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Il
titolo evoca un’espressione della Lettera ai
Romani, nel punto in cui s. Paolo, apponendo l’indirizzo della sua
missiva, si rivolge direttamente ai destinatari: «A quanti sono in Roma,
amati da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre
nostro, e dal Signore Gesù Cristo» (Rm 1,7).
Le lettere paoline, al pari di tutte quelle
dell’antichità, si aprono con il mittente, il destinatario e l’iniziale
saluto augurale. I tre elementi sono facilmente reperibili nel prologo
del nostro testo (Rm 1,1-7). Nel menzionare i destinatari della sua
lettera s. Paolo attribuisce loro due qualifiche: «amati da Dio» e
«santi per vocazione». Nel versetto precedente, dopo averli evocati con
un semplice pronome personale («voi»), li aveva qualificati come
«chiamati da Gesù Cristo»: il che significa che non solo l’Apostolo è
stato scelto dal Cristo, ma anche i destinatari della sua Lettera hanno
ricevuto una simile vocazione per grazia e appartengono in modo speciale
al Signore Gesù. In tal modo s. Paolo arriva a precisare chi sono i suoi
destinatari: «tutti quelli che sono in Roma», non intendendo certo
scrivere all’intera popolazione della capitale dell’impero, ma alla
comunità cristiana, identificata con espressioni teologiche di rilievo.
I destinatari di s. Paolo, dunque, sono i
figli diletti, ovvero coloro che sono chiamati da Dio a formare il nuovo
Israele, il popolo che Dio ha amato in modo speciale (cf Dt 7,7-8) e
che, in forza dell’alleanza, è diventato partecipe della sua stessa
santità (cf Es 19,6). L’appellativo «santi», prerogativa speciale dei
cristiani di Gerusalemme (cf At 9,13), è estesa anche ai membri della
comunità di Roma, i quali condividono la loro stessa vocazione. Proprio
sull’insondabile mistero dell’amore di Dio fermeremo la nostra
attenzione.
Io, tu, noi siamo amati da Dio
Siamo amati da Dio: è il lieto annuncio, la
bella notizia che ci viene comunicata dall’Apostolo. Se siamo amati da
Dio, è perché Dio è more, è Padre che ama tutti e ciascuno: liberamente,
gratuitamente,irreversibilmente. Amore, nel vocabolario cristiano, è
parola bilingue, divino-umana: vedi alla voce ‘Gesù Cristo’, amore
divino per l’uomo, amore umano per Dio. Ma tutto questo non lo afferma
ogni religione, ogni teologia, anzi ogni filosofia su Dio? In effetti
anche Aristotele chiamava io amore - il grande Motore Immobile
dell’universo, che “muove tutto in quanto amato” - però lo intendeva
appunto come un Amore che deve essere amato, ma mai e poi mai questo
Amore può “abbassarsi” ad amare tutto ciò che non è Dio: finirebbe per ‘sdivinizzarsi’,
per autodistruggersi.
Quindi Dio può amare solo se stesso: è amore
dell’amore. Noi lo dobbiamo amare, lui però – ma è veramente un ‘lui’? –
non può amare nessun altro all’infuori di se stesso. Viene da chiedersi:
questo ‘amore-autoamantesi’ non rischia di sconfinare nel più morboso
narcisismo? Non è così il Dio di Muhammad il Profeta. Ogni fedele lo
invoca più volte al giorno, con la prima ‘sura’ del Corano: «Nel nome di
io, Misericordioso
e
Compassionevole». Allah ha cento
nomi: è Grande, Onnipotente, Eterno, Immenso ecc., ma il nucleo dei suoi
attributi costituito proprio da quei due aggettivi – Misericordioso e
Compassionevole. Allah riversa la sua clementissima misericordia su
tutte le sue creature, anche le più piccole e umili. «In una notte nera
– recita un detto mussulmano – su una pietra nera, una formica nera Dio
la vede e la ama». Si può parlare di un rapporto d’amore tra Dio e noi?
Certamente da parte nostra nei suoi confronti è più corretto parlare non
di amore, ma di ‘sottomissione’: questo, appunto, significa la parola
araba islàm.
E da parte sua? Se facciamo il confronto con
il Dio di Gesù Cristo, tra le non poche differenze balzano evidenti
queste due: Allah ama solo i suoi ‘fedeli’, e predestina gli infedeli
alla dannazione eterna; il Padre di Gesù invece non fa preferenze di
persone, ma vuole che tutti gli uomini siano salvi. Inoltre ad Allah
manca la capacità di amare in modo umano. E si capisce perché: può amare
in modo umano solo un Dio incarnato, cosa che l’islamismo ritiene
assurda. Ma può un Dio amare veramente gli uomini senza amarli in modo
effettivamente umano? E come può Dio amare in modo umano senza un cuore
di carne, veramente umano? Questo non significa pensare l’Incarnazione
come ad un evento ‘dovuto’: essa è e resta una grazia, evento
assolutamente gratuito, del tutto imprevedibile e improgrammabile, ma la
differenza cristiana è data appunto dalla fede in quell’evento: «la
Parola di Dio si è fatta carne », che è come dire: l’Amore di Dio ha
assunto un cuore di carne.
