n. 5 maggio 2008

 

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Donna e Chiesa
Alla ricerca di un nuovo rapporto

di Cettina Militello

 

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Più volte nei vent’anni intercorsi dalla pubblicazione della Mulieris dignitatem mi sono misurata con il tema del rapporto donna-Chiesa. Aggiungo pure, per onestà, che si tratta di un tema che ho avvertito anche prima, già all’inizio dei miei studi teologici. Né era possi-bile eluderlo, visto che nell’anno accademico 1968-1969 le donne iscritte nelle facoltà di teologia eravamo davvero poche. Si avvertiva a pelle l’estraneità di luoghi non pensati per le donne. Per colleghi e docenti eravamo una presenza “strana”. Qualche rotella girava diversamente nel nostro cervello. Ed era vero. Chiedevamo alla Chiesa di condividere, benché donne, un sapere sin lì formulato e fruito solo da uomini. Non si sapeva bene che cosa ne avremmo

fatto. Personalmente allora non pensavo davvero a una professionalità teologica di ricercatrice o di docente. Ero paga di accedere alla fede in modo riflesso.

Quegli anni tuttavia correvano veloci e con essi la domanda delle donne, la ricerca di un rap-porto diverso e nuovo tra donne e Chiesa. Ci avvalorava nella richiesta proprio quel Vaticano II della cui svolta eravamo un segno tangibile. Senza il Concilio, non dimentichiamolo, le cose di cui parliamo, forse, non le avremmo né dette né pensate. E lo dico sia guardando alle donne sia guardando alla Chiesa.

Domanda di visibilità

Non si potrebbe capire la Mulieris dignitatem senza ciò che lha preceduta, a livello sociale come a livello ecclesiale. A livello sociale – e il movimento era plane-tario – il neofemminismo riprendeva fiato polemico e graffiante rivendicando per le donne parità di diritti. In questione era il ruolo della donna nella famiglia e nella società. I nodi nel privato riguardavano l’erosione del modello patriarcale; nel pubblico il diritto al lavoro, senza discriminazioni economiche e professionali.

Non si può dire che la stagione della Woman’s Liberation sia stata “regolata”. Gli eccessi indubitabili erano d’altra parte correlati alle difficoltà delle donne nel secondo dopoguerra. Capaci di gestire l’economia di guerra; attive nell’uno e nell’altro fronte bellico, si erano ritrovate di nuovo e soltanto confinate nei ruoli tradizionali, come se l’esperienza acquisita potesse essere semplicemente cancellata. A ciò si aggiunga la crescente e sempre più qualificata scolarizzazione.

In tutta coerenza le donne posero anche alla Chiesa la questione del loro farne parte. Se è vero - e lo è - che nel divenire cristiani non c’è mai stata una discriminazione sessuale, a maggior ragione le donne chiedevano che fossero oltrepassate le incongruenze - comuni per altro alla cultura occidentale - che assegnavano alle donne ruoli familiari e privati e agli uomini ruoli professionali e pubblici.

La svolta conciliare, d’altra parte, suggeriva con ottimismo di recepire le parole profetiche di Papa Giovanni, quelle con cui l’ingresso della donna nella vita pubblica veniva salutato come un “segno dei tempi”.

La Pacem in terris aveva suscitato non pochi entusiasmi, come pure il «Messaggio del Concilio alle donne». Ed era la prima volta. Si capisce, insomma, come Paolo VI prima, Giovanni Paolo II poi, abbiano dovuto misurarsi con problematiche nuove. Le donne infatti nella loro tensione emancipatoria non si fermavano ai diritti civili, chiedevano alle Chiese di recepire anch’esse la loro domanda di visibilità e protagonismo.

In particolare, come è stato scritto, l’emancipazione perseguita investiva sia la sfera sessuale che quella politica e religiosa. Le donne chiedevano la fine di ogni discriminazione a partire dal sesso, ma anche il riconoscimento della loro autonomia, il diritto di disporre di sé e di proporsi autorevolmente, non meno degli uomini, sul piano politico, professionale e religioso.

Le risposte furono diverse --sia a livello politico che a livello ecclesiale - In particolare, mi riferisco al fatto che le Chiese cristiane diedero risposte diversificate nell’arco che dagli anni ’60 va sino agli anni ’90. La Chiesa cattolica ha fatto propria la domanda di partecipazione ecclesiale delle donne, ancorandola, però, al solo statuto battesimale. Il faticoso percorso che dalla Inter insigniores va sino al «Responsum» al «Dubium» sottoposto alla Congregazione della dottrina della Fede dopo la pubblicazione di Ordinatio sacerdotalis, ha escluso - a partire dalla traditio perpetuo serbata - la legittimità stessa di un sacerdozio delle donne. Per contro ne ha accolto le domande circa una cittadinanza piena nella società e nella stessa Chiesa.

