n.6
giugno 2007

 

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L'accidia e il suo antitodo
Tornare allo slancio spirituale dell'amore

di Antonio Zani

 

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Il termine accidia, parola antica e legata alla vita ascetico-spirituale, è possibile intenderlo, in linguaggio odierno, come una malattia dell’anima, la cui manifestazione più evidente è una sofferta depressione melanconica, la perdita cioè dell’oggetto d’amore e della parte del sé che vi era investita. L’autorevole Catechismo della Chiesa Cattolica al riguardo scrive: "Con questo termine [accidia] i Padri della vita spirituale intendono una forma di depressione dovuta al rilassamento dell’ascesi, ad un venir meno della vigilanza, alla mancanza di custodia del cuore" (CCC 2733). Resistere, perseverare, andare avanti è allora l’insegnamento fondamentale della tradizione ascetico-monastica, consapevole che il fervore degli inizi ha bisogno di essere messo alla prova nel più austero dei crogiuoli: il tempo.

Come diagnosticare una sindrome accidiosa? Quale terapia adottare per sradicarla o per bonificare l’accidioso? Stranamente, un anacoreta del IV secolo d.C., cenobita o eremita che fosse, alla luce della sua stessa esperienza avrebbe saputo rispondere con molta più precisione di noi che, pur lontani da quella forma di vita, ne siamo (inconsapevolmente?) non solo lambiti, ma sempre più consumati. Spesso, ignari della robusta terapia allora suggerita, guardiamo con ironia o scetticismo a percorsi curativi che muovono, in chi autorevolmente li suggerisce o propone, dalla consapevolezza che l’accidia, purtroppo, non è un vizio solo monastico del passato.

Si è vittime, da un lato, dell’oblio dell’accidia nella teologia spirituale insegnata e imparata sino a qualche tempo fa e, dall’altro, di una formazione che non ci ha reso capaci di farle fronte o tenerle testa. Eppure, sebbene neglette, l’accidia e la sua ricca sindrome ci appaiono molto chiare, se colte nella loro profonda analogia o affinità con disagi psicologici coevi di natura melanconica, depressiva, narcisistica.

In questa direzione si muove, ad esempio, lo psichiatra G. Benedetti quando scrive nella Prefazione ad un’opera dedicata ad Evagrio Pontico (345-399),1 un monaco del deserto della seconda metà del IV secolo: "Col termine di Akedia [Evagrio] ci descrive una situazione spirituale… che va dall’accidia al fenomeno più doloroso dell’uomo, dal tedio dei monaci fino alla malinconia di Kirkegaard. Siamo allora di fronte ad una situazione spirituale che non può non chiamarsi anche una situazione psichica; una situazione che al limite è malattia… [Evagrio] è il primo psicologo della guarigione religiosa".2 Salvatore Natoli, noto filosofo laico contemporaneo, inizia il suo Dizionario dei vizi e delle virtù dall’accidia e, in ascolto di Evagrio, conclude il lemma come segue: "Nella nostra società l’accidia ha preso… le forme del conformismo sociale e dell’eversione verbale, della curiosità distratta…, anziché della conoscenza accurata delle cose. Quest’ultima - in qualunque modo la si rivolti - esige fatica. L’accidioso non sa faticare. Soprattutto non si sa dedicare. Nel nostro tempo vi sono uomini che non sanno coltivare a lungo neppure un amore. Dicono: che noia! Evagrio, monaco antico, queste cose le conosceva molto bene".3

Identità e diagnosi
di una malattia spirituale senza tempo

Il termine greco akïdía, ripreso in latino sotto forma di acedia, in italiano è reso con accidia: in realtà è difficile darne una traduzione semplice e completa. Sembra, del resto, più facile descriverla che definirla. Evagrio la delinea in questo modo: "Il demone dell’accidia… ispira al monaco una profonda avversione per il luogo in cui si trova, e perfino per il suo genere di vita e per il lavoro manuale; di più, gli suggerisce che la carità tra i fratelli è svanita, e che non c’è nessuno che possa dargli conforto".4 L’avversione nei confronti del proprio presente diventa anche avversione per tutti coloro che stanno intorno e non lo sanno riempire. Non è, forse, un’esperienza psicologica oggi sperimentata con frequenza, dalla quale discende un’amarezza che è all’origine di un umore cattivo, difficile da bonificare, che si trasforma in giudizio arrogante e insieme ridicolo nei confronti della nostra sorte, dei fratelli e, persino, del mondo intero?

