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Il
ciclo della modernità, che ha puntato prima sulla scienza e poi sulla
politica per realizzare una società razionale e perfetta, è arrivato al
suo epilogo negli anni Sessanta. In quel mondo il lavoro era 1'ele-mento
essenziale della realizzazione di sé. Un po' alla volta, nel corso degli
anni Settanta grandi valori come lavoro, progresso, ragione hanno perso
di interesse per i giovani e sono stati sostituiti da edonismo, culto
del corpo, attenzione alla sessualità. Lo scivolamento dai valori
moderni è stato più o meno lento, ma inarrestabile: oggi le grandi
parole sono non più progresso ma presente; non più
lavoro ma piacere; non più ragione ma emozione.
Con l'epoca post-moderna, l'epoca
della massima tecnologizzazione e della secolarizzazione invadente, si
registra l'affermarsi dell'uomo radicale. L’uomo viene visto come
buono e pienamente autonomo: ogni eteronomia etica viene intesa solo
come un attentato alla sovranità del soggetto assoluto. Stirner ha
scritto: «Alla sentenza cristiana Noi siamo tutti peccatori, io
oppongo questa: Noi siamo tutti perfetti». Di qui il
permissivismo: gli istinti sono buoni, dunque non vanno né repressi né
regolati, ma liberati. La libertà autentica consiste nel pieno
soddisfacimento dei bisogni, dei desideri, delle passioni. Non si è
vincolati ad alcun dovere verso gli altri; esistono solo diritti e si fa
coincidere diritto con desiderio: «Ogni desiderio è un mio diritto». Si
afferma una sorta di suprema libertà d’indipendenza, libertà da:
dalla povertà, dalla miseria, dall'ignoranza, fino alla libertà dal
dovere e dalla responsabilità.
La figura emblematica di riferimento
per la nostra cultura esasperatamente individualista è Narciso, 1'eroe
mitologico, morbosamente innamorato di se stesso, che avrebbe trovato la
morte un giorno mentre, chinato sulla superficie ghiacciata di uno
specchio d'acqua, si sarebbe sbilanciato per abbracciare la propria
immagine e così sarebbe caduto, miseramente travolto dalle correnti
gelide del lago. Se poi si prende per buona 1'etimologia che farebbe
derivare «narcosi-narcotico» dal fiore del narciso - l'azzurro
fiordaliso che, secondo Sofocle (Edipo a Colono) s’intrecciava nelle
collane di Demetra e Persefone, allora si ha l'accostamento
narciso-narcotico: l'amore per la propria immagine droga e uccide.
Le tre sfide di Narciso
E per i cristiani? Nel nostro mondo
occidentale, dove sembrano spesso smarrite le tracce di Dio, la
testimonianza di una vita «bella, buona, beata» da parte dei cristiani
sembra oggi provocata da tre sfide principali: un materialismo
possessivo e vorace, una cultura spudoratamente edonistica, una
concezione della libertà, svincolata dalla verità. Sono tre sfide di
sempre, ma oggi particolarmente acute, perché divenute moda corrente e
costume sempre più diffuso e pervasivo.
La sfida del materialismo
La sfida del materialismo e di un
economicismo sempre più sfacciato aggredisce il valore fondamentale
della giustizia sociale e dell’uguaglianza tra tutti. Oggi non ci si può
non opporre a certo utilitarismo esasperato, imposto dalla società del
benessere, che guarda più ai profitti che all’occupazione, mentre sembra
poco preoccupato del domani. Diversi osservatori ritengono che questa
generazione stia dissipando i risparmi delle generazioni precedenti e
stia sperperando le risorse del domani, scaricando così sulle
generazioni future i costi della società del benessere.
Al riguardo Giovanni Paolo II
affermava della vita consacrata ciò che, con le dovute precisazioni e le
debite proporzioni, si può dire innanzitutto della vita cristiana in
generale. «La vita consacrata contesta con forza l’idolatria di mammona,
proponendosi come appello profetico nei confronti di una società che, in
tante parti del mondo benestante, rischia di perdere il senso della
misura e il significato stesso delle cose. Per questo, oggi più che in
altre epoche, il suo richiamo trova attenzione anche tra coloro che,
consci della limitatezza delle risorse del pianeta, invocano il rispetto
e la salvaguardia del creato mediante la riduzione dei consumi, la
sobrietà, l’imposizione di un dove-roso freno ai propri desideri» (VC
90).
