n. 2 febbraio 2008

 

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Dal Gesù della storia al Cristo della fede… il passo è breve

di Romano Penna

 

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 Premessa: Gesù e Socrate

Il mio intervento si pone nella prospettiva della ricerca del Volto di Gesù. Il volto di Gesù che intendo è quello del Gesù storico, pur sapendo che non c’è dissomiglianza fra questo e il volto del Risorto: il Risorto è un personaggio ormai al di là della storia, e però porta con sé il proprio volto terreno.

Non è facile arrivare a delineare il volto terreno di Gesù, perché giunge a noi soltanto attraverso delle mediazioni e quindi attraverso dei ritratti. Lo stesso vale per Socrate, un personaggio che ha pure influenzato molto la storia della cultura, per lo meno quella cos’detta occidentale. Sono due grandi nomi che hanno dei paralleli: enrambi hanoterminatola loro corsa terrena mediante un processo ingiusto; entrambi sono stati masetri di numerosi discepoli; entrambi giungono a noi, appunto, attraverso varie mediazioni: anche di Socrate non conosciamo nulla, se non testimonianze altrui.

Quando non abbiamo autoritratti è difficle pervenire a delineare esattamente il ‘volto’ di una persona. Facciamo un rapporto con Poalo: questi ha degli scritti suoi, e quindi èpi facile incontrare la sua personalità attraverso le sue lettere; ma già Luca ci ddà, negli Atti, un ritratto che non sempre coincide con quello delle lettere. La cosa interessante che riguarda gesù è che la Chiesa elle origini (quella della fine del II secolo) ha canonizzato. Per quanto riguarda perlomeno la vicenda terrena del personaggio, non un solo ritratto, bensì quattro, cioè Matteo- Marco-Luca-Giovanni. Di fronte a questo fatto io resto ammirato, perchésarebbe stato molto più facile per la Chiesa lasciar doprvvivere uno scritto solo, un vangelo soltanto e cestinare tutti gli altri, magari anche distruggendoli. La Chiesa invece ne ha canonizzato quattro, complicandosi così la vita, poiché essi non sempre coincidono: si tratta di un’operazione interessantissima, perché esprime sostanzialmente la coscienza di fondo secondo cui a Gesù non si può pervenire attraverso una via sola ed egli non può essere ‘detto’ in una maniera sola. Tra l’altro la Chiesa non ha nemmeno distrutto gli Apocrifi. Una certa cultura laica ama polemizzare sul fatto che essi sono stati scar-tati. Ma in realtà sono stati trasmessi! Anzi, il cristianesimo ha trasmesso persino tutti gli apocrifi giudaici, che il rabbinismo davvero ha eliminato e che noi conosciamo solo per un’operazione cristiana (per non dire poi degli Autori dell’antichità pagana, che sono giunti a noi attraverso bravi e pazienti amanuensi, perlopiù monaci, che hanno persino ricopiato le poesie erotiche di Catullo. Un servizio enorme alla cultura…)!

In ogni caso, il confronto fra Gesù e Socrate si esaurisce qui, perché siamo di fronte a due personalità molto diverse.