Il termine akïdía non appartiene né al lessico ascetico-cristiano e neppure al vocabolario monastico. Era noto agli autori pagani, presso i quali evocava incuranza, negligenza, indifferenza, mancanza d’interesse per qualcosa. Nel Nuovo Testamento non ricorre mai questo vocabolo, mentre è presente nell’Antico, dove tale termine e il verbo derivato akïdiázein si contano in tutto nove volte con significato generico di abbattimento, ansia, angoscia, tedio. Probabilmente un proverbio veterotestamentario ne richiama con efficacia un’interessante sfumatura, pur senza usare il nostro termine: "Tutti i giorni sono brutti per l’afflitto, per un cuore felice è sempre festa" (Pr 15,15).

Non è il caso, cioè, di accusare la qualità dei giorni rispetto al sentimento di angustia che troppo spesso opprime, ma considerare la qualità del proprio cuore, correggendo quanto in esso vi è di triste, affinché anche la qualità dei giorni possa apparire diversa. I termini pigrizia o noia, con i quali spesso è tradotto, non esprimono che una parte della realtà complessa che esso indica: stanchezza, indolenza, torpore, disgusto, abbattimento, languore, atonia o perdita di tensione dell’anima, scoraggiamento, avversione.

Vi è nell’accidia un’insoddisfazione vaga e generale, che si sostanzia in un sottile sentimento di angustia, di noia, che alimentano in noi il desiderio facile di altro, di un altrove, che finalmente ci distraggano dal presente. Allorché afflitti da questa passione - da intendersi come malattia spirituale - percepiamo l’ansia interiore con disgusto, troviamo ogni cosa insulsa e insipida, non aspettiamo più nulla di nulla. L’accidia rende allora instabili nell’animo e nel corpo. Secondo Evagrio si tratta di un fenomeno "misto" o "complesso": "I demoni ci combattono mediante i pensieri, talora eccitando il desiderio, talaltra gli scoppi di collera, talora collera e desiderio insieme, da cui nasce il pensiero complesso. Questo appare solo al momento dell’accidia, mentre gli altri si presentano a intervalli, alternandosi a vicenda. Al pensiero dell’accidia invece nessun altro fa seguito in quel giorno, primo perché esso è persistente e poi anche perché contiene in sé quasi tutti gli altri".5

In concreto, l’accidioso è estremamente irritato da tutto ciò di cui dispone e si strugge dal desiderio di avere ciò che non è disponibile. Le sue facoltà divengono incostanti; il suo spirito, incapace di fissarsi, va da un oggetto all’altro. Soprattutto, quando egli è solo, non sopporta di rimanere nel luogo in cui si trova: la passione lo spinge a uscire, a spostarsi, ad andare in altri luoghi, a cercare a ogni costo contatti con altri. Contatti non obiettivamente indispensabili, ma indotti dalla passione. Egli ne sente il bisogno e trova dei "buoni" pretesti per giustificarli. Così stabilisce e intrattiene relazioni spesso futili che alimenta con discorsi vuoti da cui traspare generalmente una vana curiosità.

L’accidia mescola frustrazione e aggressività, ha orrore di ciò che c’è e sogna ciò che manca. Da qui discende pure, prima in Evagrio e poi in Gregorio Magno (540-604),6 ispiratore della tradizione ascetica che permeerà l’Occidente, una stretta relazione fra accidia e tristezza: "Accidia: compagna della tristezza" e viceversa: "Tristezza: compagna di scuola dell’accidia".7

Lo stato che l’accidia origina non è una semplice crisi passeggera, ma una patologia radicale e cronica del cuore, uno stato d’animo che porta al disorientamento. Tutti questi stati, che si ricollegano all’accidia, sono accompagnati da inquietudine o ansia, che è, oltre al disgusto, un carattere fondamentale di questa passione.

