 |
 |
 |
 |
Il
racconto biblico, come chiave di comprensione d’ogni relazione che
desideri essere ricreata ed illuminata dalla Parola, propone come punto
di partenza Genesi 1; per questo da lì prende avvio la nostra
riflessione. Lì veniamo anzitutto a sapere che la donna "biblica" vive
di una relazione complessa. È a immagine e somiglianza di Dio, secondo
una qualità che la distingue oltre ogni altra creatura; ma è allo stesso
tempo un’immagine e somiglianza condivisa, da ricercare o, meglio
ancora, da creare nell’incontro tra il maschio e la femmina: "Dio creò
l’uomo a sua immagine;
a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina
li creò" (Gn 1,27).
Secondo la propria specie
È l’uomo, l’umanità, la grande sfida che Dio lancia
alla storia, per trasformarla in luogo di creazione d’incontro, di
opportunità di salvezza; luogo di esperienza di comunione, in quanto
ognuno è portatore di un’immagine propria, di un rimando unico e
fondante con Colui che è il Creatore, l’artista di ogni incontro. E la
sfida, "facciamo l’uomo", viene lanciata a un maschio e a una femmina
perché diventino, nel loro incontrarsi, un’opera unica, un’umanità che
profuma di divino.
Viene allora da pensare che il primo compito che
spetta alla donna "biblica", come d’altra parte a ogni altra creatura, è
custodire la propria specificità: "ognuno secondo la propria specie",
come recita uno dei ritornelli che ritmano tutto il primo racconto della
creazione. Il che significa impegno a non appiattirsi, a non
uniformarsi, a non nascondersi, ma neppure ad annullarsi; fedeltà nel
cercare la propria identità, la propria lingua nella quale annunciare
anzitutto l’essere una donna credente, nei gesti quotidiani della
propria umanità.
Nella gioia di stare di fronte
Nella ricerca della specificità, Genesi 2 offre un
contributo affascinante: creata dalla costola, cioè della stessa dignità
e preziosità dell’uomo, la donna è il dono che supera ogni altra attesa:
"Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una
donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: "Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa. La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta". Per questo
l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due
saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie,
ma non ne provavano vergogna" (Gn 2,22-25).
Nel confronto tra Dio e l’uomo, che precede questi
versetti, ci troviamo di fronte a un cammino faticoso, a partire dalla
responsabilità di coltivare e custodire il giardino perché questo possa
crescere. Si passa poi al tentativo, non riuscito, di rendere gli
animali una credibile risposta di senso alle domande dell’uomo. Il tutto
infine sfocia nell’apparizione della donna. Essa diventa portatrice di
una novità assoluta, unica rispetto a qualsiasi altro progetto di gioia,
di felicità, di relazione.
Finalmente abbiamo "l’aiuto che sta di fronte", che
ti spinge fuori casa, oltre il tuo essere figlio, che è posizione dove
uno è garantito e protetto rispetto al mondo essendo lui la garanzia del
futuro. Contrariamente alla relazione genitore-figlio, la relazione
uomo-donna è finalmente la relazione che ti espone oltre le mura
addomesticate, perché è relazione gratuita, che sorprende e ci supera
comunque.
La donna allora appare qui come il vertice della
creazione essendo "colei che ti sta di fronte"; via che educa, luogo
dove si fa esperienza che lo stare di fronte all’altro diventa la
possibilità gioiosa che la solitudine sia radicalmente vinta. Non va tra
l’altro persa la sfumatura che la donna non sia solo un dono all’uomo,
ma alla creazione tutta, al giardino da costruire con tutti i suoi
diversi protagonisti. Tutto questo in una nudità, in uno starsi di
fronte, senza paure e timori, dove non c’è bisogno della protezione di
maschere, di compromessi o di parvenze, di finzioni o esagerazioni.
Viene allora naturale pensare che il compito della
donna "biblica", donna in relazione e non incentrata su se stessa, è di
rimanere comunque "altra", segno di un dono che supera la relazione
stessa, testimone di una appartenenza che non appartiene comunque, mai,
all’altro. Compito veramente alto, di rimanere di fronte: senza
confondersi e magari senza ricattare, senza farsi passare per vittime e
senza mai servirsi della possibilità di ammaliare, o sedurre o incantare
per raggiungere i propri scopi. Impegno a rimanere sempre dono, mai
oggetto da conquistare.
Nella fatica della misura del dono
Un progetto così "virtuoso" ovviamente è a rischio.
