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Introduzione
I Padri della Chiesa sono gli
scrittori dei primi secoli cristiani che con la testimonianza della loro
vita e le loro opere hanno esercitato un ruolo importante e basilare
nella storia del cristianesimo: hanno trasmesso e spiegato la Parola di
Dio, come testimoni privilegiati della Tradizione; l’hanno difesa contro
le eresie; hanno creato le varie forme liturgiche per espri-mere la lode
e l’adorazione a Dio. Soprattutto poi hanno vissuto con coerenza il
messaggio evangelico, hanno diffuso i valori umani e cristiani nella
società in cui vivevano, hanno affrontato il dialogo col mondo e la
cultura contemporanea. Così hanno trasmesso alle generazioni posteriori
un grande patrimonio spirituale e letterario, educando il cuore e la
mente alla riflessione e ai sentimenti più nobili ed evidenziando le
immense possibilità di bene insite nell’uomo (all’opposto, come ombra,
hanno rilevato anche il male, di cui si rende responsabile l’uomo quando
rinnega Dio).
Richiamare gli esempi e gli
insegnamenti dei Padri della Chiesa è ricollegarci alle radici del
nostro cristianesimo, è ritornare là dove pulsa il cuore antico e sempre
nuovo della Chiesa, è ricorrere alle sorgenti vive della nostra fede. I
Padri sono ancora attuali oggi - e lo dimostrano anche le
Catechesi
che il papa Benedetto XVI, da marzo
2007, dedica ad essi nelle udienze generali del mercoledì - e ci aiutano
a riscoprire sempre più l’affascinante persona di Cristo (e ac-canto a
Lui la dolce figura di Maria e dei santi) e a riflettere sulla splendida
immagine di Dio presente in ogni creatura umana.
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Tra i primi Padri della Chiesa emerge
Ignazio di Antiochia, come una delle personalità più significative e
affascinanti. Visse al tempo immediatamente successivo a quello degli
apostoli: fu il terzo vescovo di Antiochia (oggi nell’estremo sud della
Turchia) dal 70 al 107, anno del suo martirio. In questa città era sorta
una fiorente comunità cristiana, che, secondo la tradizione, ebbe come
primo vescovo s. Pietro, e proprio ivi «per la prima volta i discepoli
furono chiamati cristiani» (At 11,26).
Durante il suo viaggio da Antiochia a
Roma, ove subirà il martirio - condannato ad essere divorato dalle belve
nell’anfiteatro Flavio – Ignazio scrisse sette lettere a varie comunità
cristiane: in esse esprime il suo profondo amore a Cristo e alla Chiesa;
manifesta la sua preoccupazione perché i cristiani rimangano saldi
nell’unità e nella fede, senza deviazioni verso le eresie; afferma con
chiarezza i principali dogmi del cristianesimo: unità e trinità di Dio,
vera umanità e divinità e di Cristo, «generato e ingenerato… nato da
Maria e da Dio» (Lettera
agli Efesini 7) e che –
ricorda con realismo Ignazio --soffrì realmente come realmente risuscitò
se stesso» (Lettera agli
Smirnesi 2); rievoca il
piano redentivo di Dio, a cui ha collaborato anche Maria Santissima;
mette in risalto i sacramenti, particolarmente il battesimo e
l’eucaristia; presenta una Chiesa guidata dal vescovo: con lui
collaborano in piena concordia sacerdoti, diaconi e popolo.
Il cristiano vive
unito a Dio e alla Chiesa
Ignazio si definisce «un uomo al
quale è affidato il compito dell'unità» (Lettera
ai Filadelfiesi 8,19) e ad
essa egli tende in modo irresistibile. L’unità è una prerogativa di Dio,
è Dio stesso (cf. Lettera ai Tralliani 11,1). I cristiani sono
chiamati a realizzare questa unità nell’amore e nella concordia, per
essere «tutti uniti in un cuore indiviso» (Lettera
ai Filadelfiesi 6,2).
Come riecheggiando la preghiera di
Gesù nell’Ultima Cena, Ignazio raccomandava ai cristiani di Magnesia di
essere una cosa sola: «Un'unica supplica, un'unica mente, un'unica
speranza nell'amore... Accorrete tutti a Gesù Cristo come all'unico
tempio di Dio, come all'unico altare: egli è uno e, procedendo
dall'unico Padre, è rimasto a Lui unito, e a Lui è ritornato nell'unità»
(7,1-2). Esorta i fedeli di Smirne ad un impegno comune e solidale,
scrivendo al loro vescovo Policarpo: «Lavorate insieme gli uni per gli
altri, lottate insieme, correte insieme, soffrite insieme, dormite e
vegliate insieme come amministratori di Dio, suoi assessori e servi.
Cercate di piacere a Colui per il quale militate e dal quale ricevete la
mercede. Nessuno di voi sia trovato disertore. Il vostro battesimo
rimanga come uno scudo, la fede come un elmo, la carità come una lancia,
la pazienza come un'armatura» (Lettera
a Policarpo 6,1-2).
