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Il
«ponte invisibile»
La
recente
Lettera enciclica
Spe salvi
di Benedetto XVI (30
novembre 2007) apre lo scenario della speranza, virtù cardine che il
Santo Padre vuole mettere in luce con l’espressione paoli-na:
«Spe salvi facti
sumus» -
nella speranza siamo stati salvati (Rm 8,24). «Speranza - afferma il
Papa – è una parola centrale della fede biblica, al punto che in diversi
passi le parole “fede” e “speranza” sembrano inter-scambiabili» (n.1).
Benedetto XVI adduce ad esempio di tale identificazione la
Lettera agli Ebrei
là dove
l’autore lega strettamente alla «pienezza della fede» (Eb 10,22) la
«immutabile professione della speranza» (Rm 10,23).
Noi però vogliamo puntare il
riflettore del nostro faro sulla medesima giustapposizione che opera
Paolo nella Lettera ai
Romani. Riferendosi alla
fede di Abramo, infatti, Paolo afferma che «egli ebbe
fede sperando
contro ogni
speranza»
(Rm 4,18). Abramo credette a una promessa divina «incredibile» e non
immediatamente verifica-bile, ponendo la sua speranza in Dio contro ogni
ragionevole speranza umana «vedendo già come morto il proprio corpo –
aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara» (Rm 4,19).
La fede del patriarca, incamminato
ormai inesorabilmente insieme a sua moglie Sara verso la “necrosi” del
corpo (questo è il termine forte che risuona due volte nel testo
greco!), per Paolo si spinge al punto tale da configurarsi già come fede
nella potenza di risurrezione di Dio, che «dà vita ai morti e chiama
all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17). Si potrebbe
dire che la speranza si sia messa in cammino lungo i sentieri della
storia proprio a partire dalla vicenda di Abramo, il grande «padre di
tutti noi» (Rm 4,16). E quando per gli israeliti questo cammino si arenò
nelle secche dell’esilio, vicolo cieco in cui vennero meno le
prospettive di futuro, il grande profeta della speranza che chiamiamo
comunemente Deutero-Isaia li richiamò a proiettarsi nuovamente con
fiducia verso il futuro, rivolgendo il loro sguardo verso questo grande
modello del passato: «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati,
alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo vostro padre,
a Sara che vi ha partorito» (Is 51,1b-2a).
Si dice che, quando Michelangelo
aveva scolpito un capolavoro e gli chiedevano come avesse fatto a creare
un’opera tanto sublime, egli rispondesse: «Io non ho fatto nulla: la
figura era già presente dentro al blocco di marmo, io l’ho solo liberata
togliendo con lo scalpello il sovrappiù di materia». Questa è l’opera
d’arte che ha fatto il Signore Dio con il nostro padre Abramo e la
nostra madre Sara: ha pre-visto l’invisibile e ha estratto dalla cava
della massa degli uomini una personalità straordinaria dalla fede
«granitica».
La nostra storia di fede è partita da
questa coppia anziana e sterile, che può essere assunta come modello
esemplare anche per l’attuale stato della vita religiosa, che sembra
essere approdata in un punto morto. La genuina fede biblica ci dice che
forse è proprio questo il momento propizio per ripartire con un nuovo
slancio vitale da dove siamo e con quello che siamo, sperando contro
ogni evidenza, consapevoli che il momento presente costituisce una
preziosa occasione per esercitare quell’attitudine peculiare che
configura il cristiano come «uomo/donna di speranza», capace di spingere
lo sguardo oltre il visibile e di additare orizzonti sconfinati di
futuro ad un mondo pesantemente invischiato nella sua opacità. «Ora -
prosegue Paolo - nella speranza noi siamo stati salvati. Ciò che si
spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come
potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo
attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). «La fede è il ponte senza
pilastri che porta ciò che vediamo verso la scena invisibile, troppo
tenue per l’occhio», affermava Emily Dickinson († 1886).
Non delude la
speranza
La speranza per Paolo è forgiata da
maturità comprovata, «collaudata», la quale a sua volta è figlia della
costanza che proviene dalla tribolazione: «Noi ci vantiamo nella
speranza
della gloria di Dio; non solo, ma
pure nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce costanza,
la costanza una virtù provata e la virtù provata la
speranza»
(Rm 5,3-4).
Nel contesto della
Lettera ai Romani
non si tratta della speranza di
essere salvati: la salvezza nella giustificazione, oggetto della fede, è
già acquisita («giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con
Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo»: 5,1). La «gloria», ossia
il valore, lo splendore e la magnificenza proprie di Dio, invece, è
ancora oggetto di speranza. Il luminoso v. 5 spiega la radice profonda
di questa tensione del cristiano dentro e al di là delle sofferenze: «La
speranza
poi non delude, poiché l’amore di Dio
è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è
stato dato». (Rm 5,5).
Secondo la filosofia stoica,
dominante al tempo di Paolo, la speranza è considerata una passione
inutile e dannosa: «Abbandona ogni inutile speranza, aiutati da te
stesso fin che ti è possibile» (Marco Aurelio 3,14). Per Paolo invece la
speranza cristiana «non delude», perché c’è una leva potente che
l’innalza al di sopra di tutte le avversità e le apparenti smentite
della storia: l’amore. L’amore è «il quinto elemento» esistente al
mondo, secondo il titolo del romanzo di Besson Luc e Bisson Terry.
Romanzo di fantascienza, racconta di un gruppo di scienziati i quali che
nelle loro indagini scoprono che accanto ai classici elementi «terra,
aria, acqua e fuoco» esiste nel cosmo un «quinto elemento» che governa
ogni cosa: «l’amore», appunto.
È questa la forza di propulsione di
una speranza che si proietta in avanti senza andare incontro a
fallimenti e delusioni. L’«amore di Dio riversato nei nostri cuori per
mezzo dello Spirito» non per è Paolo un vago sentimento proclamato in
modo astratto, bensì una solida realtà concreta attestata e dimostrata
nel fatto che ci fa capire di che genere di amore si tratti: «quando
eravamo ancora deboli, al tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora,
a stento uno è disposto a morire per un giusto […]. Ma
Dio dimostra il suo amore per noi
perché, essendo ancora
peccatori, Cristo morì per noi» (Rm 5,6-8). E se «nessuno ha un amore
più grande di colui che dà la vita per i propri amici» (Gv 15,16),
quanto grande sarà dunque quell’amore capace di dare la vita anche per i
«nemici»?
La speranza cristiana «non delude»
perché l’amore di Cristo non può venire mai meno, avendo già superato
tutti gli ostacoli che si possono frapporre tra lui e noi. «L’uomo viene
redento dall’amore», dice il Santo Padre nella sua enciclica. «Quando
uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un
momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben
presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve,
da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può
essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore
incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte
né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze,
né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci
dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).
Se esiste quest’amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora -
soltanto allora - l’uomo è “redento”, qualunque cosa gli accada nel caso
particolare» (Spe salvi 26).
Cristina Caracciolo
Docente alla Facoltà
Teologica dell’Italia Centrale
Via Sette Santi, 54/C - 50131 Firenze
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