Genesi 3 lo riassume in due immagini: da una parte si parla di generare
la vita, gesto veramente creativo di una dignità unica, il quale
comporta allo stesso tempo il rischio della morte; un generare quindi
che non solo è gioia, ma è anche disperazione radicale. Dall’altra si
parla di un incontrarsi nell’amore che diventa occasione per ridurre in
schiavitù, dove l’altro t’incontra solo per dominarti e possederti. E la
donna appare come vittima, vittima della vita, vittima dell’amore. "Dice
infatti il Signore Dio al serpente: "Io porrò inimicizia tra te e la
donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa
e tu le insidierai il calcagno". Alla donna disse: "Moltiplicherò i tuoi
dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo
marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà"" (Gn 3,15-16).
La donna perciò è portatrice della speranza che vince
ogni forma di male; custode della promessa della fedeltà di Dio
all’umanità nel confronto quotidiano con il serpente e tutto ciò che
esso significa; allo stesso tempo, dentro alla stessa relazione, essa
viene presentata quasi come vittima di questa speranza, di questa
fiducia, vittima in un certo senso del dono stesso. Verrebbe da pensare
che nel momento in cui lei, qualche versetto prima, dice: "sono stata
ingannata", faccia riferimento proprio a questa esperienza, che sente
già in azione dentro di sé.
Nello svilupparsi della riflessione di Genesi 3 è
possibile cogliere una sfumatura interessante: la donna è protagonista
fin dall’inizio del capitolo; è lei che entra in dialogo con il
serpente; è lei che esprime la dinamica della tentazione e coinvolge
nella decisione l’uomo.
E proprio lì, nella paura che la relazione sia
segnata dall’invidia e dalla gelosia, sia pure di Dio, lei appare la più
esposta; forse è il suo atteggiamento costitutivo, è la sua struttura,
sono le sue viscere di misericordia ad agire e a farle supporre fin
dall’inizio che una relazione non può rimanere a metà. Si ha un bel dire
che comunque il buon Dio ti mette a disposizione 9999 alberi del
giardino con i loro frutti e che, alla fin fine, ti proibisce solo il
decimillesimo. Ma senza quello, tutto il resto è come se fosse nulla.
Così in effetti è dell’amore: il 99% non è quasi proprio tutto. Il 99% è
niente. Così la donna sta dentro alla vita senza misurarsi, senza
calcoli, con il rischio di essere e sentirsi costantemente ingannata.
Come appunto nel generare e nell’innamorarsi, nel filo sottile che
intercorre tra seduzione e violenza.
Qui s’insinua il dilemma originale della virtù e del
vizio. Lo possiamo raffigurare come la necessità di accettare che nel
limite ci sia la pienezza dell’incontro. Perché questo è proprio il
cuore della sfida che Dio lancia originariamente all’uomo: accettare che
l’incontro è vero e autentico anche se tu non hai pieno dominio sul
giardino, sul fratello, su chi ami, su tutta la tua vita; anzi
l’incontro è vero quando non sei padrone e signore, ma creatura davanti
alle altre creature e al Creatore. Proprio per questo la donna ne porta
le conseguenze, più dell’uomo, come appunto racconta Genesi 3.
Lei, immagine di Dio nel suo entrare in relazione e
madre di tutti i viventi, racconta come si possa essere radicalmente
segno di vita accolta, donata o perduta, di amore gratuito, appassionato
o disumanizzante.
Alla ricerca di un limite che sia pienezza
Ritroviamo questa tensione in tutta la storia della
salvezza. Ne diamo uno sguardo veloce. Ovunque nel testo biblico
incontriamo storie di donne, vite in tensione tra un limite, che può
diventare ragione di speranza e di vita, e un’amara sensazione
d’inganno.
Sara e Agar (cf Gn cap. 16.18.21) sono storia di dono
e di pentimento, di sorriso gioioso e timoroso, ma anche di cruda
gelosia che segna per sempre il destino dei figli. Lia e Rachele (cf Gn
cap. 29.30.35), radici di una famiglia che diventa popolo, accomunate in
un percorso dove non si capisce bene dove inizi la benedizione; specie
quando si comprende che la storia d’amore, quella vera, genera due
figli: il primo venduto dai fratelli e il secondo che viene alla luce
nello stesso istante in cui la luce si spegne per la madre.
Debora, la profetessa, e Giaele, "la benedetta tra le
donne della tenda" (Gdc 5,24), costrette a farsi carico delle paure e
della fragilità degli uomini cosiddetti forti, ma incapaci di uscire da
un incontro che non vada oltre lo scontro, fidando sulle proprie forze.
Dalila è invece l’abile seduttrice e, se per più volte accetta il
rischio dell’ingannata, alla fine vince Sansone proprio là dove lui,
secondo Genesi 3, dovrebbe svolgere il ruolo del dominatore.