La cultura edonistica
La cultura edonistica slega
affettività e sessualità da ogni norma morale oggettiva, e indulgendo a
una sorta di idolatria dell’istinto, esalta la totale libertà del
singolo individuo, riducendo tutto ciò che è legato alla sfera sessuale
a gioco e consumo. Dopo la rivoluzione sessuale degli anni ’60, le
delicate questioni riguardanti questo campo hanno cominciato a prendere
una direzione, nella mentalità della gente, totalmente diversa dagli
indirizzi della Chiesa e della tradizione cristiana. In questo settore
pare essersi attutito il senso del peccato, quasi travolto dalla lenta
ma inesorabile erosione di valori, prodotta dal secolarismo e
dall’edonismo dilagante.
Questa cultura del piacere, del
desiderio e, spesso, del capriccio, è tutt’altro che innocua: celebra
trionfi e semina stragi. Come non vedere quale mare di sofferenza sia
prodotto dalle famiglie disgregate, dai coniugi abbandonati, dai figli
contesi, dalle persone calpestate, dall’abbrutimento della pornografia,
dalla vergogna della prostituzione infantile, da una società che diventa
«senza cuore» (cf Rm 1,31) per l’esaltazione del libero godimento,
insensibile alle sofferenze inflitte agli altri?
A seguito degli orribili casi di
violenza che hanno sconvolto qualche anno fa il Belgio (scandalo di
Marcinelle, 1995), il card. Danneels intervenne con una riflessione
molto severa: «Non meraviglia vedere che la mafia del sesso, la brama
del denaro e l’istinto di potenza siano legati. Molte persone che hanno
il gusto del potere finiscono col partecipare ad “affari”. Una vera
idolatria del corpo è alla base di questo caos: il corpo domina l’anima.
E il denaro domina il corpo».
E pochi mesi prima del suo trapasso,
Giuseppe Dossetti aveva scritto: «L’atto sessuale tende sempre più a
dissociarsi da ogni regola, nella ricerca esclusiva di un piacere che si
fa sempre più autonomo e più sofisticato, fino alle forme più perverse,
come è sempre accaduto nei periodi di decadenza dei popoli e di grave
perdita delle culture. Inoltre questa ossessione del piacere sessuale,
come porta una continua stimolazione dell’istinto naturale, così lo
infiacchisce nelle sue stesse potenzialità naturali. E ancora porta
all’ottundersi delle facoltà superiori dell’intelligenza, cioè la
creatività, la contemplazione naturale, il discernimento, per una
inabilità alla durata dell’attenzione e del confronto, e quindi
dell’elementare capacità critica».
La libertà sganciata dalla verità
La terza sfida è quella della
concezione di una libertà sganciata dalla verità e dalla solidarietà.
L’epoca moderna si era aperta con la dichiarazione dei «lumi» che
collocava la liberté al primo posto nel trinomio della
rivoluzione francese. E per libertà si intendeva l’affrancazione da ogni
vincolo religioso: libertà dalla religione per conseguire la
libertà della ragione. L’unica autorità vera era quella
costituita nel nome della ragione, a cui tutti - anche il re - si
dovevano sottomettere. Difatti «l’erba-voglio non cresce neanche nel
giardino del re».
Questa epoca si considera ormai al
tramonto; da qualche decennio siamo entrati nell’epoca postmoderna, un
passaggio che Zygmunt Bauman esprime con la coppia «solido-liquido». In
fondo la modernità si poteva considerare ancora «solida», caratterizzata
com’era da certezza, rigidità, ripetitività. Era la modernità ordinata,
costruita all’interno di mondi chiusi, delle società nazionali. Si
trattava di mondi solidi, forti, istituzionalizzati, nei quali le
identità individuali erano marcate e stabili, grazie al ruolo sociale
che svolgevano, e dove vigeva un pervasivo ordine della legge. La
globalizzazione ha inaugurato una condizione «liquida»: ci si sente più
incerti, più insicuri e instabili. La vita personale, fatta di rotture e
cambiamenti, si è destrutturata e, se raramente genera piacere e senso
di onnipotenza, in genere suscita nostalgia e angoscia. Spesso si
smarrisce il senso di ciò che si sta facendo e soprattutto si perde
l’idea di poter tenere sotto controllo la vita individuale e collettiva.
