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La Lettera apostolica
Mulieris dignitatem pubblicata da Giovanni Paolo II il 15 agosto
1988 s’inquadra esplicitamente nel contesto dell’anno mariano del 1987,
in stretto collegamento con l’enciclica Redemptoris Mater. Questa
fisionomia mariana e mariologica, letta da alcuni commentatori come una
ricchezza, da altri piuttosto come un «vincolo» per quanto si riferisce
alla vocazione e missione delle donne in genere, costituisce in ogni
caso un’indispensabile chiave di lettura per la comprensione del
documento.
La Donna e le donne
L’idea teologica di fondo è infatti
che la donna - anzi, la Donna - si trova al centro dell’evento di
salvezza. «L’invio (del) Figlio, consostanziale al Padre, come uomo
“nato da donna”, costituisce il culminante e definitivo punto dell’autorivelazione
di Dio all’umanità. Questa autorivelazione possiede un carattere
salvifico […]. La donna si trova al cuore di questo evento salvifico»
(n. 3).
Il punto successivo sviluppa questa
idea: «la “pienezza del tempo” manifesta la straordinaria dignità della
“donna”» (n. 4), anzi «l’archetipo della personale dignità della donna»
(n. 5). Alla fine della parte mariologica questa intenzionalità è
riaffermata solennemente e in parte spiegata: la dignità di ogni
persona, e la vocazione corrispondente a questa dignità, trovano la loro
misura ultima nell’unione con Dio.
La donna in questo caso rappresenta
tutto il genere umano, formato da uomini e donne. «D’altra parte, però,
l’evento di Nazaret mette in rilievo una forma di unione col Dio vivo,
che può appartenere solo alla “donna”, Maria: l’unione tra madre e
figlio» (n. 4). Lo stesso termine Theotòkos, cioè Madre di Dio,
riconosciuto a Maria dal Concilio di Efeso, esprime secondo l’enciclica
la particolarità dell’unione con Dio. A questo proposito viene anche
avanzata un’osservazione rilevante sulla soggettualità di Maria (dunque
sul ruolo della soggettualità femminile nella stessa opera di salvezza):
se da una parte questa unione specialissima è pura grazia, dono dello
Spirito, nello stesso tempo Maria con il suo assenso di fede manifesta
la sua libera volontà, la piena partecipazione dell’io all’evento
dell’incarnazione, diventa vero soggetto umano di quello che sta per
compiersi in lei.
Nell’Annunciazione viene sottolineato
inoltre il carattere dialogico (cf n.5), d’altronde caratteristico
dell’Alleanza nel suo insieme.
La Lettera
apostolica pur
collocandosi per quanto riguarda Maria sulla linea della riflessione
postconciliare, sembra accentuare di preferenza l’ancillarità
rispetto alla lettura discepolare, probabilmente a causa delle sue
valenze simboliche. Proprio l’espressione «Serva del Signore» consente
di stabilire un parallelo con Gesù «venuto per servire» e identificato
nella lettura cristiana con il Servo del Signore, di cui parla il
secondo Isaia: quindi sottolinea l’unione della Madre con il Figlio.
Questo, che consente di riaffermare la centralità del servizio nella
vocazione dell’uomo e della donna, è però uno dei nodi problematici
dell’enciclica, la tendenza almeno implicita a porre in parallelo il
rapporto uomo-donna e quello Cristo-Maria. Su Maria vertono in
particolare i nn. 2-5 della Mulieris dignitatem, anche se
innumerevoli sono i richiami nella parte restante.
La parte biblica (nn.6-14) è senza
dubbio la migliore e, a parte il valore teologico-biblico, è anche
storicamente significativa: per la prima volta in un documento ufficiale
appaiono apertamente - e, diremmo, entusiasticamente - recepite in gran
parte le acquisizioni della migliore riflessione teologica al femminile.