Quale Gesù? Dal titulus crucis…

Qual è il Gesù possibile? È certamente quello che fa parte delle quattro narrazioni evangeliche, che s’interessano della sua vicenda storica. C’è infatti anche un ritratto costruito da Paolo, un altro che ci è trasmesso dall’Apocalisse: essi però non sono di carattere narrativo e non ci trasmettono gli accadimenti, le parole e gli incontri propri del Gesù terreno. Ma a parte questa molteplicità documentaristica, nei documenti stessi ci sono qualifiche diverse, modi diversi di cogliere l’identità di Gesù. La definizione più ufficiale, che fu proposta persino ai passanti sotto la croce e scritta addirittura in tre lingue (cf Gv 19,20), è che egli sarebbe stato «il re dei giudei» (cf. la tradizionale sigla dell’iconografia della croce: INRI, cioè Gesù Nazareno Re dei Giudei). Questa definizione così ufficiale, che formula il motivo della condanna romana, oltre che giudaica, non ha avuto nessuna ripresa, nessuna conseguenza nella coscienza di fede della chiesa o delle chiese primitive. Nessun testo cristiano la recupera. Essa infatti non esprime la fede cristiana; esprime solo il motivo giuridico della condanna, ma non c’è mai in nessuna confessione di fede. È una designazione puramente esterna, mentre l’attribuzione a Gesù di una dimensione regale (cf. Gv 18,36: «il mio regno non è di questo mondo…») va compresa in una prospettiva ben diversa! Ma questo è un aspetto che andrebbe studiato a parte. Certo è che nel Credo non la si trova, pur leggendo che Gesù patì sotto Ponzio Pilato. Del resto, neppure i nostri fratelli Giudei accettano una dichiarazione del genere.

… al Signore dei Signori

C’è invece tutta una serie di possibilità d’identificazioni di Gesù, che si trovano già nei racconti evangelici. Per esempio, Gesù è qualificato come «rabbì» (cf. Mc 9,5; Gv 1,38), e forse vi è noto il libro di Jacob Neusner, Un rabbi parla con Gesù (San Paolo, Cinisello Balsamo 2007), che sta facendo fortuna perché il Papa lo ha citato nel suo volume su Gesù di Nazaret. Si tratta di un rabbino americano che conversa con Gesù, e confessa che, se fosse stato ai suoi piedi ad ascoltare il discorso della montagna, se ne sarebbe poi tornato tranquillamente a casa sua, alla sua famiglia, al suo lavoro, abbandonando quel Nazareno al suo destino. Gesù stesso, dunque, è stato chiamato Rabbi, cioè maestro, ma anche qui non ci sono confessioni di fede che lo definiscano come tale. Per esempio, in Paolo Gesù non è mai detto maestro/didàskalos, e così non è mai detto profeta, come invece nei racconti evangelici leggiamo per lo meno sulla bocca della gente, se non proprio dei discepoli (cf Mt 16,14; 21,11; Lc 7,16). C’è poi il titolo di «Cristo» datogli da Pietro a Cesarea di Filippo, ma in quella definizione Gesù non si riconosce appieno, tanto che gli ingiunge di tacere (cf Mc 8,29-30).

C’è insomma un Gesù che è per coloro che sono esterni al suo gruppo e che ne hanno una concezione superficiale, e c’è invece il Gesù che egli stesso sa di essere, ma che nella fase ter-rena non si rivela appieno, certo non in maniera sfolgorante. Non c’è mai stata da parte sua, non dico l’ostentazione, ma neppure l’esplicita rivendicazione di una identità superu-mana. Sono sempre stato colpito da una frase attribuita a Gesù da Mario Pomilio nel suo Quinto evangelio, là dove gli fa dire: «Io non sono venuto a dimostrare, ma a mostrare»! In effetti, Gesù si è certamente presentato a Israele e al mondo con una sicura autocoscienza di ciò che pensava personalmente di essere, ma non lo ha fatto con auto-definizioni solenni di alto profilo. Affermando questo, mi riferisco limitatamente ai tre Vangeli sinottici, e faccio quindi una scelta metodologica: non ritengo infatti che le definizioni di Gesù proprie del Quarto vangelo, messe sulla sua bocca, appartengano al Gesù terreno. In questo forse sono anche un po’ in dissonanza con il predetto libro del Papa… Non ritengo infatti che il quarto vangelo sia utile per ricostruire il Gesù terreno dal punto di vista, non dico della sua coscienza, ma delle sue autodichiarazioni storiche, del linguaggio con cui egli ha parlato di sé.

