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Più
volte nei vent’anni intercorsi dalla pubblicazione della Mulieris
dignitatem mi sono misurata con il tema del rapporto donna-Chiesa.
Aggiungo pure, per onestà, che si tratta di un tema che ho avvertito
anche prima, già all’inizio dei miei studi teologici. Né era possi-bile
eluderlo, visto che nell’anno accademico 1968-1969 le donne iscritte
nelle facoltà di teologia eravamo davvero poche. Si avvertiva a pelle
l’estraneità di luoghi non pensati per le donne. Per colleghi e docenti
eravamo una presenza “strana”. Qualche rotella girava diversamente nel
nostro cervello. Ed era vero. Chiedevamo alla Chiesa di condividere,
benché donne, un sapere sin lì formulato e fruito solo da uomini. Non si
sapeva bene che cosa ne avremmo
fatto. Personalmente allora non
pensavo davvero a una professionalità teologica di ricercatrice o di
docente. Ero paga di accedere alla fede in modo riflesso.
Quegli anni tuttavia correvano veloci
e con essi la domanda delle donne, la ricerca di un rap-porto diverso e
nuovo tra donne e Chiesa. Ci avvalorava nella richiesta proprio quel
Vaticano II della cui svolta eravamo un segno tangibile. Senza il
Concilio, non dimentichiamolo, le cose di cui parliamo, forse, non le
avremmo né dette né pensate. E lo dico sia guardando alle donne sia
guardando alla Chiesa.
Domanda di visibilità
Non si potrebbe capire la Mulieris
dignitatem senza ciò che
lha preceduta, a livello sociale come a livello ecclesiale. A livello
sociale – e il movimento era plane-tario – il neofemminismo riprendeva
fiato polemico e graffiante rivendicando per le donne parità di diritti.
In questione era il ruolo della donna nella famiglia e nella società. I
nodi nel privato riguardavano l’erosione del modello patriarcale; nel
pubblico il diritto al lavoro, senza discriminazioni economiche e
professionali.
Non si può dire che la stagione della
Woman’s Liberation sia stata “regolata”. Gli eccessi indubitabili
erano d’altra parte correlati alle difficoltà delle donne nel secondo
dopoguerra. Capaci di gestire l’economia di guerra; attive nell’uno e
nell’altro fronte bellico, si erano ritrovate di nuovo e soltanto
confinate nei ruoli tradizionali, come se l’esperienza acquisita potesse
essere semplicemente cancellata. A ciò si aggiunga la crescente e sempre
più qualificata scolarizzazione.
In tutta coerenza le donne posero
anche alla Chiesa la questione del loro farne parte. Se è vero - e lo è
- che nel divenire cristiani non c’è mai stata una discriminazione
sessuale, a maggior ragione le donne chiedevano che fossero oltrepassate
le incongruenze - comuni per altro alla cultura occidentale - che
assegnavano alle donne ruoli familiari e privati e agli uomini ruoli
professionali e pubblici.
La svolta conciliare, d’altra parte,
suggeriva con ottimismo di recepire le parole profetiche di Papa
Giovanni, quelle con cui l’ingresso della donna nella vita pubblica
veniva salutato come un “segno dei tempi”.
La Pacem
in terris aveva suscitato
non pochi entusiasmi, come pure il «Messaggio del Concilio alle donne».
Ed era la prima volta. Si capisce, insomma, come Paolo VI prima,
Giovanni Paolo II poi, abbiano dovuto misurarsi con problematiche nuove.
Le donne infatti nella loro tensione emancipatoria non si fermavano ai
diritti civili, chiedevano alle Chiese di recepire anch’esse la loro
domanda di visibilità e protagonismo.
In particolare, come è stato scritto,
l’emancipazione perseguita investiva sia la sfera sessuale che quella
politica e religiosa. Le donne chiedevano la fine di ogni
discriminazione a partire dal sesso, ma anche il riconoscimento della
loro autonomia, il diritto di disporre di sé e di proporsi
autorevolmente, non meno degli uomini, sul piano politico, professionale
e religioso.
Le risposte furono diverse --sia a
livello politico che a livello ecclesiale - In particolare, mi riferisco
al fatto che le Chiese cristiane diedero risposte diversificate
nell’arco che dagli anni ’60 va sino agli anni ’90. La Chiesa cattolica
ha fatto propria la domanda di partecipazione ecclesiale delle donne,
ancorandola, però, al solo statuto battesimale. Il faticoso percorso che
dalla Inter insigniores va sino al «Responsum» al «Dubium»
sottoposto alla Congregazione della dottrina della Fede dopo la
pubblicazione di Ordinatio sacerdotalis, ha escluso - a partire
dalla traditio perpetuo serbata - la legittimità stessa di un
sacerdozio delle donne. Per contro ne ha accolto le domande circa una
cittadinanza piena nella società e nella stessa Chiesa.