Immagine e
somiglianza
La Lettera
prende le mosse dai
racconti di creazione nella Genesi, fondamento dell’antropologia
teologica dei sessi. La creazione dell’essere umano è l’apice del
creato, e l’essere umano è pensato da Dio fin dall’inizio come una
«coppia» unita nell’amore e nella mutua relazionalità. «… dalla
notazione biblica emerge la verità sul carattere personale dell’essere
umano. L’uomo è una persona, in eguale misura l’uomo e la donna:
ambedue, infatti, sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio
personale» (n. 6). A questa coppia umana primordiale è indirizzata la
prima benedizione di Dio, indistinguibile dal suo stesso atto creativo.
Del secondo racconto di creazione si
sottolinea il carattere più mitico e figurato (che tra l’altro ha
determinato una sua maggiore ‘presa’ sull’immaginario, in tutte le
epoche) e il fatto che, nonostante la grande diversità dei racconti, vi
è una sorprendente convergenza nel messaggio teo-antropologico: il
dettaglio mitico della donna creata da una costola dell’uomo, per tanto
tempo letto in chiave subordinazionistica (derivazione come
inferiorità), aiuta a comprendere più profondamente l’eguaglianza di
natura fra l’uomo e la donna, viene posta «come un altro ‘io’, come un
interlocutore accanto all’uomo…» (n. 6)
Nel n. 7, che è di straordinaria
importanza teologica, viene analizzato in particolare il tema
dell’“aiuto”, l’adiutorium simile sibi, che sappiamo a quanti
equivoci di stampo patriarcale e androcentrico sia stato soggetto in
passato. In realtà quel “simile”, che dobbiamo alla traduzione della
Vulgata, verrebbe meglio reso con “corrispondente”; e nel testo
originale significa alla lettera “come contro lui” (ovvero anche: che si
può guardare negli occhi!). Se i Padri della Chiesa, non diversamente
dai rabbini più tradizionalisti, leggevano solo la donna come aiuto
dell’uomo, e non viceversa - per cui la donna finiva con il
ritrovarsi essere aggiunto, complementare, pressoché “supplementare” -,
e l’aiuto veniva riferito quasi solo all’opera di generazione (giacché,
come osserva candidamente sant’Agostino, per qualsiasi altra attività
l’uomo potrebbe essere molto meglio aiutato da un altro uomo), la
Mulieris dignitatem
riconosce e ufficializza
quello che l’esegesi del secolo XX e soprattutto la riflessione biblica
al femminile avevano già evidenziato, spesso in modo marginale e
sospetto, rispetto alla predicazione più ufficiale. La donna e l’uomo
sono creati da Dio come ‘aiuto’ reciproco, e non in vista di una
funzione, sia pure nobilissima come è quella genera-tiva, ma per la
condivisione, l’umanizzazione, l’arricchimento dell’esistenza intera. Il
reciproco aiuto in un certo senso, «permette all'uno e all'altra di
scoprire sempre di nuovo e confermare il senso integrale della propria
umanità […]. Umanità significa chiamata alla comunione interpersonale»
(n. 7).
Una digressione
indispensabile
È noto che nella storia occidentale,
anche lasciando da parte le altre culture, si ritrovano diversi modelli
di rapporto tra i sessi, e tutti influiscono in vario modo sul pensiero
ufficiale della Chiesa nelle varie epoche.
Storicamente predominante - nel senso
che è stato teorizzato fino a un secolo fa non solo nella comunità
cristiana ma anche in ambito laico, nella legislazione e nel costume -
quello subordinazionista, per cui la donna, anche se riconosciuta in
epoca cristiana pari all’uomo nell’ordine della grazia, viene però
subordinata a lui nell’ordine di natura. Si sa che l’ordine di natura è
quello predominante di fatto e comunque più visibile nella società e nei
rapporti umani: per cui la novità cristiana tendeva ad essere
riassorbita dalla tradizione e dalla consuetudine fino a risultare non
più visibile.
Il progredire della civiltà e la
grande stagione romantica influenzano questo modello subordinazionista,
senza scalzarlo beninteso, però con vari addolcimenti e idealizzazioni.