Bellissima è la figura di Anna la quale, nel dolore
della sterilità, viene giudicata da Eli ubriaca e iniqua (cf 1Sam 1,14),
ma dalla sua debolezza nasce l’annuncio che l’arco dei forti si spezza
mentre i deboli si rivestono di vigore.
La galleria potrebbe continuare all’infinito,
entrando nell’ambito di immagini sapienziali, come la perfetta padrona
di casa (cf Pr cap. 31) o la fanciulla che gioca al cospetto
dell’architetto (Pr cap. 8) o le molteplici rappresentazioni di Donna
Sapienza opposta a Donna Follia, in perenne sfida nell’educazione di
ogni giovane inesperto.
Mi piace concludere questa carrellata mettendo a
confronto due scene. Protagonisti sono due stranieri: Rut e Naaman,
entrambi di fronte alla sfida che la terra diventi salvezza. E mentre da
una parte l’uomo di potere, lebbroso ma ricco di mezzi, chiede al
profeta e promette: "almeno sia permesso al tuo servo di caricare qui
tanta terra quanta ne portano due muli, perché il tuo servo non intende
compiere più un olocausto o un sacrificio ad altri dei, ma solo al
Signore. Tuttavia il Signore perdoni il tuo servo … per questa azione"
(2Re 6,17-18). Dall’altra Rut risponde a Noemi: "Non insistere con me
perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu
andrò anch’io…" (Rut 1,16-17).
Due stili, due gesti, due scelte di vita: una visione
di fede "viziata" dal compromesso, che comunque dona guarigione, e una
donazione "virtuosa", oltre ogni buon senso, solo disposta a giocarsi
fino in fondo, in una relazione che fino ad allora aveva il sapore
dell’inganno.
Nell’accettazione che l’impossibile sia misura del
nostro possibile
Non è un caso, credo, che ci sia una storia ovvia,
normale, naturale, che è storia di uomini, e ciò appare evidente nelle
genealogie. Non ce n’è una che non sia strutturata sullo schema: il
padre genera il figlio, che a sua volta genera un figlio e così via (cf
Mt 1). Ma quando lo sguardo si posa sul coraggio del dono,
sull’accoglienza di una misura nuova, ecco apparire la donna e la storia
cambia: "Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato
Gesù chiamato Cristo" (Mt 1,16) e niente sarà più come prima! Niente
sarà più come prima nemmeno per i circa 120 della prima comunità
cristiana dove "tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera,
insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli
di lui" (At 1,14-15). È una presenza femminile che rimanda a quella
lungo il Calvario, in una sequela che continua: "Tutti i suoi conoscenti
assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla
Galilea, osservando questi avvenimenti" (Lc 23,49).
È a partire dalla loro testimonianza non creduta
della risurrezione, che la comunità viene ricostituita, ristabilita e
risanata dai gesti di peccato degli uomini, tutti a diverso grado
traditori. La "virtuosa" disponibilità femminile vince il limite e il
compromesso e introduce all’accoglienza del dono nuovo dello Spirito,
per un linguaggio ugualmente nuovo che sorprende ogni uomo e ogni donna
della terra a causa della sua familiarità.
Il pensiero va naturalmente a Maria di Nazaret, a
colei che crede alla misura impossibile di Dio e si fida della parola
donata alla sua vita. Lei, beata, perché "ha creduto nell’adempimento
delle parole del Signore", offre al suo Creatore uno spazio di immagine
e somiglianza finalmente autentico: "Eccomi, sono la serva del Signore,
avvenga di me quello che hai detto" (Lc 1,37-38.45).
Anche qui il panorama è vastissimo, dalla donna
sirofenicia che sfida Gesù sulle briciole: "… anche i cagnolini sotto la
tavola mangiano delle briciole dei figli" (Mc 7,28), a Evodia e Sintiche
che tanto hanno collaborato e "hanno combattuto per il vangelo" con
Paolo; ora molto semplicemente accettano l’altra grande sfida della
fede: "andare d’accordo nel Signore" (Fil 4,2-3).
Così il percorso di liberazione si realizza in una
storia di incontri segnata da vizi e virtù. A volte da vizi di forma e
virtù di sostanza: tra un Pietro che si ritiene all’altezza di Gesù al
punto di non voler farsi lavare i piedi, e Gesù che ritiene gesto grande
quello di "una donna peccatrice di quella città, che con un vasetto di
olio profumato si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a
bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e
li cospargeva di olio profumato". Un modo nuovo di stare di
fronte, immagine di un’umanità finalmente perdonata, salvata, nella pace
(cf Lc 7,37ss).
Gianni Trabacchin
Seminario Teologico
Borgo Santa Lucia, 43 – 36100 Vicenza
 |