Si parla di «cultura del narcisismo»,
con la sua invitante costellazione di diritti: si ha il diritto di
scegliere i comportamenti e le concezioni di vita, e questo sacrosanto
diritto di scelta viene difeso da sistemi giuridici che non intendono
più sacrificare le persone alle esigenze di ordinamenti presuntivamente
indiscutibili.
Nella postmodernità (o tarda
modernità) si è venuta affermando prevalentemente una concezione della
libertà come autodeterminazione-autorealizzazione-autogratificazione,
una libertà radicale che mira a spezzare la presa delle
imposizioni esterne, a decidere in solitudine, riscontrando come unico
limite di esercizio la libertà degli altri: nessuno determina gli altri
e ciascuno determina se stesso. Liberi per se stessi, nessuno ha parte
alla libertà degli altri. Libertà come potere che presuppone un’immagine
di società costituita da individui isolati e che si incontrano
nell’esercizio di funzioni. Una società di individui e non di persone,
che si percepiscono come membri di una famiglia più grande.
Le risposte della vita consacrata
La via della povertà
Nella Lettera ai Romani s. Paolo non
parla esplicitamente di povertà come invece aveva fatto in 2
Corinti 8,9. Nella Lettera ai Romani l’accento cade sull’umiltà:
l’esortazione viene ripetuta prima e dopo la raccomandazione alla
carità, quasi a dire che l’umiltà custodisce e alimenta la carità: «Per
la grazia che mi è stata concessa, io dico a ciascuno di voi: non
valutatevi più di quanto è conveniente valutarsi, ma valutatevi in
maniera da avere di voi una giusta valutazione, ciascuno secondo la
misura di fede che Dio gli ha dato […]. Abbiate i medesimi sentimenti
gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi
invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi» (Rm
12,3.16).
Il termine usato da Paolo al v. 3 si
può rendere con «sobrietà-umiltà»: è la povertà evangelica che nasce
dall’umiltà e si esprime nella sobrietà. Il discepolo di Cristo non è
povero come lo era Diogene: poverissimo e superbissimo. Il povero
secondo il vangelo è chi, consapevole della propria miseria, si sente
avvolto dalla misericordia del suo Signore. E questo gli basta. Perciò
la povertà materiale non è la reazione sdegnosa e arrabbiata, intrisa di
odio contro la classe borghese; non è neanche (o almeno non solo)
dettata dal desiderio, pur legittimo e anzi doveroso, di salvaguardare
le risorse del creato. La povertà del cristiano è «cristiana» quando è
ispirata dal desiderio di conformazione a Cristo, il quale «da ricco che
era si è fatto povero per noi» (2Cor 8,9).
In sostanza la povertà evangelica è
voluta dalla fede. È infatti la fede nell’amore totale, singolare,
incondizionato del Signore per me che mi dà il coraggio del distacco; il
distacco poi porta alla libertà, e la li-bertà genera la gioia. In altre
parole: solo la fede nell’amore del Signore mi libera dalla seduzione
degli idoli, mi strappa alla cecità delle mie illusioni. Il denaro, il
piacere, il successo luccicano come miraggi che abbagliano, ma poi
ineluttabilmente deludono: promettono vita, ma procurano morte. Il
Signore invece mi chiede di morire al mio io falso ed egoista, per farmi
gustare la vita vera, una vita piena, autentica, luminosa. Se il
discepolo «sa» che il Maestro lo ama, la sua richiesta di lasciare tutto
non gli giungerà ostile: la rinuncia ai beni, piccoli e precari, è
infatti la condizione per riceve il Bene, quello vero, grande, assoluto.
Quando il discepolo si rende conto di aver trovato il suo tesoro
nell’amore del suo Signore - «la tua grazia vale più della vita», recita
il salmo - allora si convince che quella scoperta ha automaticamente
svalutato i suoi mediocri tesorucci che gli appariranno per quello che
realmente sono: perle finte, cianfrusaglie taroccate, droghe
«stupefacenti», ma alienanti, devastanti. Allora la rinuncia, per quanto
radicale, non gli risulterà crudele: né esorbitante né impossibile.
Solo l’amore vero - un amore totale e
totalitario - può spegnere la sete di infinito che ci brucia in cuore;
solo l’amore del Signore pacifica e appaga: e nella nuova vita non ci si
annoia mai!
La via della castità
Per la sfida della cultura
edonistica, la risposta del vangelo, richiamata da s. Paolo, è la
castità. Nella grande sezione parenetica della Lettera ai Romani si
trova il passo seguente: «La notte è avanzata, il giorno è vicino.
Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della
luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno
giorno: non in mezzo a gozzoviglie e
ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie.
Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei
suoi desideri» (Rm 13,12-14).
Va innanzitutto rifondata la
motivazione cristologica della castità cristiana. È interessante notare
che nel Nuovo Testamento quando si parla della purezza e dell’impurità,
si adotta il linguaggio dei moralisti pagani, per esempio degli Stoici,
che esaltavano il dominio di sé, ma solo in funzione dell’autocontrollo,
e quindi della signoria sul proprio istinto. Per s. Paolo però, nella
catechesi di 1Cor 6,12-20, tutto discende dall’evento della risurrezione
di Cristo, dal sacramento del battesimo, dal compimento escatologico
della risurrezione dei nostri corpi mortali. «Non sapete -afferma - che
i vostri corpi sono membra di Cristo […] e che voi non appartenente a
voi stessi? Il corpo non è per l’impudicizia ma per il Signore» (1Cor
6,15.19.13). La motivazione a favore della enkrateia (dominio di
sé) è rovesciata, rispetto all’etica pagana: la cosa più importante non
è che io abbia il dominio di me stesso, ma che io ceda questo dominio a
Cristo risorto, in modo da poter affermare con la castità del cuore e
del corpo che «Gesù è il Signore!».
Così la profezia della castità
evangelica si fa di per se stessa critica nei confronti dell’idolatria
edonistica; l’annuncio si fa denuncia. È necessario mostrare che «la
castità è una virtù sociale» (Lacordaire).
Occorre riconoscere che la presenza
dei cristiani in questo settore è stata particolarmente debole o
latitante in questi decenni: timore di ricadere nel moralismo di stampo
puritano degli anni precedenti? sudditanza di fronte alla nuova
mentalità permissiva? sprovvedutezza di fronte ai potenti mezzi di
comunicazione sociale? titubanza ad impegnarsi in un campo in cui si è
considerati irrimediabilmente superati? scarsità di argomenti adeguati?
In positivo, è urgente mostrare che la castità cristiana non fa amare di
meno, semmai fa amare di più perché l’agape non spegne l’eros ma lo
tiene in quota, perché sana in radice la voglia malsana di possedere e
di usare l’altro. In una atmosfera erotizzata ad alto tasso di
inquinamento, occorre for-mare nuovi cantori di un nuovo «cantico dei
cantici», che narri le sante inquietudini e le inesprimibili tenerezze
dell’eros divino. C’è urgente bisogno di giovani capaci di volare alto e
di aiutare a volare tanti giovani compagni, per «risplendere come stelle
nel cielo, tenendo alta la parola di vita» (cf Fil 2,15s).
La via dell’obbedienza
Nella Lettera ai Romani si parla più
volte di «obbedienza» e di «li-bertà». Ricordiamo innanzitutto Romani
5,19: «Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono
stati costituiti peccatori, così anche per l`obbedienza di uno solo
tutti saranno costituiti giusti».
Se l’obbedienza di Cristo ci ha
liberati dal peccato, non ci resta che seguire la strada dell’obbedienza
a Cristo per diventare uomini vera-mente liberi: «Non sapete voi che, se
vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per obbedirgli, siete
schiavi di colui al quale servite: sia del peccato che porta alla morte,
sia dell`obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio,
perché voi eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a
quell`insegnamento che vi è stato trasmesso e così, liberati dal
peccato, siete diventati servi della giustizia. […]. Ma quale frutto
raccoglievate allora da cose di cui ora vi vergognate? Infatti il loro
destino è la morte. Ora invece, liberati dal peccato e fatti servi di
Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santificazione e come
destino avete la vita eterna. Perché il salario del peccato è la morte;
ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore» (Rm 6,
16-23).
Dal cuore perfettamente filiale di
Gesù, che trova il suo nutrimento nel fare la volontà del Padre (Gv
4,34) e che può dire con tutta verità: «Io faccio sempre quello che a
Lui piace» (Gv 8,29), ricaviamo una grande lezione: se non c'è salvezza
senza obbedienza, non c'è obbedienza senza amore. Scriveva padre
Congar: «La nostra vita filiale sarà la nostra obbedienza, la nostra
ricerca di conformità, fatta di amore e di fedeltà, alla volontà di
Dio». In altre parole: al Padre che vede in me l'immagine dell’unigenito
e mi dice: «Tu sei mio Figlio», non c'è che la risposta del Figlio: «Tu
sei mio Padre, io sono pronto a fare la tua volontà». Se dunque «so in
chi credo», se ho scoperto che Dio mi è Padre, allora leggerò la sua
volontà sempre e solo non come il capriccio di un despota, ma come
volontà di un amore totale e irreversibile. Se mi fido di questo amore,
se sono convinto che Dio ama me più di me, credo pure che egli sa e
vuole prima e più di me quello che è il meglio per me. È tutta questione
d'amore.
