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Il
termine accidia, parola antica e legata alla vita
ascetico-spirituale, è possibile intenderlo, in linguaggio odierno, come
una malattia dell’anima, la cui manifestazione più evidente è una
sofferta depressione melanconica, la perdita cioè dell’oggetto d’amore e
della parte del sé che vi era investita. L’autorevole Catechismo
della Chiesa Cattolica al riguardo scrive: "Con questo termine
[accidia] i Padri della vita spirituale intendono una forma di
depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della
vigilanza, alla mancanza di custodia del cuore" (CCC 2733). Resistere,
perseverare, andare avanti è allora l’insegnamento fondamentale della
tradizione ascetico-monastica, consapevole che il fervore degli inizi ha
bisogno di essere messo alla prova nel più austero dei crogiuoli: il
tempo.
Come diagnosticare una sindrome accidiosa? Quale
terapia adottare per sradicarla o per bonificare l’accidioso?
Stranamente, un anacoreta del IV secolo d.C., cenobita o eremita che
fosse, alla luce della sua stessa esperienza avrebbe saputo rispondere
con molta più precisione di noi che, pur lontani da quella forma di
vita, ne siamo (inconsapevolmente?) non solo lambiti, ma sempre più
consumati. Spesso, ignari della robusta terapia allora suggerita,
guardiamo con ironia o scetticismo a percorsi curativi che muovono, in
chi autorevolmente li suggerisce o propone, dalla consapevolezza che
l’accidia, purtroppo, non è un vizio solo monastico del passato.
Si è vittime, da un lato, dell’oblio dell’accidia
nella teologia spirituale insegnata e imparata sino a qualche tempo fa
e, dall’altro, di una formazione che non ci ha reso capaci di farle
fronte o tenerle testa. Eppure, sebbene neglette, l’accidia e la sua
ricca sindrome ci appaiono molto chiare, se colte nella loro profonda
analogia o affinità con disagi psicologici coevi di natura melanconica,
depressiva, narcisistica.
In questa direzione si muove, ad esempio, lo
psichiatra G. Benedetti quando scrive nella Prefazione ad
un’opera dedicata ad Evagrio Pontico (345-399),1
un monaco del deserto della seconda metà del IV secolo: "Col termine di
Akedia [Evagrio] ci descrive una situazione spirituale… che va
dall’accidia al fenomeno più doloroso dell’uomo, dal tedio dei monaci
fino alla malinconia di Kirkegaard. Siamo allora di fronte ad una
situazione spirituale che non può non chiamarsi anche una situazione
psichica; una situazione che al limite è malattia… [Evagrio] è il primo
psicologo della guarigione religiosa".2
Salvatore Natoli, noto filosofo laico contemporaneo, inizia il suo
Dizionario dei vizi e delle virtù dall’accidia e, in ascolto di
Evagrio, conclude il lemma come segue: "Nella nostra società l’accidia
ha preso… le forme del conformismo sociale e dell’eversione verbale,
della curiosità distratta…, anziché della conoscenza accurata delle
cose. Quest’ultima - in qualunque modo la si rivolti - esige fatica.
L’accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel
nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un
amore. Dicono: che noia! Evagrio, monaco antico, queste cose le
conosceva molto bene".3
Identità e diagnosi
di una malattia spirituale senza tempo
Il termine greco akïdía, ripreso in latino
sotto forma di acedia, in italiano è reso con accidia: in
realtà è difficile darne una traduzione semplice e completa. Sembra, del
resto, più facile descriverla che definirla. Evagrio la delinea in
questo modo: "Il demone dell’accidia… ispira al monaco una profonda
avversione per il luogo in cui si trova, e perfino per il suo genere di
vita e per il lavoro manuale; di più, gli suggerisce che la carità tra i
fratelli è svanita, e che non c’è nessuno che possa dargli conforto".4
L’avversione nei confronti del proprio presente diventa anche avversione
per tutti coloro che stanno intorno e non lo sanno riempire. Non è,
forse, un’esperienza psicologica oggi sperimentata con frequenza, dalla
quale discende un’amarezza che è all’origine di un umore cattivo,
difficile da bonificare, che si trasforma in giudizio arrogante e
insieme ridicolo nei confronti della nostra sorte, dei fratelli e,
persino, del mondo intero?
