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Premessa:
Gesù e Socrate
Il mio intervento si pone nella
prospettiva della ricerca del Volto di Gesù. Il volto di Gesù che
intendo è quello del Gesù storico, pur sapendo che non c’è
dissomiglianza fra questo e il volto del Risorto: il Risorto è un
personaggio ormai al di là della storia, e però porta con sé il proprio
volto terreno.
Non è facile arrivare a delineare il
volto terreno di Gesù, perché giunge a noi soltanto attraverso delle
mediazioni e quindi attraverso dei ritratti. Lo stesso vale per Socrate,
un personaggio che ha pure influenzato molto la storia della cultura,
per lo meno quella cos’detta occidentale. Sono due grandi nomi che hanno
dei paralleli: enrambi hanoterminatola loro corsa terrena mediante un
processo ingiusto; entrambi sono stati masetri di numerosi discepoli;
entrambi giungono a noi, appunto, attraverso varie mediazioni: anche di
Socrate non conosciamo nulla, se non testimonianze altrui.
Quando non abbiamo autoritratti è
difficle pervenire a delineare esattamente il ‘volto’ di una persona.
Facciamo un rapporto con Poalo: questi ha degli scritti suoi, e quindi
èpi facile incontrare la sua personalità attraverso le sue lettere; ma
già Luca ci ddà, negli Atti, un ritratto che non sempre coincide con
quello delle lettere. La cosa interessante che riguarda gesù è che la
Chiesa elle origini (quella della fine del II secolo) ha canonizzato.
Per quanto riguarda perlomeno la vicenda terrena del personaggio, non un
solo ritratto, bensì quattro, cioè Matteo- Marco-Luca-Giovanni. Di
fronte a questo fatto io resto ammirato, perchésarebbe stato molto più
facile per la Chiesa lasciar doprvvivere uno scritto solo, un vangelo
soltanto e cestinare tutti gli altri, magari anche distruggendoli. La
Chiesa invece ne ha canonizzato quattro, complicandosi così la vita,
poiché essi non sempre coincidono: si tratta di un’operazione
interessantissima, perché esprime sostanzialmente la coscienza di fondo
secondo cui a Gesù non si può pervenire attraverso una via sola ed egli
non può essere ‘detto’ in una maniera sola. Tra l’altro la Chiesa non ha
nemmeno distrutto gli Apocrifi. Una certa cultura laica ama polemizzare
sul fatto che essi sono stati scar-tati. Ma in realtà sono stati
trasmessi! Anzi, il cristianesimo ha trasmesso persino tutti gli
apocrifi giudaici, che il rabbinismo davvero ha eliminato e che noi
conosciamo solo per un’operazione cristiana (per non dire poi degli
Autori dell’antichità pagana, che sono giunti a noi attraverso bravi e
pazienti amanuensi, perlopiù monaci, che hanno persino ricopiato le
poesie erotiche di Catullo. Un servizio enorme alla cultura…)!
In ogni caso, il confronto fra Gesù e
Socrate si esaurisce qui, perché siamo di fronte a due personalità molto
diverse.
Quale Gesù? Dal
titulus
crucis…
Qual è il Gesù possibile? È
certamente quello che fa parte delle quattro narrazioni evangeliche, che
s’interessano della sua vicenda storica. C’è infatti anche un ritratto
costruito da Paolo, un altro che ci è trasmesso dall’Apocalisse: essi
però non sono di carattere narrativo e non ci trasmettono gli
accadimenti, le parole e gli incontri propri del Gesù terreno. Ma a
parte questa molteplicità documentaristica, nei documenti stessi ci sono
qualifiche diverse, modi diversi di cogliere l’identità di Gesù. La
definizione più ufficiale, che fu proposta persino ai passanti sotto la
croce e scritta addirittura in tre lingue (cf Gv 19,20), è che egli
sarebbe stato «il re dei giudei» (cf. la tradizionale sigla
dell’iconografia della croce: INRI, cioè Gesù Nazareno Re dei Giudei).