«Mulieris dignitatem»:
momento catalizzante
La Mulieris
dignitatem sta a mezzo di
questo percorso. Come ho scritto più volte in questi anni, la sua
maggiore originalità sta nell’antropologia proposta, antropologia
iconica, che legge la coppia umana, uomo-donna, creata ad immagine e
somiglianza delle divine Persone e proprio perciò ne indica la
costitutiva reciprocità.
Lo dico, senza minimizzare il fatto
che ci si trova, per la prima volta, dinanzi a un documento che mette a
tema la questione donna, non nella parzialità di un problema, ma nella
sua interezza. Come ho più volte rilevato, la visione di Giovanni Paolo
II fa tabula rasa di pregiudizi radicati. Si pensi, ad esempio,
alla questione dell’attribuzione ad Eva della responsabilità della colpa
originaria originante. La Mulieris
dignitatem afferma senza
mezzi termini che la colpa è di entrambi i protoparenti.
Né meno importanti sono i paragrafi,
davvero ispirati, in cui il Papa declina il rapporto di Gesù con le
donne, recependo ampiamente la ricerca portata avanti dalle donne a
livello biblico.
La tesi di Giovanni Paolo II, lo
sappiamo, è quella del “genio” femminile, della marcia in più che è
propria delle donne a ragione della loro indole specifica. Anche per ciò
che concerne questo particolare problema il Papa respira il dibattito
culturale allora in atto e lo scioglie, non diversamente da altri,
fondando nel rapporto nativo donna-vita la peculiarità, la specificità
femminile. Per Giovanni Paolo II le donne hanno naturalmente qualità
biofile. E, un po’ più scettica di lui circa la nativa “bontà delle
donne”, mi sono permessa d’additarlo come l’ultimo “menestrello”,
l’ultimo “cavalier cortese”. In effetti, egli assume a misura della
donna «Nostra Donna». L’esaltazione di lei porta con sé l’esaltazione
del femminile tout court. Le donne concrete, però, per usare un
antico adagio, non sono né Eva né Maria, ma altro ancora. Sono quello
che sono nella complessità delle situazioni, della cultura, delle doti
proprie, delle scelte operate.
Insomma, se Giovanni Paolo II sposa a
livello teoretico il “femminismo della differenza” e a livello sociale
il “femminismo egalitario”, a livello teologico la contemplazione di
Maria lo induce a ricondurre a lei le donne con una esaltazione del loro
genio e della loro funzione che ha nella Theotokos il modello
archetipale.
Proprio l’adesione al femminismo
egalitario sul piano dei diritti relativi al lavoro, alla pari
retribuzione, senza discriminazioni; proprio la consapevolezza sto-rica
della rimozione delle donne, del loro genio, della loro produzione, lo
porta nel 1995, scriven-do loro alla vigilia della Conferenza di
Pechino, a riconoscerle, al pari degli uomini, come produttrici di
cultura.
La mistica della femminilità ha sin
lì chiuso la donna nel solo circolo produttivo della maternità. È
incalcolabile il passo in avanti legato a quest’ultima affermazione:
produrre cultura!
Va ricordato come tanto la
Mulieris dignitatem
che l’esortazione
post-sinodale Christifideles laici avevano riconosciuto il ruolo
proprio delle donne nell’elaborazione di una cultura nuova. Questa
cultura restava però iscritta nelle qualità biofile, nel rapporto
donna-vita che le donne dovevano testimoniare e promuovere così
additando un modello nuovo.
La Lettera
alle donne, scritta alla
vigilia della conferenza di Pechino, va oltre perché accomuna uomini e
donne. La disgiunzione post-lapsaria, che ha iscritto il maschio nella
fatica del lavoro e la femmina nel travaglio della maternità, viene
sanata; diventa comune a entrambi, all’uomo e alla donna insieme, e
lavorare e gene-rare. Produrre cultura - ricorda il Papa - altro non è
che coltivare. A entrambi viene consegnato il mondo perché lo coltivino
e lo adeguino al progetto di Dio.
Il rapporto
donne-Chiesa
Si capisce allora come nei quarant’anni
ormai passati dalla fine del Concilio e nei venti appena trascorsi dalla
Mulieris dignitatem la ricerca di un rinnovato rapporto
donna-Chiesa sia stata dura, complessa, ma non priva di esiti
confortanti. Ne è un segno innanzitutto la qualità - e, direi, l’ovvietà
- della presenza delle donne nella Chiesa.
Personalmente amo molto la teologia
del triplice munus, quella cioè che legge il battezzato crismato
eucaristizzato, nello Spirito, conformato a Cristo re sacer-dote
profeta.
Trovo che se si vuol cogliere con
mano il rapporto nuovo tra la Chiesa e le donne occorre prendere atto di
tutto ciò che è cambiato a livello di esercizio del munus
profetico, del munus sacerdotale, del munus regale.