Leone XIII, nell’enciclica Arcanum divinae sapientiae (1880: la
prima dedicata al matrimonio cristiano, in tutto l’arco della storia
della Chiesa), affermava che la moglie secondo l’immutabile progetto di
Dio deve essere sottomessa al marito, però non in morem ancillae,
bensì in morem sociae: “non come una serva, ma come una
compagna”. Al di là delle nobili intenzioni, l’assunto suona come
un’aporia irrisolvi-bile, perché l’essere compagni è connotato in primo
luogo dall’essere sullo stesso piano.
Nel corso del secolo XX si afferma il
modello della complementarità, in cui la donna è vista come
complementare all’uomo, a lui necessaria per completare la propria
personalità ed esistenza. Indubbiamente evoluto, rispetto al precedente
perché più attento alla dignità della donna e al valore della comunione,
mantiene però l’attenzione incentrata sull’uomo-maschio (si parla di
complementarità solo a proposito della donna in relazione all’uomo, mai
viceversa) e non mette in discussione il modello generale dei rapporti
umani e sociali. L’idea, di derivazione filosofico-letteraria e con
tracce del Femminile eterno, viene accolta favorevolmente dalla Chiesa:
si ritrova soprattutto in quella corrente fiorita negli anni Cinquanta,
stimolata dall’anno Santo del 1950. Essa fu chiamata teologia della
donna (una tra le tante “teologie del genitivo” che si affermano in
quest’epoca, come la teologia delle realtà terrestri, la teologia del
laicato…) e non aveva nulla a che fare con la teologia al femminile o
teologia femminista che sarebbe venuta in seguito, perché era pur sempre
una riflessione teologica elabo-rata unilateralmente da uomini (per di
più tutti chierici, quindi celibi) in cui la donna costituiva sempre
l’oggetto e mai il soggetto. Una relazionalità unilaterale non può
aiutare la crescita della relazione.
Bisogna attendere gli sviluppi del
personalismo cristiano e la sua ricezione da parte della Chiesa (che può
considerarsi compiuta ai tempi del Concilio Vaticano II), perché venga
accolto e precisato il modello della relazionalità mutua, della
reciprocità, indubbiamente assunto dal Papa nella Mulieris dignitatem:
«Leggiamo che l'uomo non può esistere “solo” (cf Gen 2,18); può esistere
soltanto come “unità dei due”, e dunque in relazione ad un'altra persona
umana. Si tratta di una relazione reciproca: dell'uomo verso la donna e
della donna verso l'uomo. Essere persona ad immagine e somiglianza di
Dio comporta anche un esistere in relazione, in rapporto all'altro “io”.
Ciò prelude alla definitiva autorivelazione di Dio uno e trino: unità
vivente nella comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» (n.
7).
Diventa pertanto possibile
--appoggiandosi sui due principali fondamenti del pensiero della
Lettera (la persona immagine di Dio e la mutua relazionalità
dell’uomo e della donna) - affermare che l’uomo e la donna, nel loro
tendere l’uno verso l’altra, sono “immagine” del Dio relazionale e
creatore; realizzano la “somiglianza” vivendo nella storia la loro
unione nell’amore con caratteri di autentica reciprocità. Ciò riguarda
senza dubbio la real-tà matrimoniale, ma non solo: «Tutta la storia
dell’uomo sulla terra si realizza nell'ambito di questa chiamata. In
base al principio del reciproco essere ‘per’ l'altro, nella ‘comunione’
inter-personale, si sviluppa in questa storia l'integrazione
nell'umanità stessa, voluta da Dio, di ciò che è ‘maschile’ e di ciò che
è “femminile”» (n. 7).
Dire che l'uomo è creato a immagine e
somiglianza di Dio, che crea il diverso per comunicare se stesso,
significa per l’essere umano anche la chiamata a esistere per gli
altri, a fare della propria vita un dono. Uomo e donna attuano questa
chiamata fondamentale secondo le peculiarità che sono loro proprie.