Questa definizione così ufficiale, che formula il motivo della condanna
romana, oltre che giudaica, non ha avuto nessuna ripresa, nessuna
conseguenza nella coscienza di fede della chiesa o delle chiese
primitive. Nessun testo cristiano la recupera. Essa infatti non esprime
la fede cristiana; esprime solo il motivo giuridico della condanna, ma
non c’è mai in nessuna confessione di fede. È una designazione puramente
esterna, mentre l’attribuzione a Gesù di una dimensione regale (cf. Gv
18,36: «il mio regno non è di questo mondo…») va compresa in una
prospettiva ben diversa! Ma questo è un aspetto che andrebbe studiato a
parte. Certo è che nel
Credo non la si trova, pur
leggendo che Gesù patì sotto Ponzio Pilato. Del resto, neppure i nostri
fratelli Giudei accettano una dichiarazione del genere.
… al Signore dei
Signori
C’è invece tutta una serie di
possibilità d’identificazioni di Gesù, che si trovano già nei racconti
evangelici. Per esempio, Gesù è qualificato come «rabbì» (cf. Mc 9,5; Gv
1,38), e forse vi è noto il libro di Jacob Neusner,
Un rabbi parla con Gesù
(San Paolo, Cinisello Balsamo 2007),
che sta facendo fortuna perché il Papa lo ha citato nel suo volume su
Gesù di Nazaret.
Si tratta di un rabbino americano che conversa con Gesù, e confessa che,
se fosse stato ai suoi piedi ad ascoltare il discorso della montagna, se
ne sarebbe poi tornato tranquillamente a casa sua, alla sua famiglia, al
suo lavoro, abbandonando quel Nazareno al suo destino. Gesù stesso,
dunque, è stato chiamato Rabbi, cioè maestro, ma anche qui non ci sono
confessioni di fede che lo definiscano come tale. Per esempio, in Paolo
Gesù non è mai detto maestro/didàskalos, e così non è mai detto profeta,
come invece nei racconti evangelici leggiamo per lo meno sulla bocca
della gente, se non proprio dei discepoli (cf Mt 16,14; 21,11; Lc 7,16).
C’è poi il titolo di «Cristo» datogli da Pietro a Cesarea di Filippo, ma
in quella definizione Gesù non si riconosce appieno, tanto che gli
ingiunge di tacere (cf Mc 8,29-30).
C’è insomma un Gesù che è per coloro
che sono esterni al suo gruppo e che ne hanno una concezione
superficiale, e c’è invece il Gesù che egli stesso sa di essere, ma che
nella fase ter-rena non si rivela appieno, certo non in maniera
sfolgorante. Non c’è mai stata da parte sua, non dico l’ostentazione, ma
neppure l’esplicita rivendicazione di una identità superu-mana. Sono
sempre stato colpito da una frase attribuita a Gesù da Mario Pomilio nel
suo Quinto evangelio,
là dove gli fa dire: «Io non sono venuto a dimostrare, ma a mostrare»!
In effetti, Gesù si è certamente presentato a Israele e al mondo con una
sicura autocoscienza di ciò che pensava personalmente di essere, ma non
lo ha fatto con auto-definizioni solenni di alto profilo. Affermando
questo, mi riferisco limitatamente ai tre Vangeli sinottici, e faccio
quindi una scelta metodologica: non ritengo infatti che le definizioni
di Gesù proprie del Quarto vangelo, messe sulla sua bocca, appartengano
al Gesù terreno. In questo forse sono anche un po’ in dissonanza con il
predetto libro del Papa… Non ritengo infatti che il quarto vangelo sia
utile per ricostruire il Gesù terreno dal punto di vista, non dico della
sua coscienza, ma delle sue autodichiarazioni storiche, del linguaggio
con cui egli ha parlato di sé.