Si arriva poi alla confessione fondamentale della fede, che è pasquale, ma non del Gesù terreno: la confessione di Lui come «Signore». È questa la vera confessione della prima fede cristiana, non quella di Gesù come «Dio». E’ cosa rarissima infatti trovare nel Nuovo Testamento la definizione di Gesù come Dio (in greco theós, solo due volte: in Gv 20,28 e Tito 2,13, mentre il testo di Rm 9,5 dovrebbe essere tradotto diversamente da come fa la CEI); invece quella di Signore (in greco kyrios) è tipica e fondamentale e nelle sole lettere autentiche di san Paolo ammonta a circa 150 volte (cf almeno 1Cor 8,6 e Fil 2,11)! Semmai bisognerà dire che il titolo di Signore equivale più o meno a dire Dio stesso, visto che nell’Antico Testamento greco la qualifica di «Signore» serve per rendere il nome ebraico del Dio d’Israele (= Jhwh).

C’è una traiettoria veramente interessante nello sviluppo delle definizioni di Gesù, un crescendo che incontra il suo momento critico nell’umiliazione totale. L’interrogativo è d’obbligo: sulla croce, dov’è il rabbi, dov’è il profeta, dov’è il Cristo? Secondo la precomprensione giudaica, sulla croce c’era soltanto un condannato miserabile, esecrabile. Interessante però è che il momento della croce, tutt’altro che mettere termine a una scoperta dell’identità di Gesù, è stato il crogiuolo che gli ha conferito una identità straordinaria mediante una ripresa ed una esaltazione straordinaria della sua umanità, naturalmente in unione all’evento della risurrezione (il quale però non ha senso se non lo si associa strettamente alla croce).

Si può vedere allora che la figura di Gesù, da questo punto di vista, non ha nessun paragone con Socrate, ma anche con nessuno degli altri volti del Messia che erano previsti in Israele. Tra il I secolo a.C. e il I

secolo della nostra era ci sono fonti antiche (letterarie, epigrafiche, papiracee…) che addirittura attestano alcune decine di ebrei che si chiamavano «Gesù». Ebbene, non c’è nessun paragone fra Gesù di Nazaret e tutti gli altri Gesù.

Fonti e documenti

Ciò che va ben compreso, ed è di somma importanza, è che la storia del nostro Gesù è stata trasmessa solo da interessi di fede!

Infatti, la cosa interessantis-sima, che va assolutamente sottolineata, è che le fonti documentaristiche sulla storia di Gesù sono tutte produzioni di persone di fede, di persone cioè che hanno creduto in lui. C’è oggi una tendenza, che si può anche definire presunzione, di voler ricostruire un Gesù al di là della fede, una tendenza che si trova in alcune pubblicazioni recenti, e che nella storia della ricerca rimonta appena al 1700, cioè all’epoca dell’illuminismo. Ma la cosa notevole è che l’interesse per la dimensione storica di Gesù ha caratterizzato fin dall’inizio soltanto (ripeto: soltanto!) coloro che hanno creduto in lui. Non Erode, non Pilato, non Caifa si sono interessati alla storia di Gesù; essi non hanno trasmesso nessun racconto su di lui. Ma nemmeno Tacito, né Svetonio, né Plinio il Giovane, che pur rappresentano le uniche fonti pagane su Gesù: essi menzionano il suo nome, non perché si siano interessati a lui, ma soltanto perché si sono interessati al gruppo di coloro che si richiamavano a lui. Il problema non lo poneva Gesù, lo poneva la Chiesa (uso questo termine, anche se né Tacito né Svetonio né Plinio lo conoscono): il problema era quello dei testimoni di Gesù, e solo a par-tire da loro si è risaliti, in seconda battuta, a colui che era la ragione e il contenuto della loro testimonianza.

