n. 5
maggio 2009

 

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Memoria e radici

di ANTONIETTA AUGRUSO

 

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Uno dei gesti più usuali nell’iniziare la giornata è guardarsi allo specchio: lo facciamo abitualmente tutti. Non è la cieca obbedienza alle dinamiche dell’apparire, né un semplice gioco della vanità. Guardiamo l’immagine riflessa e ci fermiamo in silenzio, perché i tratti somatici hanno una loro eloquenza. Sono istanti in cui si compiono viaggi fecondi, si ritorna all’ingenua espressione della fanciullezza o a quella inquieta dell’adolescenza. Il gesto aiuta a ripensare e ad assumere i cambiamenti in una prospettiva meno frammentaria; consente di aprire una finestra di senso sull’oggi.

Provenienze nascoste

Ci sono persone che vivono una grande fatica in questa sorta di traversata. Altre invece non ne colgono l’importanza, perché hanno scelto di vivere in superficie: si galleggia meglio! Ma tanti altri, forse la maggioranza, temono quasi di essere destabilizzati da un rapporto con le proprie radici e preferiscono negarsi l’impegno della memoria.

La velocità programmata, della quale si è un po’ tutti prigionieri, certo non è una buona alleata della memoria. La memoria di ciò che siamo stati, di chi ci ha presentato la vita per la prima volta e ce l’ha fatta conoscere attraverso i suoi occhi e le sue mani, non sempre si concilia con la direzione che tentiamo di dare al presente o vogliamo progettare per il futuro. Capita di dialogare con tanta gente che nasconde le proprie origini e provenienza, che non parla volentieri della propria famiglia, dalla quale matura un distacco simile al disprezzo verso la propria cultura.

In tempi come i nostri, segnati dalla difesa fondamentalista delle identità e dalla paura dell’altro, persino parlare delle proprie radici etniche o geografiche potrebbe esporre a problemi seri! C’è un rapporto tormentato e conflittuale con la verità; la maschera protegge da

tante provocazioni, ma fa anche permanere nell’oscillazione, il che è sempre un rischio, se non si hanno risorse per gestirla. Però giunge sempre un momento in cui situazioni impreviste obbligano la persona almeno a porsi il problema se percorre il sentiero della menzogna o cerca di abbracciare con pazienza e speranza una storia che non avrebbe mai voluto vivere! Solo con tanta fatica e dolore si passa alla “consapevolezza”, cioè ad uno stile di vita fatto anche di domande e critiche sulla storia che si eredita. Si tratta di percorsi sicuramente difficili, ma fecondi.

Ristabilire relazioni più chiare e sensate con il mondo da cui si proviene è come decidersi per un viaggio di risignificazione. Un percorso certamente non privo di gioie e di scoperte inaspettate: «Il viaggio decongela l’identità, la rende mobile, itinerante, problematica […]. Ha un effetto di deritualizzazione dell’esperienza, che può, al limite, intaccare i modi consueti dell’esperienza psichica e religiosa, provocarne un ri-orientamento profondo».1

Tra paura e speranza

Si ritorna ai propri luoghi d’origine con bagagli diversi: per qualcuno è una faticosa ripresa di dialogo con conflitti che hanno lasciato ferite profonde; per altri è il lieto ricordo, carico di nostalgia, per la trasparenza dei paesaggi tenui, per i suoni, i sapori e i colori da anni dimenticati. Non è un lavoro di archivio, né basta una presentazione in power point con l’albero genealogico della propria famiglia. È quasi uno slalom dell’anima tra paura e speranza, e non si è sempre certi di mettere un evento al punto giusto.

Capita di frequente che la paura blocchi il viaggio dentro le proprie emozioni e reazioni, perché non si ha sufficiente coraggio, o si pensa di non potercela fare. Allora si tende a fermarsi e richiudere la porta, ma prima o poi si è costretti a riaprirla, perché qualcuno o qualcosa tornerà a bussare e a far rimettere tutto in gioco. Sono momenti in cui bisogna anche creare delle condizioni favorevoli. Una di queste è tentare di creare un sacro silenzio di attesa, senza farsi travolgere né dalla volontà di capire tutto e subito, né di trovare soluzioni immediate. L’altra è quella di rimanere fermi nella convinzione che nessuno di noi è Dio. È una professione d’amore nei confronti della stessa grandezza e finitezza umana.

Per quanto si provi a dare una spiegazione di causa ed effetto a tutto,non si è mai totalmente in possesso del mistero dell’uomo. Non è un’abdicazione al fato, tutt’altro. Bisogna cercare di desiderare un cuore aperto: conflitti apparentemente risolti riemergono in situazioni imprevedibili. Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele (cf Gen 35,24) non avrebbe mai immaginato che il dialogo con la memoria sarebbe ripartito con l’arrivo di una carestia.