Il demone dell’accidia attacca soprattutto coloro che si dedicano alla vita spirituale: cerca di allontanarli dalle vie dello Spirito e dalle attività che una tale vita comporta. In particolare, si adopera a nuocere alla regolarità e alla costanza della disciplina ascetica, di rompere il silenzio e la stabilità che la favoriscono. Giovanni Climaco (ca. 579-654) presenta l’accidia come "paralisi dell’anima, infiacchimento della mente, trascuratezza dell’ascesi".8 Sotto l’influsso di questa passione, lo spirituale - al dire di Giovanni Cassiano (ca. 360-433) – è reso "inoperoso e inerte di fronte a tutti i lavori da eseguire… del tutto privo di ogni profitto spirituale, apatico e negato a ogni attività dello spirito", indifferente a tutta l’opera di Dio.9

Per la tradizione patristica l’accidia costituisce un rilassamento dell’anima e un lasciarsi andare dello spirito, genera un vuoto interiore e induce a una negligenza generalizzata. Unita alla tristezza, l’accresce e può condurre alla disperazione. Giovanni Climaco annota che "l’accidia per il monaco è una morte che lo circonda da ogni parte".10 Davanti all’ampiezza di questi effetti i Padri convergono nel riconoscerla la più pesante e la più opprimente di tutte le passioni. E non si pensi che sia estranea ai consacrati, a coloro che vivono nella tensione verso "un nuovo cielo e una nuova terra".

Terapia di antidoto all’accidia

Abbiamo visto che l’accidia "ha la peculiarità di coinvolgere tutte le facoltà dell’anima e di mettere in moto tutte le passioni; questo significa, di conseguenza, la morte di tutte le virtù. Così a differenza delle altre passioni, essa non può essere guarita né sostituita da una virtù che le sarebbe specificatamente opposta".11

Si rende dunque necessaria una terapia multiforme, idonea a contrastare su tutti i fronti questo spirito pernicioso. La terapia suppone che il male sia stato messo allo scoperto e sia stato individuato come tale, perché questa passione ha la caratteristica di essere immotivata, quindi, di essere spesso inconscia o incomprensibile. Se la si riconosce per quello che essa è, si può ottenere la pace.

Penso troppo ai come e ai perché, troppo a me stesso! Come la causa dell’accidia è all’interno della persona e non proviene dalla sua condizione esteriore, così il principio della sua guarigione è da ricercare nel rapporto con se stessi e non nel rapporto con gli altri. Il lessico ascetico antico stigmatizzava il pensare troppo o solo a se stessi con il termine philautia o amore di sé, agevolmente riconducibile al più noto narcisismo. Gli eccessi autoesaltanti sono spesso premessa di scoraggiamenti deprimenti e quella che appariva a se stessi un’esistenza piena di senso secerne umore amaro e deludente di pseudo-esistenza.

La terapia suggerita è una frequente, meglio metodica e quotidiana, riconduzione del proprio io all’unico vero desiderio buono ed eterno: il desiderio della vera conoscenza, che tende unicamente a Dio e colma di felicità. Se questo desiderio non raggiunge il suo traguardo, restano odio e tristezza. È la sola strada percorribile per guarirci da una sbilanciata attenzione irrigidita in eccessivo e non calibrato autoascolto. Sapientemente Evagrio ammonisce: "Guai alla philautia, che odia tutto".

Tutto qui? Che noia! Esclamazione disillusa e mortificata, propedeutica all’atonia dell’anima, alla rilassatezza interiore, ad una irrequietezza essa pure interiore, che può vestirsi anche di argomenti sottili. La terapia suggerita è il prendersi seriamente cura della propria volontà. Più che la buona volontà occorre alimentare la volontà buona, ribonificata nel credere, quindi guidata dagli occhi della fede, da uno sguardo adeguato alla fede rivolto a Dio, quindi a sé e agli altri, per giungere a desiderare e volere secondo Dio.

La parola interiore o il pensiero accidioso. L’accidia persuade che "la carità tra i fratelli è svanita, e che non c’è nessuno che possa dare conforto".12 È una situazione frequente e plausibile, dato che tutti noi siamo particolarmente vulnerabili nel campo affettivo. In concreto, i rimedi per controllare e vincere questo "male oscuro" hanno a che fare con la vigilanza e il discernimento sulla volontà. Il rimedio per eccellenza è l’eucaristia come esercizio di rendimento di grazie, segue l’invocazione del Nome di Gesù, la preghiera, l’assiduità alla Sacra Scrittura.

