n. 2 febbraio 2008

 

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«La speranza non delude»

di Cristina Caracciolo

 

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Il «ponte invisibile»
 

La recente Lettera enciclica Spe salvi di Benedetto XVI (30 novembre 2007) apre lo scenario della speranza, virtù cardine che il Santo Padre vuole mettere in luce con l’espressione paoli-na: «Spe salvi facti sumus» - nella speranza siamo stati salvati (Rm 8,24). «Speranza - afferma il Papa – è una parola centrale della fede biblica, al punto che in diversi passi le parole “fede” e “speranza” sembrano inter-scambiabili» (n.1). Benedetto XVI adduce ad esempio di tale identificazione la Lettera agli Ebrei là dove l’autore lega strettamente alla «pienezza della fede» (Eb 10,22) la «immutabile professione della speranza» (Rm 10,23).

Noi però vogliamo puntare il riflettore del nostro faro sulla medesima giustapposizione che opera Paolo nella Lettera ai Romani. Riferendosi alla fede di Abramo, infatti, Paolo afferma che «egli ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Abramo credette a una promessa divina «incredibile» e non immediatamente verifica-bile, ponendo la sua speranza in Dio contro ogni ragionevole speranza umana «vedendo già come morto il proprio corpo – aveva circa cento anni – e morto il seno di Sara» (Rm 4,19).

La fede del patriarca, incamminato ormai inesorabilmente insieme a sua moglie Sara verso la “necrosi” del corpo (questo è il termine forte che risuona due volte nel testo greco!), per Paolo si spinge al punto tale da configurarsi già come fede nella potenza di risurrezione di Dio, che «dà vita ai morti e chiama all’esistenza le cose che ancora non esistono» (Rm 4,17). Si potrebbe dire che la speranza si sia messa in cammino lungo i sentieri della storia proprio a partire dalla vicenda di Abramo, il grande «padre di tutti noi» (Rm 4,16). E quando per gli israeliti questo cammino si arenò nelle secche dell’esilio, vicolo cieco in cui vennero meno le prospettive di futuro, il grande profeta della speranza che chiamiamo comunemente Deutero-Isaia li richiamò a proiettarsi nuovamente con fiducia verso il futuro, rivolgendo il loro sguardo verso questo grande modello del passato: «Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati, alla cava da cui siete stati estratti. Guardate ad Abramo vostro padre, a Sara che vi ha partorito» (Is 51,1b-2a).

Si dice che, quando Michelangelo aveva scolpito un capolavoro e gli chiedevano come avesse fatto a creare un’opera tanto sublime, egli rispondesse: «Io non ho fatto nulla: la figura era già presente dentro al blocco di marmo, io l’ho solo liberata togliendo con lo scalpello il sovrappiù di materia». Questa è l’opera d’arte che ha fatto il Signore Dio con il nostro padre Abramo e la nostra madre Sara: ha pre-visto l’invisibile e ha estratto dalla cava della massa degli uomini una personalità straordinaria dalla fede «granitica».

La nostra storia di fede è partita da questa coppia anziana e sterile, che può essere assunta come modello esemplare anche per l’attuale stato della vita religiosa, che sembra essere approdata in un punto morto. La genuina fede biblica ci dice che forse è proprio questo il momento propizio per ripartire con un nuovo slancio vitale da dove siamo e con quello che siamo, sperando contro ogni evidenza, consapevoli che il momento presente costituisce una preziosa occasione per esercitare quell’attitudine peculiare che configura il cristiano come «uomo/donna di speranza», capace di spingere lo sguardo oltre il visibile e di additare orizzonti sconfinati di futuro ad un mondo pesantemente invischiato nella sua opacità. «Ora - prosegue Paolo - nella speranza noi siamo stati salvati. Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza» (Rm 8,24-25). «La fede è il ponte senza pilastri che porta ciò che vediamo verso la scena invisibile, troppo tenue per l’occhio», affermava Emily Dickinson († 1886).

Non delude la speranza

La speranza per Paolo è forgiata da maturità comprovata, «collaudata», la quale a sua volta è figlia della costanza che proviene dalla tribolazione: «Noi ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio; non solo, ma pure nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce costanza, la costanza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4).

Nel contesto della Lettera ai Romani non si tratta della speranza di essere salvati: la salvezza nella giustificazione, oggetto della fede, è già acquisita («giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo»: 5,1). La «gloria», ossia il valore, lo splendore e la magnificenza proprie di Dio, invece, è ancora oggetto di speranza. Il luminoso v. 5 spiega la radice profonda di questa tensione del cristiano dentro e al di là delle sofferenze: «La speranza poi non delude, poiché l’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». (Rm 5,5).

Secondo la filosofia stoica, dominante al tempo di Paolo, la speranza è considerata una passione inutile e dannosa: «Abbandona ogni inutile speranza, aiutati da te stesso fin che ti è possibile» (Marco Aurelio 3,14). Per Paolo invece la speranza cristiana «non delude», perché c’è una leva potente che l’innalza al di sopra di tutte le avversità e le apparenti smentite della storia: l’amore. L’amore è «il quinto elemento» esistente al mondo, secondo il titolo del romanzo di Besson Luc e Bisson Terry. Romanzo di fantascienza, racconta di un gruppo di scienziati i quali che nelle loro indagini scoprono che accanto ai classici elementi «terra, aria, acqua e fuoco» esiste nel cosmo un «quinto elemento» che governa ogni cosa: «l’amore», appunto.

È questa la forza di propulsione di una speranza che si proietta in avanti senza andare incontro a fallimenti e delusioni. L’«amore di Dio riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito» non per è Paolo un vago sentimento proclamato in modo astratto, bensì una solida realtà concreta attestata e dimostrata nel fatto che ci fa capire di che genere di amore si tratti: «quando eravamo ancora deboli, al tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento uno è disposto a morire per un giusto […]. Ma Dio dimostra il suo amore per noi perché, essendo ancora peccatori, Cristo morì per noi» (Rm 5,6-8). E se «nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i propri amici» (Gv 15,16), quanto grande sarà dunque quell’amore capace di dare la vita anche per i «nemici»?

La speranza cristiana «non delude» perché l’amore di Cristo non può venire mai meno, avendo già superato tutti gli ostacoli che si possono frapporre tra lui e noi. «L’uomo viene redento dall’amore», dice il Santo Padre nella sua enciclica. «Quando uno nella sua vita fa l’esperienza di un grande amore, quello è un momento di “redenzione” che dà un senso nuovo alla sua vita. Ma ben presto egli si renderà anche conto che l’amore a lui donato non risolve, da solo, il problema della sua vita. È un amore che resta fragile. Può essere distrutto dalla morte. L’essere umano ha bisogno dell’amore incondizionato. Ha bisogno di quella certezza che gli fa dire: “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39). Se esiste quest’amore assoluto con la sua certezza assoluta, allora - soltanto allora - l’uomo è “redento”, qualunque cosa gli accada nel caso particolare» (Spe salvi 26).

 

Cristina Caracciolo
Docente alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale Via Sette Santi, 54/C - 50131 Firenze

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