Si arriva poi alla confessione
fondamentale della fede, che è pasquale, ma non del Gesù terreno: la
confessione di Lui come «Signore». È questa la vera confessione della
prima fede cristiana, non quella di Gesù come «Dio». E’ cosa rarissima
infatti trovare nel Nuovo Testamento la definizione di Gesù come Dio (in
greco theós,
solo due volte: in Gv 20,28 e Tito 2,13, mentre il testo di Rm 9,5
dovrebbe essere tradotto diversamente da come fa la CEI); invece quella
di Signore (in greco kyrios)
è tipica e fondamentale e nelle sole lettere autentiche di san Paolo
ammonta a circa 150 volte (cf almeno 1Cor 8,6 e Fil 2,11)! Semmai
bisognerà dire che il titolo di
Signore
equivale più o meno a dire Dio
stesso, visto che nell’Antico Testamento greco la qualifica di «Signore»
serve per rendere il nome ebraico del Dio d’Israele (= Jhwh).
C’è una traiettoria veramente
interessante nello sviluppo delle definizioni di Gesù, un crescendo che
incontra il suo momento critico nell’umiliazione totale. L’interrogativo
è d’obbligo: sulla croce, dov’è il rabbi, dov’è il profeta, dov’è il
Cristo? Secondo la precomprensione giudaica, sulla croce c’era soltanto
un condannato miserabile, esecrabile. Interessante però è che il momento
della croce, tutt’altro che mettere termine a una scoperta dell’identità
di Gesù, è stato il crogiuolo che gli ha conferito una identità
straordinaria mediante una ripresa ed una esaltazione straordinaria
della sua umanità, naturalmente in unione all’evento della risurrezione
(il quale però non ha senso se non lo si associa strettamente alla
croce).
Si può vedere allora che la figura di
Gesù, da questo punto di vista, non ha nessun paragone con Socrate, ma
anche con nessuno degli altri volti del Messia che erano previsti in
Israele. Tra il I secolo a.C. e il I
secolo della nostra era ci sono fonti
antiche (letterarie, epigrafiche, papiracee…) che addirittura attestano
alcune decine di ebrei che si chiamavano «Gesù». Ebbene, non c’è nessun
paragone fra Gesù di Nazaret e tutti gli altri Gesù.
Fonti e documenti
Ciò che va ben compreso, ed è di
somma importanza, è che la storia del nostro Gesù è stata trasmessa solo
da interessi di fede!
Infatti, la cosa interessantis-sima,
che va assolutamente sottolineata, è che le fonti documentaristiche
sulla storia di Gesù sono tutte produzioni di persone di fede, di
persone cioè che hanno creduto in lui. C’è oggi una tendenza, che si può
anche definire presunzione, di voler ricostruire un Gesù al di là della
fede, una tendenza che si trova in alcune pubblicazioni recenti, e che
nella storia della ricerca rimonta appena al 1700, cioè all’epoca
dell’illuminismo. Ma la cosa notevole è che l’interesse per la
dimensione storica di Gesù ha caratterizzato fin dall’inizio soltanto
(ripeto: soltanto!) coloro che hanno creduto in lui. Non Erode, non
Pilato, non Caifa si sono interessati alla storia di Gesù; essi non
hanno trasmesso nessun racconto su di lui. Ma nemmeno Tacito, né
Svetonio, né Plinio il Giovane, che pur rappresentano le uniche fonti
pagane su Gesù: essi menzionano il suo nome, non perché si siano
interessati a lui, ma soltanto perché si sono interessati al gruppo di
coloro che si richiamavano a lui. Il problema non lo poneva Gesù, lo
poneva la Chiesa (uso questo termine, anche se né Tacito né Svetonio né
Plinio lo conoscono): il problema era quello dei testimoni di Gesù, e
solo a par-tire da loro si è risaliti, in seconda battuta, a colui che
era la ragione e il contenuto della loro testimonianza.
Di una storia di Gesù
altra,
fuori della cerchia e della tradizione dei credenti in lui, non c’è
nessuna traccia nell’antichità. Anche i numerosi apocrifi cristiani non
pretendevano affatto di opporsi al Gesù dei vangeli canonici, certo non
alla storicità del Gesù ‘canonico’, ma semmai intendevano soltanto
esprimere un’altra ermeneutica di fede nei suoi confronti, non foss’altro
che per riconoscere comunque la sua messianicità (così i vangeli
giudeo-cristiani, per esempio il cosiddetto Vangelo degli Ebrei) o
addirittura la sua assoluta dimensione celeste irriducibile a questo
mondo terreno (così i vangeli gnostici, per esempio il Vangelo di
Giuda). Tutto ciò è molto interessante, perché si vede bene che la fede
cristiana non può fare a meno della storia: Gesù di Nazaret non è una
fantasia o un mito, non è un’astrazione, e la comprensione che possiamo
avere di lui non può prescindere dalla sua dimensione storica.