Non fuggire! Questo, in sintesi, l’imperativo da accogliere per battere ad armi pari la complessa sindrome accidiosa. Il non fuggire! è espresso nei testi cui ci siamo riferiti da un verbo o sostantivo che nel Nuovo Testamento contraddistingue la sistematica attitudine di Gesù. Si tratta della capacità di resistere sotto la pressione di un peso, di non flettere, di tener duro, di perseverare nell’opera iniziata, da non intendersi come ottusa rassegnazione bensì come attesa consapevole di Dio, alimento certo della speranza teologale.

Con Evagrio, l’acuto smascheratore dell’accidia e suo congruo terapeuta, possiamo concludere: "L’accidia è curata dalla perseveranza, e dal compiere ogni cosa con l’attenzione e con il timore di Dio. Fìssati una misura in ogni lavoro e non desistere fin che non l’hai completato. E prega con senno e con fervore e lo spirito dell’accidia fuggirà da te".13

Antonio Zani
Studio Teologico "Paolo VI" - Seminario di Brescia
Via Domenico Bollani, 20 – 25123 Brescia

Note

1. Segnaliamo le principali opere di questo monaco: Evagrio Pontico, Gli otto spirito della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità. Traduzione, introduzione e note di F. Moscatelli, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1996; Evagrio Pontico, A Eulogio. sulla confessione dei pensieri e consigli di vita. A Eulogio. I vizi opposti alle virtù, Introduzione, traduzione e note di L. Coco, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2006. Evagrio Pontico, Per conoscere lui. Esortazione a una vergine. Ai monaci. Ragioni delle osservanze monastiche. Lettera ad Anatolio. Pratico. Gnostico, Introduzione, traduzioni e note a cura di P. Bettiolo, Qiqajon, Comunità di Bose 1996.

2. G. Benedetti, Prefazione, in G. Bunge, Akèdia. La dottrina spirituale di Evagrio Pontico sull’accidia, Abbazia di Praglia, Padova 1992, 8-9.12. Quest’opera fondamentale di recente è stata riedita, senza tuttavia il testo della Prefazione di G. Benedetti: G. Bunge, AKEDIA. Il Male oscuro, a cura di V. Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose, 1999.

3. S. Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, Milano, 31997, 13.

4. P. Miquel, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, a cura di V. Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose 1998, 15-16.

5. Bunge, Akedia, 57-58.

6. San Gregorio Magno, Opere ¼, a cura di P. Siniscalco, Città Nuova, Roma 2001, 323. Utile è la lettura della ricca analisi del pensiero di papa Gregorio condotta da J.-Ch. Nault, La saveur de Dieu. L’acédie dans le dynamisme de l’agir, Lateran University Press, Roma 2002, pp. 97-124.

7. P. Michel, Lessico del deserto. Le parole della spiritualità, a cura di V. Lanzarini, Qiqajon, Comunità di Bose 1986, 15-16.

8. Giovanni Climaco, La scala. Traduzione e note e cura di Luiogi d’Ayala Valva. Introduzione di J. Chryssavgis, Qiqajon, Comunità di Bose 2005, 338. Lo scritto di Giovanni Climaco, composto intorno alla fine del VII secolo, giustamente considerato uno dei più grandi classici della letteratura monastica d’Oriente e d’Occidente, illustra le tappe della vita monastica, specchio in realtà del percorso universale del fedele.

9. Giovanni Cassiano, Le istituzioni cenobitiche, Introduzione e traduzione a cura di L. Dattrino, Abbazia di Praglia 1989, 247-249. Si veda pure l’altro celebre scritto di Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci, Traduzione, introduzione enote a cura di L. Dattrino, Città Nuova, Roma 2000, 203-239. Per un’analisi approfondita del suo pensiero, cf S. Isetta, "Lo spirito della tristezza e dell’accidia in Giovanni Cassiano: una sintesi filosofica, teologica e scientifica", in Civiltà classica e cristiana 6 (1985).

10. Giovanni Climaco, La scala, 239.

11. J.-C., Larchet, Terapia delle malattie spirituali. Un’introduzione alla tradizione ascetica della Chiesa ortodossa, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003, 601.

12. Trattato pratico 12, p. 195.

13. Evagrio Pontico, Gli otto spiriti della malvagità 14,55.

 

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