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La
nostra stagione sta modificando e trasformando radicalmente i modelli e
i paradigmi di tutto il sistema culturale e ci spinge verso un
«riconoscimento trasformatore» delle differenze, insieme sovversivo e
carico di promesse. Di teorie se ne trovano tante, forse meno si trova
una rilettura dall’interno della parola di Dio. Intendo qui rileggere le
vicende della Chiesa primitiva come modello ed esempio di risposte
creative di fronte alla sfida della diversità delle culture.
Passi incerti ma
esploratori
Le vicende della Chiesa giovane sono
sempre un archetipo ispirativo, e ben sappiamo che non sono solo quelle
narrate da Luca negli Atti, ma sono implicate anche nella stessa
scelta delle pericopi evangeliche, nelle esortazioni delle lettere
paoline o di altri apostoli, e ritornano allusivamente anche nell’ultimo
libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse. Si tratta allora di un
panorama complesso, che qui io mi limito ad accennare, ma meriterebbe
molto più tempo e stile adatto. Scelgo alcuni passaggi di Atti degli
Apostoli.
a. La scelta dei
sette diaconi (At
6,1-7): siamo in un momento interessante e insieme convulso. Lo scontro
fra i testimoni di Gesù risorto e i capi e responsabili della religione
ebraica si è fatto aspro e pericoloso, tanto che si parla addirittura di
intenzioni di «metterli a morte» (At 5,33), vista la simpatia crescente
e incontrollabile da parte del popolo. Le due visioni sono
inconciliabili: da una parte i capi che non vogliono riconoscere di
essersi sbagliati nella condanna del rabbi di Nazaret, Gesù; dall’altra
gli apostoli che rafforzano il loro successo anche con i «molti miracoli
e prodigi» (At 5,1), attirando con sé il popolo anche da fuori
Gerusalemme.
Il successo esterno, seppure
contrastato e ostacolato con rudezza, nascondeva però un conflitto
interno, che aspettava solo l’occasione per esplodere. A Gerusalemme
c’erano fra i discepoli di Gesù Cristo due gruppi etnici e culturali ben
diversi: gli ebrei nati e cresciuti sul posto, e gli ellenisti,
cioè coloro che erano immigrati in terra di Israele, ma continuavano a
vivere e sentire le cose in altro modo, e avevano anche le proprie
sinagoghe. La prevalenza giudaica forse li schiacciava, li emarginava
dal culto e da tutta l’organizzazione, e l’andirivieni degli apostoli
dalla prigione e dal Sinedrio rendeva la guida delle migliaia di
discepoli complicata, e le esigenze concrete mal gestite.
Da qui si spiega il malcontento
(gongysmòs), che è insieme mormorazione e tensione, irritabilità
e voglia di reazione. La disuguaglianza nell’assistenza delle vedove è
probabilmente un pretesto immeditato, ma sotto sotto si capisce che il
problema era più complesso. La risposta dei responsabili è stata molto
saggia e leale: il problema esisteva davvero, la responsabilità era
anche attribuibile alla loro gestione confusa, la soluzione non era il
richiamo alla fiducia e alla sottomissione, ma la ricerca insieme di una
soluzione che rendesse possibile una corresponsabilità integrata.
E di fatto la crisi aiuta i capi a
capire meglio la loro specifica funzione (Parola e culto), mentre
chiedono consiglio per affidare ad altri le mense e la diaconia. E i 7
diaconi portano tutti nomi greci: segno di una condivisione di
responsabilità, una prima fase di superamento della monocultura. Hanno
inventato un ministero (il diaconato), chiedendo e dando fiducia,
hanno ridimensionato il predominio della cultura dominante, hanno aperto
la strada ad un’integrazione che presto farà i conti in altri contesti
con altre sfide. Questa «crisi» interna, affrontata con lealtà e
immaginazione, ma anche con reciproca fiducia, ha suscitato una grande
ondata di adesioni (At 6,7). Poteva essere una catastrofe, invece è
stata un’occasione di crescita e di diversificazione che ha liberato
energie represse: infatti saranno proprio i diaconi i primi testimoni
creativi. Stefano è predicatore e martire e Filippo è l’evangelizzatore
itinerante (in Samaria, con l’eunuco: At 8,5-40).