Interessante anche un confronto con il
buddismo. È stato H. de Lubac il primo a stabilire un audace parallelo
tra Cristo e Budda. Ecco la sua conclusione: «Il fallimento di questa
immensa avventura, il naufragio di questa ‘zattera’ gigante, che ha
imbarcato per la liberazione mezza umanità, deriva dal fatto che Budda
non ha saputo scoprire il volto del Dio-Amore. Non per questo siamo
severi con lui. Budda ha forse impersonato più di qualsiasi altro uomo
il problema del destino umano. Più di qualsiasi altro ha portato a buon
fine tutta una pars purificans,
per la quale gli stessi cristiani gli possono essere riconoscenti. Ha
evitato le vie ingannevoli e sempre tentatrici della superstizione,
dell’ascesi meccanica e della gnosi. Ha visto la necessità dello
spogliamento spirituale, al di là della morte dei sensi. Ma ha
indubbiamente mancato il suo scopo. Senza il ‘pieno’ della carità,
nessuno realizzerà mai il ‘vuoto’ del distacco. Senza il sì, che può
essere soltanto una risposta, non è possibile pronunciare
definitivamente il no indispensabile» (Aspetti
del Buddismo, Jaca Book, Milano
1980, 43).
Le sette note dell’Amore
Nelle ultime righe del passo di de Lubac
appena citato si trova l’essenza del cristianesimo, il DNA della
vocazione cristiana: sono gli attributi originali e caratterizzanti del
Dio di Gesù Cristo; sono le sette “note” dell’amore, che è all’origine
di ogni chiamata. Innanzitutto la
pre-venienza,
l’assoluta precedenza: il principio di tutto, di ogni storia, di ogni
vocazione, è l’Amore . «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Dio che
ha amato noi, e ci ha amati per primo » (1Gv 4,10.19). È Dio che ha
chiamato Abramo, ha scelto Israele, ha preferito Davide ai suoi
fratelli; e il motivo non si trova mai nella persona prescelta o nel
popolo eletto, anzi Israele è il più piccolo tra tutti i popoli (Dt
7,7ss), e Davide è il più piccolo tra i figli di Jesse. «Considerate la
vostra vocazione»,
esorta Paolo i suoi cristiani di Corinto: Dio preferisce ciò che è
stolto, ciò che è debole, ciò che è ignobile, ciò che è nulla (1Cor
1,26ss).
La prevenienza si esprime nella
gratuità:
Dio chiama l’uomo perché lo ama, e lo ama perché è Amore, non perché
l’uomo sia amabile. Potrebbe il sole non illuminare o il fuoco non
bruciare? Chi contempla il Crocifisso scorge un amore tanto gratuito e
sconfinato da apparire incredibile: così Dio ha amato il mondo! Gesù,
avendo amato i suoi, li amò fino all’estremo. Davvero una carità
eccedente: smisurata, smodata, sproporzionata!
La gratuità si consolida in
fedeltà:
la promessa è mantenuta, l’amore dato una volta è dato per sempre.
Fedeltà non è abitudine stanca e annoiata: l’amore di Dio non si ripete,
si rinnova. Il Calvario non è un vulcano spento. Cristo non si pente
delle sue chiamate, neanche di quella di Giuda.
La fedeltà si traduce in
tenerezza:
non si indurisce per ostinata volontà di autocoerenza e non si raffredda
nella pura correttezza formale, ma si porge nei gesti caldi della più
premurosa e affettuosa delicatezza: cosa c’è di più tenero di Cristo che
si china a lavare i piedi dei discepoli? Il ‘chiamato’ deve esporsi
all’amore del Maestro e deve lasciarsi amare: è Lui che ama per primo!
La tenerezza si incarna nella
concretezza:
l’amore si fa gesto e storia, non si affida a parole vuote o ad
atteggiamenti sdolcinati, ma raggiunge il chiamato nella irripetibilità
della sua persona, nella singolarità della sua situazione,
nell’interezza delle sue relazioni con gli altri uomini e con il mondo.
La concretezza sfocia nella
misericordia:
è veramente concreto l’amore, perché non giudica e non condanna. Tutto
scusa, tutto sopporta. Non si arresta di fronte alla miseria dell’amato,
non vince soltanto il tempo, vince un nemico ancora più accanito: la
colpa, l’incorrispondenza, l’infedeltà.
La misericordia si declina - scandalosamente!