Il termine akïdía non appartiene né al lessico
ascetico-cristiano e neppure al vocabolario monastico. Era noto agli
autori pagani, presso i quali evocava incuranza, negligenza,
indifferenza, mancanza d’interesse per qualcosa. Nel Nuovo Testamento
non ricorre mai questo vocabolo, mentre è presente nell’Antico, dove
tale termine e il verbo derivato akïdiázein si contano in tutto
nove volte con significato generico di abbattimento, ansia, angoscia,
tedio. Probabilmente un proverbio veterotestamentario ne richiama con
efficacia un’interessante sfumatura, pur senza usare il nostro termine:
"Tutti i giorni sono brutti per l’afflitto, per un cuore felice è sempre
festa" (Pr 15,15).
Non è il caso, cioè, di accusare la qualità dei
giorni rispetto al sentimento di angustia che troppo spesso opprime, ma
considerare la qualità del proprio cuore, correggendo quanto in esso vi
è di triste, affinché anche la qualità dei giorni possa apparire
diversa. I termini pigrizia o noia, con i quali spesso è
tradotto, non esprimono che una parte della realtà complessa che esso
indica: stanchezza, indolenza, torpore, disgusto, abbattimento,
languore, atonia o perdita di tensione dell’anima,
scoraggiamento, avversione.
Vi è nell’accidia un’insoddisfazione vaga e generale,
che si sostanzia in un sottile sentimento di angustia, di noia, che
alimentano in noi il desiderio facile di altro, di un altrove, che
finalmente ci distraggano dal presente. Allorché afflitti da questa
passione - da intendersi come malattia spirituale - percepiamo l’ansia
interiore con disgusto, troviamo ogni cosa insulsa e insipida, non
aspettiamo più nulla di nulla. L’accidia rende allora instabili
nell’animo e nel corpo. Secondo Evagrio si tratta di un fenomeno "misto"
o "complesso": "I demoni ci combattono mediante i pensieri, talora
eccitando il desiderio, talaltra gli scoppi di collera, talora collera e
desiderio insieme, da cui nasce il pensiero complesso. Questo
appare solo al momento dell’accidia, mentre gli altri si presentano a
intervalli, alternandosi a vicenda. Al pensiero dell’accidia invece
nessun altro fa seguito in quel giorno, primo perché esso è persistente
e poi anche perché contiene in sé quasi tutti gli altri".5
In concreto, l’accidioso è estremamente irritato da
tutto ciò di cui dispone e si strugge dal desiderio di avere ciò che non
è disponibile. Le sue facoltà divengono incostanti; il suo spirito,
incapace di fissarsi, va da un oggetto all’altro. Soprattutto, quando
egli è solo, non sopporta di rimanere nel luogo in cui si trova: la
passione lo spinge a uscire, a spostarsi, ad andare in altri luoghi, a
cercare a ogni costo contatti con altri. Contatti non obiettivamente
indispensabili, ma indotti dalla passione. Egli ne sente il bisogno e
trova dei "buoni" pretesti per giustificarli. Così stabilisce e
intrattiene relazioni spesso futili che alimenta con discorsi vuoti da
cui traspare generalmente una vana curiosità.
L’accidia mescola frustrazione e aggressività, ha
orrore di ciò che c’è e sogna ciò che manca. Da qui discende pure, prima
in Evagrio e poi in Gregorio Magno (540-604),6
ispiratore della tradizione ascetica che permeerà l’Occidente, una
stretta relazione fra accidia e tristezza: "Accidia: compagna
della tristezza" e viceversa: "Tristezza: compagna di scuola
dell’accidia".7
Lo stato che l’accidia origina non è una semplice
crisi passeggera, ma una patologia radicale e cronica del cuore, uno
stato d’animo che porta al disorientamento. Tutti questi stati, che si
ricollegano all’accidia, sono accompagnati da inquietudine o ansia, che
è, oltre al disgusto, un carattere fondamentale di questa passione.