L’acquisita autorevolezza delle donne
sul piano della Parola è ormai irreversibile. Le donne accedono alla
Scrittura, la studiano, l’insegnano, la meditano, la ripropongono nella
sua forza vitale, spirituale. E, più in generale, le donne studiano,
ricercano, insegnano. Non c’è ambito del sapere da cui sono escluse. E a
tutto ciò corrispondono ministeri di fatto quali, appunto,
l’insegnamento nei suoi diversi livelli. Abbiamo donne catechiste –
mini-stero antichissimo -, donne docenti IRC, donne che esercitano un
magistero di docenza in contesti accademici o pastorali in ambiti
disciplinari diversissimi. I nuovi areopaghi (stampa, televisione,
internet) le vedono attive con competenza. E poiché il munus
profetico abbraccia ambiti esperienziali, testimoniali, anche qui
occorre dire che di donne credenti che professano con consapevolezza e
rigore la propria fede ne abbiamo tante, laiche e religiose.
Una competenza nuova caratterizza il
munus sacerdotale. L’eredità della Sacrosanctum concilium
investe anche le battezzate che vivono con altra consapevole
partecipazione la loro soggettualità liturgica ed esercitano nella
liturgia ministeri diversi (lettore, salmista, cantore, commentatore,
ministro straordinario…) secondo quanto viene loro richiesto. È vero che
queste ministerialità --cui spesso si unisce un certo servizio
all’altare - non hanno rice-vuto una codificazione canonica. Ma forse è
meglio così. Questa almeno è la mia personale opinione. Si aggiunga la
ricerca delle donne in ambito liturgico, il loro insegnamento, la loro
presenza nelle Commissioni liturgiche diocesane e nazionali. Si aggiunga
la creatività che, se richieste, le donne apportano. Sappiamo che
nell’attuazione della riforma liturgica seguita al Vaticano II le donne
sono state presenti: nello studio delle fonti, nell’elaborazione dei
testi, nella redazione di nuove eucologie e dei benedizionali.
Una competenza nuova caratterizza le
donne anche per ciò che concerne il munus regale. Si moltiplicano
figure di autorità al femminile, dalla direzione spirituale, alla guida
di uffici diocesani e nazionali, alla responsabilità di parrocchie o
comunità prive di presbiteri che ne abbiano in permanenza assegnata la
cura pastorale.
Abbiamo un numero crescente di donne
nelle curie episcopali, nella curia romana, nelle strut-ture sinodali
(consigli pastorali diocesani e regionali). Abbiamo un incremento di
donne che ricoprono incarichi un tempo riservati a uomini ordinati,
quali l’essere rettore, decano, direttore di una facoltà o di
un’accademia o di un istituto teologico.
Lungo è il cammino
Capisco bene come questo mio dire
possa apparire apologetico. In verità so bene quanta strada ci stia
ancora dinanzi, e come in ultima analisi la questione chiave sia quella
del riconoscere, ma davvero, uomini e donne come collaboratori in
reciprocità nella famiglia, nella società, nella Chiesa.
Se molto, moltissimo si è fatto,
tanto ancora resta da fare. A volte l’impressione è che rimosso
formalmente il pregiudizio anti-donna, ne sia stato introdotto un altro,
quello della diffidenza nei confronti di chi ricerca ancora e lotta
perché - per usare l’espressione fatta propria da Giovanni Paolo II - si
passi dalla splendida teoria alla pratica.
L’impressione, invece, è che non
soltanto alla fine la splendida teoria non sia tale per tutti, ma che,
in aggiunta, se proprio bisogna fare spazio alle donne, è meglio
sceglierle in un certo modo. Non importa poi che siano lineari e
coerenti, l’importante è che sposino certe tesi, che mettano a servizio
di queste la loro cultura e il loro charme, come pure la loro
rilevanza sociale. Insomma, alla fine, bisogna che niente veramente
cambi. Di donne così, paghe della loro visibilità, dettata da situazioni
particolari o sociali, la Chiesa ne ha sempre avute. Ma a farla crescere
non sono queste eccezioni. La Chiesa cresce, se crescono davvero tutte
le donne, nella coscienza e nel servizio legato alla loro dignità
battesimale.
Insomma, donne autenticamente
consapevoli della loro condizione credente; donne animate dalla sincera
volontà di collaborare con gli uomini e con le donne, dentro e fuori la
Chiesa; donne impegnate nella ricerca e nella realizzazione di un
rapporto nuovo nel segno della partner-ship, della
collaborazione, della mutua intesa nel lungo cammino che ancora ci
attende.
Non è facile convertirsi a ciò che la
Chiesa è: popolo di Dio, corpo e sposa di Cristo, sacramento di
salvezza. Possa lo Spirito che mai cessa di purificare e cosmizzare la
Chiesa renderci gli uni e gli altri testimoni dell’amore trinitario.
Allora davvero avremo instaurato un rapporto nuovo, quando ci saremo
resi, uomini e donne, trasparenza di ciò che Dio stesso è nella
circolazione amorosa e reciproca di Padre Figlio Spirito.
Cettina Militiello
Pontificia Facoltà Teologica Marianum
Viale diVilla Pamphili, 20 int.13/A - 00152 Roma
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