Aurora e crepuscolo

In Egitto Giuseppe, alla corte dei potenti, aveva tentato, forse senza riuscirci, di recidere i legami con una memoria dolorosa. Lo dicono chiaramente i nomi scelti per i figli: il primo Manasse («mi ha fatto dimenticare»), il secondo Efraim («mi ha reso fecondo»). Ma l’afflizione e la fecondità di Giuseppe, ora avvolto nelle usanze egiziane di corte, appaiono misteriosamente sottoposte ad una prova dura.

Non è facile reinventarsi tutto, i frutti di ogni albero dipendono dalle sue radici e dalla linfa che scorre tra i suoi rami! La fuga dalle proprie radici, traumatica, casuale o volontaria, per quanto possa anche essere accompagnata da successo e fecondità, prima o poi sembra chiedere il “ritorno”. A volte sono i bisogni essenziali a provocare incontri inaspettati e riaprire storie seppellite nel pozzo profondo del passato. Il grano che la famiglia di Giacobbe deve comprare sarà il pane senza il quale non ci si può sedere a tavola, condividere e guardarsi in faccia. Che strano che sia proprio Giuseppe a doverglielo vendere! I fratelli, da parte loro, sono quasi costretti dagli eventi a disseppellirlo  gradualmente dalla zona remota dove lo avevano occultato (Gen 42,13; 42,21). Ma i pezzi del quadro si ricompongono solo quando Giuseppe acconsente ad un Altro (nomina Dio per tre volte in Gen 45) di entrare in questa storia fatta di bugie e di fragilità umanissime, soprattutto quando esplicitamente parla della storia come una realtà dove l’Altro non è, né rimane come un estraneo. La storia di Giuseppe, così come altre storie bibliche, mette in luce un altro aspetto: l’impegno di uno solo non basta.

Viene chiamata in causa la comunità e la sua storia: come riprovare a sbrogliare i fili di una tela policroma, sulla quale hanno passeggiato tanti piedi. A mano a mano che il lavoro procede si costruisce un nuovo ethos, un nuovo posto da vivere, più umanamente abitabile: «Si tratta di convincersi che non si può pensare alcun esodo se prima non si condivide una deportazione. Si tratta di lasciarsi inghiottire dalla balena».2 Si matura in compagnia delle fragilità comuni, perché si inizia a mutare lo sguardo sulla vita. Giuseppe tenta più volte di riscattarsi dalla sofferenza attraverso la semplice rivalsa. Ma questo è solo il primo passo verso la ricomposizione della sua storia. Solo l’urlo del pianto e la verità pronunciata nel rispetto del mistero (cf Gen 45,2) riaprono le porte alla riconciliazione con i propri luoghi d’origine spesso occultati da paura e rassegnazione.

Ripartire

Dialogare con la storia, cercare la propria identità a volte smarrita non è questione di un giorno, ci sono anche i silenziosi tagli con il passato. È necessario un ritorno critico verso il vissuto, mai solo dell’individuo. Un paradigma è la storia biblica di Rut la moabita. Anche lei compie un ritorno (Rut 1,14) ma non verso le proprie radici: il suo è un esodo, assieme alla betlemita Noemi. La solidarietà con l’anziana Noemi e la successiva integrazione nella comunità, fa di lei il prototipo di una dedizione creativa alle origini e alla memoria, con immaginazione tipicamente femminile.

Il ritorno non è solo rivisitazione ossessiva del vissuto, forse chi è impoverito non può permettersi neanche questo lusso! L’incontro con Booz, la nascita del bimbo (Rut 4), dicono che le proprie radici si possono intrecciare con altre senza produrre distanze gelide e istruzione. Il faticoso percorso con la memoria va accompagnato dallo sguardo verso la luce che scende dall’alto: non siamo gli unici artefici del nostro destino. Bisogna dare una chance anche alla leggerezza di chi non si sente al centro dell’universo e sa che si può sempre ripartire: «Con lieve cuore, con lieve mani / la vita prendere, la vita lasciare» (Cristina Campo).

Note

1 F. FERRAROTTI, Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio, Donzelli, Roma 1999, 50.

2 S. AUGRUSO-G.B. CALVIERI-P. DE VITA-G. MONTELEONE, Geografie verticali. L’edilizia sacra di una comunità calabrese, Qualecultura, Vibo Valentia 2001, 15.

 Antonietta Augruso
Docente di Religione
Via Eurialo, 91 - 00181 Roma

 

 

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