L’essere immagine di Dio --fondamento
della dignità personale, nella tradizione cristiana - non vale solo per
l’uomo e la donna considerati individual-mente, ma anche per la loro
struttura relazionale, per la loro unione che rende l’immagine della
reciprocità intratrinitaria. Credere in un Dio Trinità, infatti,
significa che il Dio in cui crediamo è relazionale nella sua stessa
essenza profonda. «Solamente in questo modo diventa comprensibile la
verità che Dio in se stesso è amore (cf 1Gv 4,16)» (n. 7). Il peccato,
come sarà detto più avanti, “offusca”, “diminuisce” l’immagine, ma non
può distruggerla.
Le immagini di Dio
Il n. 8 - che si collega al
precedente in quanto prende le mosse dal tema dell’immagine - è di
fondamentale importanza per un’altra ragione. La Rivelazione biblica
costituisce anche un «discorso di Dio su se stesso». Parlando prima per
mezzo dei profeti, poi per mezzo del Figlio (cf Eb 1,1.2), Dio usa un
linguaggio umano, logica e immagini e similitudini umane. Può derivarne,
soprattutto nel Primo Testamento, l’effetto di un certo antropomorfismo.
Come dice la Lettera, ciò dipende dal fatto che l’uomo è “simile”
a Dio (simile, non uguale), e perciò anche Dio può esser pensato in
qualche misura simile all’uomo, pur se resta comunque il totalmente
Altro.
Sempre ricordando comunque,
aggiungiamo noi - è solo un’esplicitazione di quanto il documento
sottintende nel sottolineare i limiti dell’analogia -, che si tratta di
immagini e figure, non della realtà ineffabile di Dio ‘in sé’.
Ogniqualvolta un’immagine (non ci sono solo le immagini fisiche, ma
anche quelle mentali) viene assolutizzata e adorata al posto della
realtà ineffabile che dovrebbe mediare, si cade nell’idolatria.
Uno dei meriti indiscussi della
Mulieris dignitatem risiede nel superamento della concezione così
tradizionale e istintiva di un Dio “maschio”. La Lettera
valorizza le più
significative immagini materne di Dio (non occorre sottolineare quelle
maschili, perché ben note e predominanti: sia statisticamente, perché
più numerose, sia nella “storia degli effetti”). Aggiunge
un’osservazione di grande rilievo sulla principale ipostasi umana di
Dio, che è quella del Padre: «Questa caratteristica del linguaggio
biblico […] indica anche indirettamente il mistero dell'eterno
“generare”, che appartiene alla vita intima di Dio. Tuttavia, questo
“generare” in se stesso non possiede qualità “maschili” né “femminili”.
È di natura totalmente divina. È spirituale nel modo più perfetto,
poiché “Dio è spirito” (Gv 4,24) […]. Dunque, anche la “paternità” in
Dio è del tutto divina, libera dalla caratteristica corporale
“maschile”, che è propria della pater-nità umana» (n. 8). Non vi è
quindi la “genitorietà” umana come tipo di quella divina; invece l’atto
generativo delle creature trova il suo primo modello nel “generare” di
Dio, divino e interamente spirituale: «Nell'ordine umano, invece, il
generare è proprio dell'“unità dei due”: ambedue sono “genitori”, sia
l'uomo sia la donna» (n. 8).
L’uomo, la donna, il
peccato
I nn. 9 e 10 vertono sul tema del
peccato, e viene affermato qui un principio fondamentale a proposito del
peccato, in cui il Firmatario si dissocia apertamente non solo dalle
voci tradizionali (fin dal tempo dei primi scrittori cristiani), ma
anche da certi autori neotestamentari che attribuiscono in sostanza alla
donna la prima responsabilità del peccato, sia pure lasciando all’uomo
la colpa di averla assecondata. In primo luogo è ribadito che la
responsabilità del peccato è dell’essere umano in quanto tale, e non può
quindi venir ascritto in maniera privilegiata a uno dei due sessi; si
ricorda che la conseguenza prima del peccato è la divisione, intesa come
perdita dell’armonia (dell’essere umano con Dio, con l’altro, con se
stesso, con la natura), ma anche come divisione “culturale” dei ruoli.