Vice-versa, però, bisogna anche apertamente riconoscere che la storia di
Gesù è stata tramandata attraverso interpretazioni, anzi molte
interpretazioni. Non esiste una storia neutrale di Gesù, non è mai
esistita. Come già detto, neanche gli Apocrifi sono neutrali. Nessuno ha
mai preteso di scrivere in antitesi alla tradizione credente una storia
neutra di Gesù, che prescinda da precomprensioni di fede. Mai, se non
dopo 1700 anni! Cosa dire se non che queste
altre
produzioni sono esse stesse delle
interpretazioni? È inevita-bile che sia così. Questo è evidente,
soprattutto se si tiene conto del lungo lasso di tempo che le separa
dalle origini. Si vede bene dunque che storia e fede o fede e storia, in
campo cristiano, sono sempre andate e devono sempre andare a braccetto.
Appartenenza
all’ebraismo e originalità al suo interno
Il caso di Gesù, dal punto di vista
biografico, è unico all’interno dell’Israele del tempo.
Esso fa parte di un legame
indissolubile dell’intero cristianesimo con Israele. I cristiani sono
legati mani e piedi a Israele, e non possiamo scrollarcelo di dosso, non
certo nel senso che Israele sia un peso, ma nel senso che esso ci
definisce, definisce noi stessi. E in buona storiografia bisognerà dire
che il Cristianesimo non è altro che una variante del Giudaismo. Ebbene,
il Gesù terreno appartiene in pieno al giudaismo e alla storia
d’Israele.
La cosa su cui vorrei insistere è che
non abbiamo nessun racconto della vita di altre considerevoli figure
israelitiche del secolo primo, se non di questo ebreo di Galilea. Altri
personaggi pur famosi e importanti non hanno suscitato nessun interesse
narrativo, come invece lo ha suscitato questo ebreo di uno sperduto
villaggio della regione più periferica della terra d’Israele: un
paradosso straordinario! Qualche esempio.
1. Si pensi al fondatore della
comunità di Qumran, un personaggio molto importante che nei manoscritti
di Qumran (scoperti dopo il 1945) è il fondatore di quella comunità
verso la metà del sec. II a.C. Ebbene, egli è appena menzionato, non per
il suo nome ma solo per un suo titolo,
Maestro di giustizia.
Ma i manoscritti che usano questo termine non raccontano nulla di quella
figura, a cui forse vanno anche attribuiti alcuni Inni bellissimi; ma
non c’è alcuna storia raccontata di lui.
2. Un altro personaggio è rabbi
Hillel, che morì quando Gesù avrà avuto una diecina d’anni. Ancora prima
di Gesù egli enunciò la regola d’oro: «Non fare agli altri quello che
non vuoi sia fatto a te», che poi troviamo in bocca a Gesù nei Vangeli (cf
Mt 7,12: in forma positiva). Però di lui non c’è nessuna narrazione
biografica;
le notizie che abbiamo di lui si trovano sparse qua e là nella
tradizione rabbinica successiva del Talmùd. Inoltre, la menzione di
questo maestro (come anche degli altri a cui accenneremo) è solo
funzionale ad un commento alla Torah, cioè si parla di questi personaggi
perché servo-no ad illustrare un principio o delle lezioni proposte
dalla Torah, ma non c’è un interesse specifico sulla storia di quella
persona.