b. Rinascere in
periferia:
la fondazione di Antiochia (At 11,19-30). Si tratta ora di una vicenda
più complessa, perché la storia riguarda un gruppo di fuggiaschi,
scampati alla persecuzione scoppiata al tempo della lapidazione di
Stefano, che giungono fino ad Antiochia. Antiochia è una grande città
siriana (500.000 abitanti), multietnica, multiculturale, multireligiosa,
tollerante, crocevia culturale. Seguiamo le vicende di questi discepoli
di Gesù in questo nuovo contesto, dove si ritrovano per caso, dopo la
fuga e la paura.
Il testo dice chiaro che «non
predicavano la parola a nessuno fuorché ai Giudei» (At 11,19):
vale a dire continuavano a fare come facevano a Gerusalemme, chiusi
nella loro cultura e si sceglievano i destinatari in conformità con la
loro origine. Non è una scelta a caso, è una scelta di proposito,
voluta, frutto di una chiusura mentale sostenuta anche dal trauma che li
aveva sradicati. Però tra loro qualcuno ha una marcia in più, ha nel
sangue e nella vita l’esperienza di incontri culturali più aperti, ha
imparato a vivere e condividere con altri mondi culturali e religiosi
valori e discorsi. Sono di Cipro e di Cirene, dice il testo. E per
questo provano a parlare anche ai Greci. Breve espressione, che
nasconde molte cose: non si trattava solo di differenza anagrafica o
linguistica, si trattava di mondi culturali totalmente altri, di
linguaggi religiosi da inventare, da immaginare, da coordinare in
maniera nuova e fuori schema.
Un’avventura, un rischio che poteva
essere fatale, certamente anche una preoccupazione che avrà reso
inquieto il vivere dei fuggiaschi giudei, già traumatizzati per loro
conto. Eppure alcuni hanno coraggio di correre quel rischio, di
esplorare con immaginazione e libertà: ma senza rinunciare all’elemento
trans-culturale, che era «predicare la buona novella del Signore Gesù»
(At 11,20). Il rischio è premiato da una grande adesione di gente che
«si convertì al Signore», anche qui c’è il richiamo all’elemento
trans-culturale. E Luca mette insieme la mano del Signore che
accompagna e premia il rischio e l’iniziativa e gli orecchi di
Gerusalemme, a cui giunge la notizia della crescita dei credenti, e che
invia ad Antiochia un suo rappresentante, Barnaba. Questi era già ben
conosciuto e stimato a Gerusalemme (cf. At 4,36-37; 9,26-30), dove si
era fatto notare per la generosità, ma anche per la probità e la
capacità di capire il nuovo, in particolare con Saulo convertito.
Seguiamo ora l’azione di Barnaba,
di cui si fa subito un elogio, che appare finalizzato a capire che
qualità ci vogliono per capire e discernere in queste circostanze. Ci
vuole cioè un’esperienza non piccina ma virtuosa, robusta e stabile;
un’apertura all’improvvisazione dello Spirito e uno guardo di fede che
sappia riconoscere l’essenziale e distinguerlo dal resto. Intanto si
dice che va sul posto e vede e riconosce la grazia del Signore e si
rallegra. Evidentemente ha una sincera apertura mentale e di fede, e non
giudica per sentito dire, ma verificando, accettando di essere al
servizio dei disegni del Signore, sentendosi arricchito da ciò che
incontra, e che altri hanno realizzato. Non mette avanti il suo ruolo,
non è condizionato da quello che possono pensare coloro che lo hanno
mandato: e che probabilmente volevano mettere sotto controllo
l’effervescenza antiochena. Barnaba è coinvolto, si sente anzi
gratificato dalla diversità, trova ragioni per gioire e per servire la
crescita di quell’esperienza.