«Non c'è dubbio che, indipendentemente da questa “distribuzione delle
parti” nella descrizione biblica, quel primo peccato è il peccato
dell'uomo, creato da Dio maschio e femmina. […]. Nello stesso tempo,
però, anche l'essere umano --uomo e donna - viene toccato dal male del
peccato, di cui è au-tore» (n. 9).
In breve, secondo l’Autore, il
dominio dell’uomo sulla donna che si ritrova anche nella Scrittura,
almeno in moltissime pagine di essa, è reale, ma conseguenza del
peccato, e non può perciò venir ascritta all’immutabile volontà di
Dio. «Questo “dominio” indica il turbamento e la perdita della stabilità
di quella fondamentale eguaglianza, che nell’“unità dei due” possiedono
l'uomo e la donna, […] mentre soltanto l'eguaglianza, risultante dalla
dignità di ambedue come persone, può dare ai reciproci rapporti il
carattere di un'autentica communio personarum» (n. 10).
Segue un riconoscimento di valore
perenne: la violazione di questa eguaglianza, che è insieme dono e
diritto derivante dallo stesso Dio Creatore, storicamente si esplica a
sfavore della donna, ma nello stesso tempo diminuisce anche la dignità
vera dell'uomo.
Funge in un certo senso da “cerniera”
tra la parte veterotestamentaria e quella neotestamentaria nella
riflessione biblica della Mulieris dignitatem il n. 11, sotto il
titolo significativo di Protovangelo, come di solito viene
chiamata la promessa di Dio in Genesi 3,15: «Io porrò inimicizia tra te
e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la
testa e tu le insidierai il calcagno». L’impostazione mariana del
documento, già ampiamente fondata nei nn. 2-5, torna qui in primo piano,
anche attraverso la ripresa di un tema antico e classico nella
tradizione cristiana, cioè l’antitesi Eva-Maria.
Nella riflessione dei Padri spesso la
prospettiva appare molto penalizzante per le donne storiche, concrete:
perché Eva, la madre dei viventi, veniva posta come rappresentante di
tutte le donne, mentre Maria nella sua perfezione e nel suo privilegio
di madre del Messia, sembrava poter rappresentare soltanto se stessa. Il
documento fa a questo riguardo una precisazione importante: «La “donna”
del Protovangelo è inserita nella prospettiva della redenzione. Il
confronto Eva-Maria si può intendere anche nel senso che Maria assume in
se stessa e abbraccia il mistero della “donna”, il cui inizio è Eva […].
Maria significa, in un certo senso, oltrepassare quel limite di cui
parla il Libro della Genesi (3,16) e riandare verso quel “principio” in
cui si ritrova la “donna” così come fu voluta nella creazione, quindi
nell'eterno pensiero di Dio […]. Maria è “il nuovo principio” della
dignità e vocazione della donna, di tutte le donne e di ciascuna» (n.
11).
Quest’idea, che ricorre in
innumerevoli luoghi e costituisce senza dubbio il motivo condut-tore
della Mulieris dignitatem, è apparsa ad alcuni suoi lettori
commentatori affascinante e promettente, mentre ha suscitato perplessità
in altri soprattutto perché la differenza tra piano simbolico e piano
storico-etico non è sempre del tutto chiara, quantomeno non esplicita.
La prassi liberatrice
di Gesù
Comunque, i nn. 7-11 costituiscono il
vertice dottrinale della Lettera. Tutto il resto della parte
biblica è di grande interesse e significato, ma meno nuovo e
teologicamente meno approfondito. Ciò vale anche per i nn.12-16 ,
dedicati alla prassi di Gesù.