3. Lo stesso vale, per non parlare di
Gamaliele, soprattutto per un altro rabbino molto importante per la
storia di Israele, R. Jeohanan ben Zakkai, che dopo la tragedia
dell’anno settanta salvaguardò la sopravvivenza e l’identità
dell’ebraismo, quando con la distruzione del Tempio venne meno il
sacerdozio e quindi tutto il complesso del rituale liturgico-sacrificale
del tempio di Gerusalemme. Con questo rabbi avvenne per così dire una
rifondazione del giudaismo attorno al culto della Torah. Si racconta di
lui che un giorno, uscendo da Gerusalemme con il tempio distrutto, un
discepolo gli disse: «Maestro, il luogo dove i nostri peccati venivano
perdonati è ridotto in macerie, come faremo?»; ed egli risponde citando
il testo di Osea, quale noi leggiamo anche in bocca a Gesù (cf Mt 9,13):
«Misericordia io voglio e non sacrificio»! Ebbene, anche di questo rabbi
non c’è nessuna narrazione biografica, ma abbiamo solo delle notiziole
sparse qua e là nella tradizione rabbinica di commento alla Torah nel
Talmud.
4. Possiamo citare ancora un altro
grande rabbi del II secolo, R. Akibà, che tra l’altro sotto la seconda
guerra giudaica durante il regno di Adriano negli anni 130, indicò come
messia il capo degli oppositori militari a Roma, un certo Bar Kokeba
(naturalmente sbagliandosi, tanto che un altro maestro gli disse: «Akiba,
Akiba, l’erba spunterà tra le due mandibole prima che venga il
messia»!). Egli comunque morì martire del monoteismo, tanto che, mentre
gli strappavano le carni ripeteva continuamente una sola parola: «Unico,
unico, unico!» (con riferimento a Deut 6,4). Ma nelle fonti, ancora una
volta, non è attestato nessuno specifico interesse narrativo nei suoi
confronti.
Solo del maestro Yehoshuah di Nazaret
abbiamo una vera documentazione narrativa, per di più molteplice, che
comprende i quattro vangeli canonici e almeno una ventina di vangeli
apocrifi: tutti scritti che si interessano specificamente di lui a
livello narrativo, denotando un’attenzione diffusa e profonda sulla sua
personale identità storica. In sana filosofia si deve riconoscere che
ogni effetto deve avere una causa proporzionata. Perché, dunque, tanto
interesse sulla figura di questo Gesù e non su qualcuno degli altri
rabbi? Lasciamo pure lì l’interrogativo, ma certo esso ha una risposta
per lo meno elementare: perché lui ha destato un interesse, che altri
non hanno destato! Le tradizioni evangeliche infatti ci danno un
abbondante materiale di fatti e di parole, il cui contenuto ha davvero
segnato la sua generazione, per lo meno il gruppo dei suoi discepoli, i
quali non hanno potuto fare a meno di tramandare la memoria di lui in
maniera specifica e organica.
Se avete tempo e voglia, potete
leggere il recente studio del noto ricercatore inglese James Dunn,
Jesus remembered,
tradotto in italiano in tre grossi volumi col titolo:
Gli albori del cristianesimo
(Paideia, Brescia 2006-2007). Vi
si legge tra l’altro: «L’idea che si possa guardare attraverso la
prospettiva di fede degli scritti del Nuovo Testamento e vedere un Gesù
che non abbia ispirato la fede o che abbia ispirato la fede in modo
diverso, è una illusione» (I, p. 142). Proprio così: come dicevo, la
coltivazione della memoria di Gesù deve avere una causa adeguata. Ed
ecco perché nel titolo della mia conversazione si dice che dal Gesù
della storia al Cristo della fede il
passo è breve
(!). C’è infatti un nesso logico tra
i due momenti: se gli effetti da lui prodotti, anche solo sul mero piano
documentaristico, sono tanto considerevoli (e non parlo degli effetti
vitali, spirituali, del martirio, ecc.), vuol dire che a monte ci deve
essere una causa straordinaria, fuori del comune, che è di fatto
letteralmente incomparabile
all’interno d’Israele!