Se invece non credo sul serio nella
provvidenza sapiente di Dio, allora vivrò sempre nella paura e non
riuscirò mai a credere veramente che «tutto concorre al bene di coloro
che amano Dio» (Rm 8,29). Se non credo per davvero che l'amore di Dio è
più forte della morte al punto da ridare la vita al Figlio obbediente,
allora non accetterò mai di morire ai miei progetti e cercherò di darmi
vita da solo facendomi signore di me stesso. Ma così finisco per
cacciarmi in un vicolo cieco...
Situazioni di obbedienza
Passiamo ora a vedere tre «esercizi»
concreti di obbedienza a cui nessun cristiano può sottrarsi.
La prima obbedienza cui ogni
uomo è chiamato è l'accettazione di sé. Ognuno di noi viene al mondo con
dei doni e dei limiti. L'accettazione il più possibile tranquilla di sé,
con tutti i doni e tutti i limiti, è un atto di obbedienza e di
saggezza. È inutile recriminare e fare le lagne con il Signore perché si
è fatti in un certo modo: «O uomo, tu chi sei per disputare con Dio?
Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: “Perché mi hai
fatto così?”» (Rm 9,20). Un giovane che si rattrista di non avere la
salute di Marco o l'intelligenza di Tommaso o il fascino di Roberta deve
camminare ancora molto, prima di sognare di essere pronto a fare la
volontà di Dio in situazioni difficili. Il primo sì che si è chiamati a
dire al Padre è il sì a se stessi.
Un altro «luogo» che non si
può dimenticare come luogo normale di adesione alla volontà di Dio è
l'adempimento umile e responsabile del proprio dovere quotidiano. I
santi possedevano in questo un intuito sicuro. S. Filippo Neri diceva:
«È molto più da stimarsi uno che vive una vita ordinaria
nell'obbedienza, di un altro il quale di sua propria volontà fa gran
penitenza». Il quotidiano, con le sue monotonie e i suoi duri
imprevisti, il quotidiano oscuro e spesso pesante, il quotidiano vissuto
nella fedeltà e insieme nella disponibilità alle sorprese della grazia:
questo è il luogo preferito dal Signore per allenarci a compiere la sua
volontà. Un cristiano che non obbedisce con gioiosa adesione a questa
volontà feriale del Signore, e non sa guardare in luce di fede le
carenze dell’ambiente in cui vive (famiglia, parrocchia ecc.), non può
illudersi di poter un giorno amare con cuore maturo le persone che gli
saranno affidate.
C'è infine un campo aperto in cui la
volontà del Signore ci raggiunge con assoluta evidenza, ed è il campo
della carità reciproca. La cosa è talmente chiara che il vangelo la
riassume come il comandamento tipico del Maestro: «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv
15,12). Su questa volontà di Dio non si possono avere dubbi né ci si può
trincerare dietro comodi alibi: se nella comunità si riscontrano
inadempienze e lentezze, se le realizzazioni del comandamento dell'amore
risultano sempre imperfette e distorte, se sono scarse le condizioni per
una comunità ottimale, non sarà questo un motivo per donarsi di più e
far crescere il livello della carità? Diceva s. Giovanni della Croce:
«Dove non c'è amore, metti amore e troverai amore». Prima o poi ci sarà
chiesto più di una volta un amore capace di dare la vita e ci verrà
sempre domandato di essere costruttori di comunità in cui regnino
l'amore e la carità, ma come sarà possibile questo se non ci
sottoporremo a quell'allenamento talvolta faticoso ma ineludibile (se
non si vuole poi perdere la ‘partita’) che ci richiede la vita
quotidiana con le sue severe esigenze di superare simpatie e antipatie,
di spezzare le catene dorate dei nostri legami ristretti, di non esser
selettivi nelle amicizie e nei rapporti reciproci?
Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini
Via IV Novembre, 35 - 47900 Rimini
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