Il demone dell’accidia attacca soprattutto
coloro che si dedicano alla vita spirituale: cerca di allontanarli dalle
vie dello Spirito e dalle attività che una tale vita comporta. In
particolare, si adopera a nuocere alla regolarità e alla costanza della
disciplina ascetica, di rompere il silenzio e la stabilità che la
favoriscono. Giovanni Climaco (ca. 579-654) presenta l’accidia come
"paralisi dell’anima, infiacchimento della mente, trascuratezza
dell’ascesi".8 Sotto l’influsso di questa
passione, lo spirituale - al dire di Giovanni Cassiano (ca. 360-433) – è
reso "inoperoso e inerte di fronte a tutti i lavori da eseguire… del
tutto privo di ogni profitto spirituale, apatico e negato a ogni
attività dello spirito", indifferente a tutta l’opera di Dio.9
Per la tradizione patristica l’accidia costituisce un
rilassamento dell’anima e un lasciarsi andare dello spirito, genera un
vuoto interiore e induce a una negligenza generalizzata. Unita alla
tristezza, l’accresce e può condurre alla disperazione. Giovanni Climaco
annota che "l’accidia per il monaco è una morte che lo circonda da ogni
parte".10 Davanti all’ampiezza di questi
effetti i Padri convergono nel riconoscerla la più pesante e la più
opprimente di tutte le passioni. E non si pensi che sia estranea ai
consacrati, a coloro che vivono nella tensione verso "un nuovo cielo e
una nuova terra".
Terapia di antidoto all’accidia
Abbiamo visto che l’accidia "ha la peculiarità di
coinvolgere tutte le facoltà dell’anima e di mettere in moto tutte le
passioni; questo significa, di conseguenza, la morte di tutte le virtù.
Così a differenza delle altre passioni, essa non può essere guarita né
sostituita da una virtù che le sarebbe specificatamente opposta".11
Si rende dunque necessaria una terapia multiforme,
idonea a contrastare su tutti i fronti questo spirito pernicioso. La
terapia suppone che il male sia stato messo allo scoperto e sia stato
individuato come tale, perché questa passione ha la caratteristica di
essere immotivata, quindi, di essere spesso inconscia o incomprensibile.
Se la si riconosce per quello che essa è, si può ottenere la pace.
Penso troppo ai come e ai perché, troppo a me stesso!
Come la causa dell’accidia è all’interno della persona e non proviene
dalla sua condizione esteriore, così il principio della sua guarigione è
da ricercare nel rapporto con se stessi e non nel rapporto con gli
altri. Il lessico ascetico antico stigmatizzava il pensare troppo o solo
a se stessi con il termine philautia o amore di sé, agevolmente
riconducibile al più noto narcisismo. Gli eccessi autoesaltanti
sono spesso premessa di scoraggiamenti deprimenti e quella che appariva
a se stessi un’esistenza piena di senso secerne umore amaro e deludente
di pseudo-esistenza.
La terapia suggerita è una frequente, meglio metodica
e quotidiana, riconduzione del proprio io all’unico vero desiderio buono
ed eterno: il desiderio della vera conoscenza, che tende unicamente a
Dio e colma di felicità. Se questo desiderio non raggiunge il suo
traguardo, restano odio e tristezza. È la sola strada percorribile per
guarirci da una sbilanciata attenzione irrigidita in eccessivo e non
calibrato autoascolto. Sapientemente Evagrio ammonisce: "Guai alla
philautia, che odia tutto".
Tutto qui? Che noia! Esclamazione disillusa e
mortificata, propedeutica all’atonia dell’anima, alla rilassatezza
interiore, ad una irrequietezza essa pure interiore, che può vestirsi
anche di argomenti sottili. La terapia suggerita è il prendersi
seriamente cura della propria volontà. Più che la buona volontà occorre
alimentare la volontà buona, ribonificata nel credere, quindi
guidata dagli occhi della fede, da uno sguardo adeguato alla fede
rivolto a Dio, quindi a sé e agli altri, per giungere a desiderare e
volere secondo Dio.
La parola interiore o il pensiero accidioso.
L’accidia persuade che "la carità tra i fratelli è svanita, e che non
c’è nessuno che possa dare conforto".12 È
una situazione frequente e plausibile, dato che tutti noi siamo
particolarmente vulnerabili nel campo affettivo. In concreto, i rimedi
per controllare e vincere questo "male oscuro" hanno a che fare con la
vigilanza e il discernimento sulla volontà. Il rimedio per eccellenza è
l’eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, segue l’invocazione
del Nome di Gesù, la preghiera, l’assiduità alla Sacra Scrittura.