L’unione dovrebbe arrivare a tale
grado di perfezione da essere una splendida «sinfonia», come
un’incantevole musica, in cui tutti gli strumenti si accordano
perfettamente e i singoli creano una corale armonica: è la plastica
immagine applicata da Ignazio ai cristiani di Efeso nel descrivere la
loro ammirevole unità ed esemplare comunione, auspicando che esse
emergano e si realizzino nelle comunità cristiane: «È bene per voi
procedere insieme d'accordo col pensiero del vescovo, cosa che già fate.
Infatti il vostro collegio dei presbiteri, giustamente famoso, degno di
Dio, è così armonicamente unito al vescovo, come le corde alla cetra.
Per questo nella vostra concordia e nel vostro amore sinfonico Gesù
Cristo è cantato. E così voi, ad uno ad uno, diventate coro, affinché
nella sinfonia della concordia, dopo aver preso il tono di Dio
nell'unità, cantiate a una sola voce» (Lettera
agli Efesini 4,1-2).
La Chiesa per Ignazio è allo stesso
tempo una e universale; per primo nella letteratura cristiana egli
attribuisce alla Chiesa l’aggettivo «cattolica» cioè «universale»: «Dove
è Gesù Cristo, lì è la Chiesa cattolica» (Lettera
agli Smirnesi 8,2).
L’unità della Chiesa si manifesta «nella fede e nella carità, delle
quali non vi è nulla di più eccellente» (Lettera
agli Smirnesi 6,1).
Nel servizio all’unità, la Chiesa di
Roma esercita una preminenza di amore e di guida, che Ignazio
sottolinea, rivolgendosi appunto a questa comunità: «In Roma essa
presiede degna di Dio, venerabile, degna di essere chiamata beata...
Presiede alla carità, che ha la legge di Cristo e porta il nome del
Padre» (Lettera ai Romani,
pro-logo).
Il cristiano offre la
sua vita sull’esempio di Cristo
Ignazio aspira a congiungersi con
Cristo e a raggiungere Dio, la meta finale della sua esistenza. Con una
stupenda frase, che sintetizza il suo costante anelito ad una vita in
pienezza e la sua profonda fede nella risurrezione, dichiara: «È bello
per me tramontare al mondo per risorgere a Dio!» (Lettera
ai Romani 2,1).
Egli supplica i cristiani di Roma,
affinché non intervengano per impedire il suo martirio, la suprema
testimonianza di amore verso Cristo, più volte da lui proclamato come
«il mio» o «il nostro Dio»: «È bello per me morire andando verso Gesù
Cristo, piuttosto che regnare sino ai confini della terra. Cerco lui,
che è morto per me, voglio lui, che è risorto per noi... Lasciate che io
raggiunga la pura luce! Giunto là, io sarò uomo. Lasciate che sia
imitatore della Passione del mio Dio!» (Lettera
ai Romani 6,1-3).
Ignazio si sente chiamato a
realizzare pienamente l’offerta della sua vita, come un’eucaristia
gradita a Dio: «Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere
per diventare pane immacolato di Cristo» (Lettera
ai Romani 4,1). La voce
dello Spirito Santo, come lo sciabordio continuo di un’onda, lo invita
con insistenza a ritornare a Dio: «Un'acqua
viva mormora dentro di me
e mi dice:Vieni al Padre!» (Lettera
ai Romani 7,2).
Sorretto dalla fede e dall’amore,
Ignazio può così congedarsi dai cristiani prima di affrontare il
martirio: «Addio, siate forti sino alla fine nel soffrire per Gesù
Cristo» (Lettera ai Romani
10,1). Concludendo la sua
vita, egli desidera trasmettere ad essi il suo ultimo accorato appello e
inviare il suo supremo augurio: «Amatevi l'un l'altro con cuore non
diviso. Il mio spirito si offre in sacrificio per voi, non solo ora, ma
anche quando avrà raggiunto Dio... In Cristo possiate essere trovati
senza macchia» (Lettera ai
Tralliani 13,2-3).
Conclusione
Ignazio ha praticato nella sua vita
ciò che ha insegnato (cf
Lettera agli Efesini 15,1:
«è bello insegnare se chi parla agisce»); e i cristiani potevano
imparare da lui: era l’impegno che lui raccomandava ai fedeli: «Lasciate
che imparino dalle vostre opere» (Lettera
agli Efesini, 10). Le sue
pagine conservano il fuoco interiore che ha animato tutti i suoi
atteggiamenti e le sue parole di cristiano e di vescovo. I suoi ideali
furono il Cristo e la Chiesa: il primo da seguire e imitare fino alla
morte, la seconda da amare e da armonizzare nell’unità e nella fede.
Egli si è rivelato veramente «portatore di Dio» (=
Teoforo),
come egli stesso si definisce all’inizio di tutte le sue lettere.
Il cielo già viveva e palpitava
dentro la sua anima: anche la morte, che segna il passaggio da questa
vita terrena a quella eterna, è da lui considerata come il supremo atto
d’amore di cui è capace il cristiano; infatti egli restituisce a Dio il
dono più grande che ha ricevuto: la vita. Il martire, morendo, realizza
e rende visibile nella sua persona il più autentico significato
dell’eucaristia: essere dono incondizionato per gli uomini, trasmettendo
ad essi quell’«amore incorruttibile» (Lettera
ai Romani 7,3), che dal
tempo si prolunga nell’eternità.
Mario Maritano
Università Pontificia Salesiana Piazza dell’Ateneo Salesiano, 1 - 00139
Roma
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