La molteplicità delle
interpretazioni
Il discorso su Gesù non può non
proseguire tenendo conto delle varie interpretazioni che di lui sono
state date a partire fin dal «terzo giorno». Già i quattro Vangeli ci
danno quattro interpretazioni, o quattro cristologie. Ma nell’intero
Nuovo Testamento le cristologie sono molteplici. Io li chiamo «ritratti
originali» di Gesù il Cristo, perché precedono quelli della successiva
storia della teologia e sono normativi nei suoi confronti. Qui vige la
varietà. Pensate se Picasso avesse dovuto fare il ritratto della
Gioconda! chissà che cosa sarebbe venuto fuori, anche se sarebbe stata
comunque un’opera d’arte, e, oltre a quello di Leonardo, ci sarebbe
stato se non altro un fatto di polivalenza artistica. Sono tanti e
diversi, infatti, i modi di rendere e interpretare un unico soggetto.
Gli esempi, non solo ipotetici, si potrebbero moltiplicare.
Ebbene, nel Nuovo Testamento abbiamo
di quell’unico Gesù molti ritratti diversi.
Qui il discorso va un po’ oltre il
semplice dato documentaristico e tocca i contenuti della documentazione
stessa, cioè la fede in lui. In ogni caso, ripetiamo, si deve tener
conto del fatto che Gesù giunge a noi sempre mediato,
filtrato
da testimonianze altrui. Questa é una
conclusione straordinaria per quanto riguarda sia la cristologia sia
l’ecclesiologia. Essa consiste nel dire che non è possibile conoscere un
Gesù pieno, integro, totale, fuori della Chiesa o senza la Chiesa. Mi fa
ridere, anzi mi fa pena l’alternativa che si sente spesso: «Cristo sì,
Chiesa no», perché un’alternativa del genere esprime soltanto, almeno in
prima battuta, ignoranza storiografica. Lo dicevamo all’inizio: Gesù non
è raggiungibile neanche dai troppi autori laici o laicisti, se non
attraverso documentazioni di fede, che sono quelle della Chiesa o delle
Chiese del I secolo. C’è perciò una intersecazione inestricabile fra
Gesù e la Chiesa, o tra la Chiesa e Gesù. Il solo guaio è che il termine
Chiesa si è caricato nel corso dei tempi d’incrostazioni semantiche
peggiorative, non entusiasmanti; ma noi qui facciamo un discorso di
valori originali, fondamentali, e perciò si può dire che un Gesù senza
Chiesa non esiste, perché non è mai esistito.
La fede pasquale
attesta vari ritratti
La fede nel Risorto agì come un
prisma, attraverso il quale si provoca una rifrazione dei raggi della
luce e si scompongono vari colori di un oggetto esaminato.
Ciò avviene certamente nei racconti
evangelici che riguardano il Gesù terreno (e che sono posteriori di
alcuni decenni rispetto alla sua morte). La sua identità storica
infatti, oltre che con la qualifica di Figlio dell’uomo, probabilmente
già gesuana, viene associata soprattutto dal Quarto vangelo con varie
dichiarazioni nella forma di «Io sono»: o in forma attributiva (cf «Io
sono il pane della vita, la luce del mondo, la risurrezione e la vita,
il buon pastore, la vite, la via la verità e la vita») o in forma
assoluta (cf Gv 8,58: «Prima che Abramo fosse, io sono»).
Ma ciò avviene ancor più
nell’elaborazione post-pasquale di varie cristologie attestate nei
cosiddetti scritti apostolici, che esprimono la fede delle comunità nel
Crocifisso-Risorto. A questo proposito ricordo solo velocemente le
seguenti qualifiche: - Signore (comune a tutti gli strati del
cristianesimo delle origini).
-
Liberatore radicale
dell’uomo dalla signorìa del Peccato (lettere di Paolo).
-
Capo, sia della
chiesa e sia del cosmo (lettere deuteropaoline: Col-Ef).
-
Un laico
paradossalmente proclamato Sacerdote (lettera agli Ebrei).
-
Agnello sgozzato ma
ritto in piedi (Apocalisse di Giovanni).
Su tutto questo insieme cristologico
mi permetto di rimandare al mio libro:
Il DNA del cristianesimo. L’identità
cristiana allo stato nascente,
San Paolo, Cinisello Balsamo 32007, soprattutto le pagine
56-153.
Romano Penna
Docente alla Pontificia
Università Gregoriana
Via Aurelia Antica, 284 –
00165 Roma
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