Non fuggire! Questo, in sintesi, l’imperativo da
accogliere per battere ad armi pari la complessa sindrome accidiosa. Il
non fuggire! è espresso nei testi cui ci siamo riferiti da un
verbo o sostantivo che nel Nuovo Testamento contraddistingue la
sistematica attitudine di Gesù. Si tratta della capacità di resistere
sotto la pressione di un peso, di non flettere, di tener duro, di
perseverare nell’opera iniziata, da non intendersi come ottusa
rassegnazione bensì come attesa consapevole di Dio, alimento certo della
speranza teologale.
Con Evagrio, l’acuto smascheratore dell’accidia e suo
congruo terapeuta, possiamo concludere: "L’accidia è curata dalla
perseveranza, e dal compiere ogni cosa con l’attenzione e con il timore
di Dio. Fìssati una misura in ogni lavoro e non desistere fin che non
l’hai completato. E prega con senno e con fervore e lo spirito
dell’accidia fuggirà da te".13
Antonio Zani
Studio Teologico "Paolo VI" - Seminario di Brescia
Via Domenico Bollani, 20 – 25123 Brescia
Note
1. Segnaliamo le
principali opere di questo monaco: Evagrio Pontico, Gli otto spirito
della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità. Traduzione,
introduzione e note di F. Moscatelli, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1996; Evagrio Pontico, A Eulogio. sulla confessione dei pensieri e
consigli di vita. A Eulogio. I vizi opposti alle virtù,
Introduzione, traduzione e note di L. Coco, San Paolo, Cinisello Balsamo
(MI) 2006. Evagrio Pontico, Per conoscere lui. Esortazione a una
vergine. Ai monaci. Ragioni delle osservanze monastiche. Lettera ad
Anatolio. Pratico. Gnostico, Introduzione, traduzioni e note a cura
di P. Bettiolo, Qiqajon, Comunità di Bose 1996.
2. G. Benedetti,
Prefazione, in G. Bunge, Akèdia. La dottrina spirituale di
Evagrio Pontico sull’accidia, Abbazia di Praglia, Padova 1992,
8-9.12. Quest’opera fondamentale di recente è stata riedita, senza
tuttavia il testo della Prefazione di G. Benedetti: G. Bunge, AKEDIA.
Il Male oscuro, a cura di V. Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose,
1999.
3. S. Natoli,
Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano, 31997,
13.
4. P. Miquel,
Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, a cura di V.
Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose 1998, 15-16.
5. Bunge,
Akedia, 57-58.
6. San Gregorio Magno, Opere ¼, a
cura di P. Siniscalco, Città Nuova, Roma 2001, 323. Utile è la lettura
della ricca analisi del pensiero di papa Gregorio condotta da J.-Ch.
Nault, La saveur de Dieu. L’acédie dans le dynamisme de l’agir,
Lateran University Press, Roma 2002, pp. 97-124.
7. P. Michel,
Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, a cura di V.
Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose 1986, 15-16.
8. Giovanni
Climaco, La scala. Traduzione e note e cura di Luiogi d’Ayala
Valva. Introduzione di J. Chryssavgis, Qiqajon, Comunità di Bose 2005,
338. Lo scritto di Giovanni Climaco, composto intorno alla fine del VII
secolo, giustamente considerato uno dei più grandi classici della
letteratura monastica d’Oriente e d’Occidente, illustra le tappe della
vita monastica, specchio in realtà del percorso universale del fedele.
9. Giovanni
Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, Introduzione e traduzione a
cura di L. Dattrino, Abbazia di Praglia 1989, 247-249. Si veda pure
l’altro celebre scritto di Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci,
Traduzione, introduzione enote a cura di L. Dattrino, Città Nuova,
Roma 2000, 203-239. Per un’analisi approfondita del suo pensiero, cf S.
Isetta, "Lo spirito della tristezza e dell’accidia in Giovanni Cassiano:
una sintesi filosofica, teologica e scientifica", in Civiltà classica
e cristiana 6 (1985).
10. Giovanni
Climaco, La scala, 239.
11. J.-C.,
Larchet, Terapia delle malattie spirituali. Un’introduzione alla
tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, San Paolo, Cinisello
Balsamo (MI) 2003, 601.
12. Trattato
pratico 12, p. 195.
13. Evagrio
Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 14,55.
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