Per questo gioca tutta la sua
autorità mettendosi al servizio della nuova esperienza, esortando «tutti
a perseverare con cuore risoluto nel Signore» (At 11,24). Si
tratta di un’esortazione che non è rivolta solo agli intraprendenti che
avevano rotto gli schemi parlando anche ai greci. È piuttosto
un’esortazione rivolta a tutti, giudaizzanti ed ellenisti, a
perseverare in questa esplorazione e creazione di una comunità aperta e
interculturale, consentita dalla situazione locale meno monoculturale di
Gerusalemme. Barnaba ha intuito che Antiochia era diventata un
laboratorio di nuova universalità, di integrazione dinamica e
promettente: ciò che non sarebbe mai riuscito a Gerusalemme. In qualche
modo ha ritrovato se stesso, la sua stessa autenticità di uomo di Cipro,
sciolto da certe rigidità e interprete intuitivo dei nuovi sentieri di
Dio. E questa posizione ha dato slancio e coraggio a «una folla
considerevole» di lasciarsi aggregare al Signore, perché era chiaro che
le difese e autonomie culturali erano scomparse.
c. La nuova
avventura esplorativa:
poteva sembrare che
l’avventura - che era stata già di per sé molto rischiosa e audace,
tanto da impressionare gli “orecchi” di Gerusalemme - dovesse fermarsi
lì, perché già troppa ne aveva fatta di strada. E invece «Barnaba poi
partì alla volta di Tarso per cercare Saulo» (At 11,25): sembra quasi
che Barnaba stesso avesse in mente questa destinazione fin dal
principio, perché il testo (anche in greco: uscì poi verso Tarso)
pare presentare il viaggio come un complemento del progetto di Barnaba.
La fuga-cacciata di Saulo da Gerusalemme era stata un trauma per il
persecutore convertito e ancora sospettato dai credenti di non essere
proprio convertito e anche inviso dai suoi stessi «ellenisti» (At
9,26-30). Ma è da pensare che anche Barnaba, che aveva capito la risorsa
che era quel Saulo e aveva garantito per lui (At 9,27), non lo avesse
affatto dimenticato, e anzi aspettasse le circostanze adatte per
ritrovarlo e reintegrarlo.
E infatti da Antiochia poteva più
facilmente riuscire a recuperarlo e farlo maturare nell’attività comune
di predicazione. Ma bisognava anche aiutarlo a guarire le ferite subite:
per questo Barnaba stesso va a cercarlo, lo trova, lo accompagna nella
nuova comunità e «per un anno intero si radunarono nell’assemblea e
insegnarono alla folla numerosa» (alla lettera nel greco). C’è un
recupero materiale del fratello isolato, facendolo sentire cercato e
desiderato; ma anche un inserimento nella comune ekklesia, perché
sia accettato e si faccia accettare, e così insieme imparare a vivere e
ad evangelizzare, per un tempo sufficientemente ampio.
Possiamo riconoscere nel procedimento
di Barnaba alcune esigenze importanti: quello che conta non è il ruolo e
la distinzione, ma la disponibilità a incontrarsi, a riconoscersi, a
dialogare, per sanare antiche emarginazioni e ferite. E per questo
perfino Antiochia passa momentaneamente in secondo piano, per ritrovare
un fratello e dargli la possibilità di sentirsi cercato e amato,
desiderato e accolto. Ma anche il fratello deve imparare a farsi
accogliere, a collaborare per un tempo ampio, stimando anche le
abitudini e gli stili degli altri in armonia e concordia. Da questa
integrazione, che diviene convivialità di storie e di carismi,
guarigione e integrazione, collaborazione e servizio, nasce una nuova
identità. Tanto che il testo la esprime con un titolo che viene dato
dalla gente, ma ben esprime quello che c’è dentro: «per la prima volta i
discepoli furono chiamati cristiani» (At 11,26).
Possiamo fermarci solo al nome, e
metterci dentro tutto quello che abbiamo in mente noi oggi. Ma possiamo
meglio vederci la sintesi di quello che era successo: sono cristiani
quelli che hanno avuto il coraggio di uscire dai traumi che li
bloccavano, che hanno parlato anche ai greci, che sono stati confortati
e incoraggiati dal rappresentante della istituzione centrale, che hanno
saputo recuperare la risorsa sprecata che era Saulo, che hanno
sistematicamente lavorato insieme a lungo istruendo la folla.
Cristiani perciò come sintesi, somma di tutte queste cose, e non
solo come un riferimento al nome (Cristòs) che sempre
avevano in bocca.
