera ekklesia dei credenti (cf At 15,3; 16,4). Non c’è quindi una stagione dell’esplorazione e della elaborazione aperta, e poi viene quella della fruizione serena dell’acquisito e della manutenzione diligente dello stabilito e sintetizzato. Sempre di nuovo si riaprono i cantieri e i rischi, le avventure e le resistenze, gli equivoci meschini e le innovazioni guidate dalla «mano del Signore».

La stessa cosa vale anche per il lavoro delle educatrici e formatrici: si tratta non tanto di fare una sintesi decente e accettabile delle diversità in gioco nel gruppo delle novizie o delle juniori, oppure delle comunità. Si tratta di qualche cosa di più ampio e più radicale: far apprendere l’arte del mettersi sempre di nuovo in gioco, di mettere in tensione feconda e dialogante le diversità, di intrecciare culture e sensibilità in modo da provocare una fecondazione intrecciata in vista di produrre e promuovere nuove espressioni culturali e nuovi dinamismi nel carisma, rompendo gli stereotipi sacralizzati spesso legati ad una cultura egemone.

Non è così semplice individuare gli elementi transculturali di un carisma e dell’identità carismatica, lo so bene. Ma spesso si identifica con «transculturale», molte cose che di fatto sono particolarità nazionali o anche regionali, sono prodotto di uno strato religioso devozionale e per niente purificato da una sana teologia della Chiesa, della liturgia, della vita cristiana, della testimonianza evangelica radicale. Di cose obsolete e mummificate è piena la nostra vita religiosa. Solo con una coraggiosa destrutturazione dell’idolo sacro in cui tutto sembra intoccabile eppure non è vero, sarà possibile capire e rispondere allo Spirito che chiama al futuro «per fare con voi cose grandi» (VC 110).

Direi che alle giovani e meno giovani vanno trasmessi certamente i valori e gli impulsi transculturali che davvero danno ragioni al vivere e sostanza alla consacrazione religiosa. Ma anche va insegnata l’arte di restare in piedi in situazioni continuamente agitate e in movimento, come fossimo su un tapis roulant. In altre parole a riconoscere nel continuo intrecciarsi e mescolarsi - con sempre più ampiezza e improvvisazione - di culture e vissuti, caratteri personali e opzioni evangeliche, visioni spirituali e orizzonti di senso, una chiamata a verificare e vedere la grazia del Signore, a rallegrarsi per l’opportunità di vivere non semplicemente di riporto e di ripetizione, ma ogni giorno con stupore e creatività, reinventando sintesi e comunione, ricerca e possesso, liberazione e guarigione.

 

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