Si afferma che tutto il progetto
salvifico di Dio «ci viene maggiormente chiarito dalle parole di Cristo
e da tutto il suo atteggiamento verso le donne, che è estremamente
semplice e, proprio per questo, straordinario, […] un atteggiamento
caratterizzato da una grande trasparenza e profondità. Diverse donne
compaiono nel corso della missione di Gesù di Nazareth, e l'incontro con
ciascuna di esse è una conferma della “novità di vita” evangelica» (n.
12).
Sono ricordate più o meno tutte le
donne che Gesù incontra nel suo ministero pubblico, le discepole, le
donne guarite da lui, le interlocutrici, in parte anche le immagini
femminili a cui fa ricorso nel suo insegnamento alle folle.
L’impressione che se ne ricava è quella di un approccio completo e
condotto in termini di grande positività; ma non vi è l’attenzione
teologico-simbolica riscontrabile nella prima parte. Forse il Firmatario
presume che la vita pubblica di Gesù, attraverso i Vangeli, sia già ben
familiare ai suoi lettori. Forse anche, semplicemente, lo spazio a
disposizione non consente un maggiore approfondimento (infatti, benché
la Mulieris
dignitatem al suo apparire
abbia colpito l’attenzione anche per l’inconsueta lunghezza, resta pur
sempre un’enciclica e non un saggio teologico).
Il divieto del ripudio (Mt 19,6)
viene riletto in chiave di attenzione alla dignità femminile,
riconfermando che l’ethos di comunione paritaria e relazionale
iscritto nella creazione «viene ricordato e confermato dalle parole di
Cristo: è l'ethos del Vangelo e della redenzione» (n. 12).
Tutte o quasi tutte le donne
deiVangeli scorrono rapidamente sotto gli occhi dei lettori: la donna
curva raddrizzata da Gesù, la Samaritana, la peccatrice pentita di cui
parla Luca (per lungo tempo identificata con Maria di Magdala), la
suocera di Pietro, la donna che soffriva di emorragie, la cananea o
sirofenicia, la figlia di Giairo, la vedova di Nain, l’adultera (a cui
viene dedicata una particolare attenzione, in quanto donna vittima del
peccato e dell’ingiustizia maschile), Marta e Maria di Betania, la donna
che unge misteriosamente Gesù con un unguento prezioso pochi giorni
prima della Passione.
Ci dispiace un po’ che la Mulieris
dignitatem non adoperi (si
direbbe anzi che eviti accuratamente) il termine discepole per le donne
che seguono Gesù in modo stabile e itinerante; ma ciò può dipendere dal
fatto che, ancora oggi, non tutti gli esegeti concordano sul fatto che
queste donne possano essere considerate o fossero considerate o si
considerassero esse stesse discepole.
La Mulieris
dignitatem dice soltanto,
riprendendo quasi alla lettera Luca 8,1-3, che «a volte le donne, che
Gesù incontrava e che da lui ricevevano tante grazie, lo accompagnavano,
mentre con gli apostoli peregrinava attraverso città e paesi,
annunciando il Vangelo del Regno di Dio; e “li assistevano con i loro
beni”. Il Vangelo nomina tra loro Giovanna, moglie dell'amministratore
di Erode, Susanna e “molte altre”» (n. 13). Sorprendentemente non viene
ricordata qui Maria di Magdala, che ha un ruolo di primato nel gruppo
delle seguaci di Gesù e tra loro è sempre nominata per prima; ma viene
poi recuperata nel suo supremo ruolo evangelico di testimone della
Risurrezione (n. 16).
In conclusione di questa parte,
l’eguaglianza di uomo e donna nel progetto di Dio viene ricordata anche
in rapporto all’opera dello Spirito Santo. «Ambedue accolgono le sue
“visite” salvifiche e santificanti. Il fatto di essere uomo o donna non
comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella
azione salvifica e santificante dello Spirito nell'uomo il fatto di
essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole
dell'apostolo: “Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28).
Questa unità non annulla la diversità...» (n. 16). Ogni vocazione ha
quindi un senso profondamente personale e profetico.
Lilia Sebastiani
Articolista e conferenziera
in materia teologica
Via Isonzo, 9 - 05100
Terni
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