Dalla periferia e da gente buttata
per caso e per trauma lontano dalla loro patria, è nata e si è
sviluppata una realtà insieme autentica e transculturale, ma anche
capace di aprirsi ad altri destinatari in maniera comunicativa ed
efficace, capace di integrare la novità senza paura, capace mettere in
gioco la propria originalità periferica per recuperare chi era
stato estromesso e costretto all’emarginazione umiliante.
d. Una comunità
interculturale consolidata e disponibile
(At 13,1-5). L’avventura di Antiochia non è certo finita lì, al titolo
di «cristiani» che sarà poi applicato a tutti, quelli di Gerusalemme
compresi. Date le tensioni insopportabili a cui sono sottoposti a
Gerusalemme i credenti, lo stesso Pietro è costretto a uscirne fuori e
si trasferisce in altro luogo (At 12,17). Dal capitolo 13 degli Atti, il
protagonismo ormai passa ad Antiochia, da cui partirà il primo grande
viaggio missionario, affidato a Barnaba e Saulo. Ma vorrei fermarmi solo
alla situazione della comunità di Antiochia, prima della partenza per
l’opera alla quale lo Spirito li ha destinati (cf At 13,2). In
particolare ci possiamo fermare ai primi tre versetti del capitolo 13,
perché descrivono bene la comunità ormai consolidata e matura nella sua
identità multiculturale, serenamente integrata, e nella sua identità
«cristiana».
Notiamo intanto che i responsabili
della comunità ora sono cinque, e ognuno ha una caratteristica
peculiare, che merita di essere avvertita, seppure tutti sono catalogati
come «profeti e dottori». Ogni nome evoca uno scenario specifico e
differente: Barnaba lo conosciamo già, cipriota, levita,
trasmigrato a Gerusalemme, inviato ad Antiochia, il più maturo e
autorevole del gruppo. Simeone detto «negro», il che significa di
una etnia completamente differente, e perciò forse anche con una storia
di difficile accoglienza per la sua diversità di razza. Lucio di
Cirene, cioè originario di un’altra terra lontana (in Libia), con
altre tradizioni e costumi, di una città nota per la intraprendenza dei
suoi abitanti. Manaèn educato insieme ad Erode il tetrarca, e
quindi certamente dotato di una educazione raffinata e di amicizie
importanti. Infine Saulo, di cui da altre parti noi conosciamo la
formazione prestigiosa come rabbino, l’origine di Tarso e anche la fase
di persecutore, a cui è seguito un periodo di emarginazione e
isolamento. Ecco allora cinque personalità completamente differenti, dai
percorsi di vita non sovrapponibili: eppure qui sono presentate come
gruppo che si dedica in maniera abituale e regolare (i verbi sono
all’imperfetto, ad indicare una prassi abituale e prolungata), che
riprende anche dopo la voce dello Spirito. Per indicare che davvero la
identità «cristiana» li sta sempre di nuovo plasmando e guidando nella
reciproca fiducia, nell’attività di «dottori e profeti» e anche ora nel
discernimento delle novità dello Spirito.
È proprio in questo contesto che può
risuonare la chiamata “sovversiva” dello Spirito: «Riservate per me
Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (At 13,2). Si
tratta di un duplice processo: da una parte riconoscere, discernendo in
clima di preghiera e sobrietà, il senso e la sfida della nuova
destinazione. Anche perché si tratta di lasciar andare Barnaba, il
grande e autorevole responsabile, e Saulo l’ultimo arrivato, dal passato
non trasparente. E dall’altra parte per la comunità si tratta di trovare
un nuovo equilibrio nella responsabilità, probabilmente associando altri
non nominati qui, in modo da continuare ad essere stabili
nell’evangelizzazione, anche se con nuovi protagonisti e avere fiducia
nell’attività di coloro che se ne sono andati, per una avventura dalle
incognite numerose. Il concentrarsi di nuovo nella preghiera e nel
discernimento e poi l’accomiatare «imponendo loro le mani» (At 13,3),
indicano un processo - e non soltanto un passaggio isolato - di
corresponsabilità, di condivisione e di disponibilità a riconoscere in
quello che succederà un frutto comune. Cosa che del resto si manifesterà
con chiarezza in quello che viene descritto al loro ritorno: «Non appena
furono arrivati, riunirono la comunità e riferirono tutto quello che Dio
aveva compiuto per mezzo loro e come aveva aperto ai pagani la porta
della fede. E si fermarono per non poco tempo insieme ai discepoli»
(At 14, 27-28).