«Mulieris dignitatem»: momento catalizzante

La Mulieris dignitatem sta a mezzo di questo percorso. Come ho scritto più volte in questi anni, la sua maggiore originalità sta nell’antropologia proposta, antropologia iconica, che legge la coppia umana, uomo-donna, creata ad immagine e somiglianza delle divine Persone e proprio perciò ne indica la costitutiva reciprocità.

Lo dico, senza minimizzare il fatto che ci si trova, per la prima volta, dinanzi a un documento che mette a tema la questione donna, non nella parzialità di un problema, ma nella sua interezza. Come ho più volte rilevato, la visione di Giovanni Paolo II fa tabula rasa di pregiudizi radicati. Si pensi, ad esempio, alla questione dell’attribuzione ad Eva della responsabilità della colpa originaria originante. La Mulieris dignitatem afferma senza mezzi termini che la colpa è di entrambi i protoparenti.

Né meno importanti sono i paragrafi, davvero ispirati, in cui il Papa declina il rapporto di Gesù con le donne, recependo ampiamente la ricerca portata avanti dalle donne a livello biblico.

La tesi di Giovanni Paolo II, lo sappiamo, è quella del “genio” femminile, della marcia in più che è propria delle donne a ragione della loro indole specifica. Anche per ciò che concerne questo particolare problema il Papa respira il dibattito culturale allora in atto e lo scioglie, non diversamente da altri, fondando nel rapporto nativo donna-vita la peculiarità, la specificità femminile. Per Giovanni Paolo II le donne hanno naturalmente qualità biofile. E, un po’ più scettica di lui circa la nativa “bontà delle donne”, mi sono permessa d’additarlo come l’ultimo “menestrello”, l’ultimo “cavalier cortese”. In effetti, egli assume a misura della donna «Nostra Donna». L’esaltazione di lei porta con sé l’esaltazione del femminile tout court. Le donne concrete, però, per usare un antico adagio, non sono né Eva né Maria, ma altro ancora. Sono quello che sono nella complessità delle situazioni, della cultura, delle doti proprie, delle scelte operate.

Insomma, se Giovanni Paolo II sposa a livello teoretico il “femminismo della differenza” e a livello sociale il “femminismo egalitario”, a livello teologico la contemplazione di Maria lo induce a ricondurre a lei le donne con una esaltazione del loro genio e della loro funzione che ha nella Theotokos il modello archetipale.

Proprio l’adesione al femminismo egalitario sul piano dei diritti relativi al lavoro, alla pari retribuzione, senza discriminazioni; proprio la consapevolezza sto-rica della rimozione delle donne, del loro genio, della loro produzione, lo porta nel 1995, scriven-do loro alla vigilia della Conferenza di Pechino, a riconoscerle, al pari degli uomini, come produttrici di cultura.

La mistica della femminilità ha sin lì chiuso la donna nel solo circolo produttivo della maternità. È incalcolabile il passo in avanti legato a quest’ultima affermazione: produrre cultura!

Va ricordato come tanto la Mulieris dignitatem che l’esortazione post-sinodale Christifideles laici avevano riconosciuto il ruolo proprio delle donne nell’elaborazione di una cultura nuova. Questa cultura restava però iscritta nelle qualità biofile, nel rapporto donna-vita che le donne dovevano testimoniare e promuovere così additando un modello nuovo.

La Lettera alle donne, scritta alla vigilia della conferenza di Pechino, va oltre perché accomuna uomini e donne. La disgiunzione post-lapsaria, che ha iscritto il maschio nella fatica del lavoro e la femmina nel travaglio della maternità, viene sanata; diventa comune a entrambi, all’uomo e alla donna insieme, e lavorare e gene-rare. Produrre cultura - ricorda il Papa - altro non è che coltivare. A entrambi viene consegnato il mondo perché lo coltivino e lo adeguino al progetto di Dio.

Il rapporto donne-Chiesa

Si capisce allora come nei quarant’anni ormai passati dalla fine del Concilio e nei venti appena trascorsi dalla Mulieris dignitatem la ricerca di un rinnovato rapporto donna-Chiesa sia stata dura, complessa, ma non priva di esiti confortanti. Ne è un segno innanzitutto la qualità - e, direi, l’ovvietà - della presenza delle donne nella Chiesa.

Personalmente amo molto la teologia del triplice munus, quella cioè che legge il battezzato crismato eucaristizzato, nello Spirito, conformato a Cristo re sacer-dote profeta.

Trovo che se si vuol cogliere con mano il rapporto nuovo tra la Chiesa e le donne occorre prendere atto di tutto ciò che è cambiato a livello di esercizio del munus profetico, del munus sacerdotale, del munus regale.