Di una storia di Gesù altra, fuori della cerchia e della tradizione dei credenti in lui, non c’è nessuna traccia nell’antichità. Anche i numerosi apocrifi cristiani non pretendevano affatto di opporsi al Gesù dei vangeli canonici, certo non alla storicità del Gesù ‘canonico’, ma semmai intendevano soltanto esprimere un’altra ermeneutica di fede nei suoi confronti, non foss’altro che per riconoscere comunque la sua messianicità (così i vangeli giudeo-cristiani, per esempio il cosiddetto Vangelo degli Ebrei) o addirittura la sua assoluta dimensione celeste irriducibile a questo mondo terreno (così i vangeli gnostici, per esempio il Vangelo di Giuda). Tutto ciò è molto interessante, perché si vede bene che la fede cristiana non può fare a meno della storia: Gesù di Nazaret non è una fantasia o un mito, non è un’astrazione, e la comprensione che possiamo avere di lui non può prescindere dalla sua dimensione storica. Vice-versa, però, bisogna anche apertamente riconoscere che la storia di Gesù è stata tramandata attraverso interpretazioni, anzi molte interpretazioni. Non esiste una storia neutrale di Gesù, non è mai esistita. Come già detto, neanche gli Apocrifi sono neutrali. Nessuno ha mai preteso di scrivere in antitesi alla tradizione credente una storia neutra di Gesù, che prescinda da precomprensioni di fede. Mai, se non dopo 1700 anni! Cosa dire se non che queste altre produzioni sono esse stesse delle interpretazioni? È inevita-bile che sia così. Questo è evidente, soprattutto se si tiene conto del lungo lasso di tempo che le separa dalle origini. Si vede bene dunque che storia e fede o fede e storia, in campo cristiano, sono sempre andate e devono sempre andare a braccetto.

Appartenenza all’ebraismo e originalità al suo interno

Il caso di Gesù, dal punto di vista biografico, è unico all’interno dell’Israele del tempo.

Esso fa parte di un legame indissolubile dell’intero cristianesimo con Israele. I cristiani sono legati mani e piedi a Israele, e non possiamo scrollarcelo di dosso, non certo nel senso che Israele sia un peso, ma nel senso che esso ci definisce, definisce noi stessi. E in buona storiografia bisognerà dire che il Cristianesimo non è altro che una variante del Giudaismo. Ebbene, il Gesù terreno appartiene in pieno al giudaismo e alla storia d’Israele.

La cosa su cui vorrei insistere è che non abbiamo nessun racconto della vita di altre considerevoli figure israelitiche del secolo primo, se non di questo ebreo di Galilea. Altri personaggi pur famosi e importanti non hanno suscitato nessun interesse narrativo, come invece lo ha suscitato questo ebreo di uno sperduto villaggio della regione più periferica della terra d’Israele: un paradosso straordinario! Qualche esempio.

1. Si pensi al fondatore della comunità di Qumran, un personaggio molto importante che nei manoscritti di Qumran (scoperti dopo il 1945) è il fondatore di quella comunità verso la metà del sec. II a.C. Ebbene, egli è appena menzionato, non per il suo nome ma solo per un suo titolo, Maestro di giustizia. Ma i manoscritti che usano questo termine non raccontano nulla di quella figura, a cui forse vanno anche attribuiti alcuni Inni bellissimi; ma non c’è alcuna storia raccontata di lui.

2. Un altro personaggio è rabbi Hillel, che morì quando Gesù avrà avuto una diecina d’anni. Ancora prima di Gesù egli enunciò la regola d’oro: «Non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te», che poi troviamo in bocca a Gesù nei Vangeli (cf Mt 7,12: in forma positiva). Però di lui non c’è nessuna narrazione biografica; le notizie che abbiamo di lui si trovano sparse qua e là nella tradizione rabbinica successiva del Talmùd. Inoltre, la menzione di questo maestro (come anche degli altri a cui accenneremo) è solo funzionale ad un commento alla Torah, cioè si parla di questi personaggi perché servo-no ad illustrare un principio o delle lezioni proposte dalla Torah, ma non c’è un interesse specifico sulla storia di quella persona.