Proseguire con lo stesso
metodo e con fedeltà dinamica
Da quello che abbiamo visto avvenire
nella comunità primitiva, attraverso vari passaggi, non sempre facili e
sereni, comunque sempre coraggiosi e creativi, è andata prendendo forma
un’esperienza di comunità cristiana sempre di nuovo spinta “oltre” dagli
avvenimenti e dalle circostanze. Ogni volta superando le barriere delle
abitudini, rompendo con le sicurezze acquisite a fatica, reinventando
equilibri e sintesi religiose e culturali, di relazioni interpersonali e
di intreccio di diversità. E si potrebbe proseguire oltre scoprendo che
questi successivi eventi, che mettono a fuoco l’identità senza
però congelarla in uno schema fisso, ma anzi facendo scoprire nuove
chances e nuove avventure di evangelizzazione, continuano a prodursi
e a moltiplicarsi. Ma anche generano ad un certo punto un conflitto
radicale, alla cui soluzione sarà chiamata a partecipare Gerusalemme con
i suoi capi (At 15,6-29), ed anche l’intera ekklesia dei credenti
(cf At 15,3; 16,4). Non c’è quindi una stagione dell’esplorazione e
della elaborazione aperta, e poi viene quella della fruizione serena
dell’acquisito e della manutenzione diligente dello stabilito e
sintetizzato. Sempre di nuovo si riaprono i cantieri e i rischi, le
avventure e le resistenze, gli equivoci meschini e le innovazioni
guidate dalla «mano del Signore».
La stessa cosa vale anche per il
lavoro delle educatrici e formatrici: si tratta non tanto di fare una
sintesi decente e accettabile delle diversità in gioco nel gruppo delle
novizie o delle juniori, oppure delle comunità. Si tratta di qualche
cosa di più ampio e più radicale: far apprendere l’arte del mettersi
sempre di nuovo in gioco, di mettere in tensione feconda e dialogante le
diversità, di intrecciare culture e sensibilità in modo da provocare una
fecondazione intrecciata in vista di produrre e promuovere nuove
espressioni culturali e nuovi dinamismi nel carisma, rompendo gli
stereotipi sacralizzati spesso legati ad una cultura egemone.
Non è così semplice individuare gli
elementi transculturali di un carisma e dell’identità
carismatica, lo so bene. Ma spesso si identifica con «transculturale»,
molte cose che di fatto sono particolarità nazionali o anche regionali,
sono prodotto di uno strato religioso devozionale e per niente
purificato da una sana teologia della Chiesa, della liturgia, della vita
cristiana, della testimonianza evangelica radicale. Di cose obsolete e
mummificate è piena la nostra vita religiosa. Solo con una coraggiosa
destrutturazione dell’idolo sacro in cui tutto sembra intoccabile
eppure non è vero, sarà possibile capire e rispondere allo Spirito che
chiama al futuro «per fare con voi cose grandi» (VC 110).
Direi che alle giovani e meno giovani
vanno trasmessi certamente i valori e gli impulsi transculturali che
davvero danno ragioni al vivere e sostanza alla consacrazione religiosa.
Ma anche va insegnata l’arte di restare in piedi in situazioni
continuamente agitate e in movimento, come fossimo su un tapis
roulant. In altre parole a riconoscere nel continuo intrecciarsi e
mescolarsi - con sempre più ampiezza e improvvisazione - di culture e
vissuti, caratteri personali e opzioni evangeliche, visioni spirituali e
orizzonti di senso, una chiamata a verificare e vedere la grazia
del Signore, a rallegrarsi per l’opportunità di vivere non semplicemente
di riporto e di ripetizione, ma ogni giorno con stupore e creatività,
reinventando sintesi e comunione, ricerca e possesso, liberazione e
guarigione.
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