L’acquisita autorevolezza delle donne sul piano della Parola è  ormai irreversibile. Le donne accedono alla Scrittura, la studiano, l’insegnano, la meditano, la ripropongono nella sua forza vitale, spirituale. E, più in generale, le donne studiano, ricercano, insegnano. Non c’è ambito del sapere da cui sono escluse. E a tutto ciò corrispondono ministeri di fatto quali, appunto, l’insegnamento nei suoi diversi livelli. Abbiamo donne catechiste – mini-stero antichissimo -, donne docenti IRC, donne che esercitano un magistero di docenza in contesti accademici o pastorali in ambiti disciplinari diversissimi. I nuovi areopaghi (stampa, televisione, internet) le vedono attive con competenza. E poiché il munus profetico abbraccia ambiti esperienziali, testimoniali, anche qui occorre dire che di donne credenti che professano con consapevolezza e rigore la propria fede ne abbiamo tante, laiche e religiose.

Una competenza nuova caratterizza il munus sacerdotale. L’eredità della Sacrosanctum concilium investe anche le battezzate che vivono con altra consapevole partecipazione la loro soggettualità liturgica ed esercitano nella liturgia ministeri diversi (lettore, salmista, cantore, commentatore, ministro straordinario…) secondo quanto viene loro richiesto. È vero che queste ministerialità --cui spesso si unisce un certo servizio all’altare - non hanno rice-vuto una codificazione canonica. Ma forse è meglio così. Questa almeno è la mia personale opinione. Si aggiunga la ricerca delle donne in ambito liturgico, il loro insegnamento, la loro presenza nelle Commissioni liturgiche diocesane e nazionali. Si aggiunga la creatività che, se richieste, le donne apportano. Sappiamo che nell’attuazione della riforma liturgica seguita al Vaticano II le donne sono state presenti: nello studio delle fonti, nell’elaborazione dei testi, nella redazione di nuove eucologie e dei benedizionali.

Una competenza nuova caratterizza le donne anche per ciò che concerne il munus regale. Si moltiplicano figure di autorità al femminile, dalla direzione spirituale, alla guida di uffici diocesani e nazionali, alla responsabilità di parrocchie o comunità prive di presbiteri che ne abbiano in permanenza assegnata la cura pastorale.

Abbiamo un numero crescente di donne nelle curie episcopali, nella curia romana, nelle strut-ture sinodali (consigli pastorali diocesani e regionali). Abbiamo un incremento di donne che ricoprono incarichi un tempo riservati a uomini ordinati, quali l’essere rettore, decano, direttore di una facoltà o di un’accademia o di un istituto teologico.

Lungo è il cammino

Capisco bene come questo mio dire possa apparire apologetico. In verità so bene quanta strada ci stia ancora dinanzi, e come in ultima analisi la questione chiave sia quella del riconoscere, ma davvero, uomini e donne come collaboratori in reciprocità nella famiglia, nella società, nella Chiesa.

Se molto, moltissimo si è fatto, tanto ancora resta da fare. A volte l’impressione è che rimosso formalmente il pregiudizio anti-donna, ne sia stato introdotto un altro, quello della diffidenza nei confronti di chi ricerca ancora e lotta perché - per usare l’espressione fatta propria da Giovanni Paolo II - si passi dalla splendida teoria alla pratica.

L’impressione, invece, è che non soltanto alla fine la splendida teoria non sia tale per tutti, ma che, in aggiunta, se proprio bisogna fare spazio alle donne, è meglio sceglierle in un certo modo. Non importa poi che siano lineari e coerenti, l’importante è che sposino certe tesi, che mettano a servizio di queste la loro cultura e il loro charme, come pure la loro rilevanza sociale. Insomma, alla fine, bisogna che niente veramente cambi. Di donne così, paghe della loro visibilità, dettata da situazioni particolari o sociali, la Chiesa ne ha sempre avute. Ma a farla crescere non sono queste eccezioni. La Chiesa cresce, se crescono davvero tutte le donne, nella coscienza e nel servizio legato alla loro dignità battesimale.

Insomma, donne autenticamente consapevoli della loro condizione credente; donne animate dalla sincera volontà di collaborare con gli uomini e con le donne, dentro e fuori la Chiesa; donne impegnate nella ricerca e nella realizzazione di un rapporto nuovo nel segno della partner-ship, della collaborazione, della mutua intesa nel lungo cammino che ancora ci attende.

Non è facile convertirsi a ciò che la Chiesa è: popolo di Dio, corpo e sposa di Cristo, sacramento di salvezza. Possa lo Spirito che mai cessa di purificare e cosmizzare la Chiesa renderci gli uni e gli altri testimoni dell’amore trinitario. Allora davvero avremo instaurato un rapporto nuovo, quando ci saremo resi, uomini e donne, trasparenza di ciò che Dio stesso è nella circolazione amorosa e reciproca di Padre Figlio Spirito.

Cettina Militiello
Pontificia Facoltà Teologica Marianum
Viale diVilla Pamphili, 20 int.13/A - 00152 Roma

   

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