3. Lo stesso vale, per non parlare di Gamaliele, soprattutto per un altro rabbino molto importante per la storia di Israele, R. Jeohanan ben Zakkai, che dopo la tragedia dell’anno settanta salvaguardò la sopravvivenza e l’identità dell’ebraismo, quando con la distruzione del Tempio venne meno il sacerdozio e quindi tutto il complesso del rituale liturgico-sacrificale del tempio di Gerusalemme. Con questo rabbi avvenne per così dire una rifondazione del giudaismo attorno al culto della Torah. Si racconta di lui che un giorno, uscendo da Gerusalemme con il tempio distrutto, un discepolo gli disse: «Maestro, il luogo dove i nostri peccati venivano perdonati è ridotto in macerie, come faremo?»; ed egli risponde citando il testo di Osea, quale noi leggiamo anche in bocca a Gesù (cf Mt 9,13): «Misericordia io voglio e non sacrificio»! Ebbene, anche di questo rabbi non c’è nessuna narrazione biografica, ma abbiamo solo delle notiziole sparse qua e là nella tradizione rabbinica di commento alla Torah nel Talmud.

4. Possiamo citare ancora un altro grande rabbi del II secolo, R. Akibà, che tra l’altro sotto la seconda guerra giudaica durante il regno di Adriano negli anni 130, indicò come messia il capo degli oppositori militari a Roma, un certo Bar Kokeba (naturalmente sbagliandosi, tanto che un altro maestro gli disse: «Akiba, Akiba, l’erba spunterà tra le due mandibole prima che venga il messia»!). Egli comunque morì martire del monoteismo, tanto che, mentre gli strappavano le carni ripeteva continuamente una sola parola: «Unico, unico, unico!» (con riferimento a Deut 6,4). Ma nelle fonti, ancora una volta, non è attestato nessuno specifico interesse narrativo nei suoi confronti.

Solo del maestro Yehoshuah di Nazaret abbiamo una vera documentazione narrativa, per di più molteplice, che comprende i quattro vangeli canonici e almeno una ventina di vangeli apocrifi: tutti scritti che si interessano specificamente di lui a livello narrativo, denotando un’attenzione diffusa e profonda sulla sua personale identità storica. In sana filosofia si deve riconoscere che ogni effetto deve avere una causa proporzionata. Perché, dunque, tanto interesse sulla figura di questo Gesù e non su qualcuno degli altri rabbi? Lasciamo pure lì l’interrogativo, ma certo esso ha una risposta per lo meno elementare: perché lui ha destato un interesse, che altri non hanno destato! Le tradizioni evangeliche infatti ci danno un abbondante materiale di fatti e di parole, il cui contenuto ha davvero segnato la sua generazione, per lo meno il gruppo dei suoi discepoli, i quali non hanno potuto fare a meno di tramandare la memoria di lui in maniera specifica e organica.

Se avete tempo e voglia, potete leggere il recente studio del noto ricercatore inglese James Dunn, Jesus remembered, tradotto in italiano in tre grossi volumi col titolo: Gli albori del cristianesimo (Paideia, Brescia 2006-2007). Vi si legge tra l’altro: «L’idea che si possa guardare attraverso la prospettiva di fede degli scritti del Nuovo Testamento e vedere un Gesù che non abbia ispirato la fede o che abbia ispirato la fede in modo diverso, è una illusione» (I, p. 142). Proprio così: come dicevo, la coltivazione della memoria di Gesù deve avere una causa adeguata. Ed ecco perché nel titolo della mia conversazione si dice che dal Gesù della storia al Cristo della fede il passo è breve (!). C’è infatti un nesso logico tra i due momenti: se gli effetti da lui prodotti, anche solo sul mero piano documentaristico, sono tanto considerevoli (e non parlo degli effetti vitali, spirituali, del martirio, ecc.), vuol dire che a monte ci deve essere una causa straordinaria, fuori del comune, che è di fatto letteralmente incomparabile all’interno d’Israele!