- nella gelosia:
non scade mai a buonismo peloso o a morboso sentimentalismo. L’amore di
Dio è geloso, non nel senso che egli sia invidioso della nostra felicità
– questo è piuttosto il sentimento che rode eternamente Satana – quanto
perché è premuroso, come l’amore materno, del «ben-essere» delle sue
creature. Per questo è un amore esigente: si dà tutto e chiede tutto -
tutto il cuore e tutta la vita – altrimenti ne scapiterebbe il carattere
adulto dell’amore, la serietà della sua risposta, il rispetto della sua
dignità.
Le leggi fondamentali dell’Amore
Sono quattro, in particolare. La prima
si potrebbe chiamare la legge della
verticalità.
Tante volte si mette in guardia dal pericolo dell’orizzontalismo: il
cristianesimo – si dice - non si può ridurre al comandamento dell’amore
del prossimo, ed è giusto: prima viene il comandamento dell’amore per
Dio. Ma prima ancora del primo comandamento viene l’evento: Dio ci ha
amati per primo! Dunque la dimensione verticale precede e fonda quella
orizzontale, ma si tratta di una
verticalità discendente: non siamo
stati noi a salire verso Dio, ma è Dio che si è abbassato fino a noi. La
vocazione cristiana è un dono che viene dall’alto: come si nasce
dall’alto, e non da carne e sangue ma dall’acqua e dallo Spirito, così
all’origine di ogni vocazione c’è Dio Padre che ci ama e ci chiama. E
come nessuno si può autogenerare, così nessuno si può autochiamare.
La seconda legge, strettamente legata
alla precedente, si potrebbe definire la legge dell’indicativo.
Nella vita cristiana l’indicativo precede l’imperativo: sei amato e
dunque amerai! La fede fonda la carità; la chiamata precede la risposta;
il kerygma
genera l’etica. Lo diceva un
maestro del sospetto, ma in questo era
davvero superiore ad ogni sospetto: «Bisogna aver conosciuto l’amore,
prima della morale; altrimenti è lo strazio» (J.-P. Sartre).
La terza legge la potremmo formulare
in questi termini: Dio sceglie un popolo (Israele), ma per portare la
luce a tutti i popoli. Sceglie una persona, ma per la salvezza di tutto
il popolo di Dio. Il suo infatti è un amore
elettivo,
ma non selettivo, discriminante, perché l’amore non può mai fare
preferenza di persone. Il chiamato quindi è messo di fronte alla sua
responsabilità: deve sapere e deve ricordarsi sempre che Dio lo ha
scelto per farne uno strumento di salvezza a favore di ‘molti’. Nel
momento in cui il chiamato dimenticasse di essere un povero strumento -
di per sé assolutamente inadatto e inadeguato – e si illudesse di essere
lui la causa o il protagonista della propria e altrui salvezza,
finirebbe per distruggere ogni possibilità di autentica realizzazione di
sé e di vera grazia per altri.
La quarta legge dell’Amore è la
croce:
come per Cristo, così per ogni cristiano, rispondere alla chiamata del
Padre significa scegliere di perdere la vita per amore. Non si può
seguire la via crucis,
se non si è sinceramente, concretamente, definitivamente disposti a
rinnegare il proprio io e ad inchiodarlo sulla croce. Altrimenti prima o
poi ci inchioderemo qualcun altro…
Ci crediamo amati?
Un dato che viene abbondantemente suffragato
dall’esperienza e riconosciuto dalla psicologia moderna, ci dice che un
bambino che non ha ricevuto affetto, farà più fatica da grande ad
esprimere affetto nei confronti degli altri. Da piccolo hai ritenuto di
doverti ‘guadagnare’ l’amore, la stima, la fiducia dei genitori,
insegnanti, amici? Il criterio dell’amore di Dio non è la nostra bontà,
ma la nostra povertà; non è il nostro merito, è il nostro bisogno: Dio
ci ama gratuitamente e incondizionatamente. Paolo, da fariseo, aveva
pensato di dover meritare l’amore di Dio, ma poi ha scoperto l’amore in
Gesù Cristo e ha gridato: «Mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal
2,20). Ci sono stati momenti nella mia vita in cui mi sono sentito amato
da Dio Padre, senza alcun mio merito, nonostante, anzi proprio per il
mio peccato? Ora mi sento avvolto dall’amore premuroso e tenero di Dio?
Qualunque sia stato il mio passato, Dio era
con me. Qualunque sia adesso il mio presente, Dio è con me. Qualunque
sarà il mio futuro, Dio sarà sempre con me. Riesco a vincere il
rimpianto o il rammarico per il passato con un sincero atteggiamento di
gratitudine? Riesco a superare la paura del futuro con la fiducia e
l’abbandono nella misericordia tenerissima del Signore? Di fronte
all’insondabile mistero dell’amore di Dio, si capisce lo stupore del
salmista che si domanda: Ma cosa è mai l’uomo, o Dio, perché tu te ne
ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne prendi tanta cura? (cf Sal
8,5).
Francesco Lambiasi
Vescovo di Rimini
Via IV Novembre, 35 - 47900 Rimini
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