La molteplicità delle interpretazioni

Il discorso su Gesù non può non proseguire tenendo conto delle varie interpretazioni che di lui sono state date a partire fin dal «terzo giorno». Già i quattro Vangeli ci danno quattro interpretazioni, o quattro cristologie. Ma nell’intero Nuovo Testamento le cristologie sono molteplici. Io li chiamo «ritratti originali» di Gesù il Cristo, perché precedono quelli della successiva storia della teologia e sono normativi nei suoi confronti. Qui vige la varietà. Pensate se Picasso avesse dovuto fare il ritratto della Gioconda! chissà che cosa sarebbe venuto fuori, anche se sarebbe stata comunque un’opera d’arte, e, oltre a quello di Leonardo, ci sarebbe stato se non altro un fatto di polivalenza artistica. Sono tanti e diversi, infatti, i modi di rendere e interpretare un unico soggetto. Gli esempi, non solo ipotetici, si potrebbero moltiplicare.

Ebbene, nel Nuovo Testamento abbiamo di quell’unico Gesù molti ritratti diversi.

Qui il discorso va un po’ oltre il semplice dato documentaristico e tocca i contenuti della documentazione stessa, cioè la fede in lui. In ogni caso, ripetiamo, si deve tener conto del fatto che Gesù giunge a noi sempre mediato, filtrato da testimonianze altrui. Questa é una conclusione straordinaria per quanto riguarda sia la cristologia sia l’ecclesiologia. Essa consiste nel dire che non è possibile conoscere un Gesù pieno, integro, totale, fuori della Chiesa o senza la Chiesa. Mi fa ridere, anzi mi fa pena l’alternativa che si sente spesso: «Cristo sì, Chiesa no», perché un’alternativa del genere esprime soltanto, almeno in prima battuta, ignoranza storiografica. Lo dicevamo all’inizio: Gesù non è raggiungibile neanche dai troppi autori laici o laicisti, se non attraverso documentazioni di fede, che sono quelle della Chiesa o delle Chiese del I secolo. C’è perciò una intersecazione inestricabile fra Gesù e la Chiesa, o tra la Chiesa e Gesù. Il solo guaio è che il termine Chiesa si è caricato nel corso dei tempi d’incrostazioni semantiche peggiorative, non entusiasmanti; ma noi qui facciamo un discorso di valori originali, fondamentali, e perciò si può dire che un Gesù senza Chiesa non esiste, perché non è mai esistito.

La fede pasquale attesta vari ritratti

La fede nel Risorto agì come un prisma, attraverso il quale si provoca una rifrazione dei raggi della luce e si scompongono vari colori di un oggetto esaminato.

Ciò avviene certamente nei racconti evangelici che riguardano il Gesù terreno (e che sono posteriori di alcuni decenni rispetto alla sua morte). La sua identità storica infatti, oltre che con la qualifica di Figlio dell’uomo, probabilmente già gesuana, viene associata soprattutto dal Quarto vangelo con varie dichiarazioni nella forma di «Io sono»: o in forma attributiva (cf «Io sono il pane della vita, la luce del mondo, la risurrezione e la vita, il buon pastore, la vite, la via la verità e la vita») o in forma assoluta (cf Gv 8,58: «Prima che Abramo fosse, io sono»).

Ma ciò avviene ancor più nell’elaborazione post-pasquale di varie cristologie attestate nei cosiddetti scritti apostolici, che esprimono la fede delle comunità nel Crocifisso-Risorto. A questo proposito ricordo solo velocemente le seguenti qualifiche: - Signore (comune a tutti gli strati del cristianesimo delle origini).

  • Liberatore radicale dell’uomo dalla signorìa del Peccato (lettere di Paolo).
  • Capo, sia della chiesa e sia del cosmo (lettere deuteropaoline: Col-Ef).
  • Un laico paradossalmente proclamato Sacerdote (lettera agli Ebrei).
  • Agnello sgozzato ma ritto in piedi (Apocalisse di Giovanni).

Su tutto questo insieme cristologico mi permetto di rimandare al mio libro: Il DNA del cristianesimo. L’identità cristiana allo stato nascente, San Paolo, Cinisello Balsamo 32007, soprattutto le pagine 56-153.

Romano Penna
Docente alla Pontificia Università Gregoriana
Via Aurelia Antica, 284 – 00165 Roma

 

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