 |
 |
 |
 |
Uno
dei gesti più usuali nell’iniziare la giornata è guardarsi allo
specchio: lo facciamo abitualmente tutti. Non è la cieca obbedienza alle
dinamiche dell’apparire, né un semplice gioco della vanità. Guardiamo
l’immagine riflessa e ci fermiamo in silenzio, perché i tratti somatici
hanno una loro eloquenza. Sono istanti in cui si compiono viaggi
fecondi, si ritorna all’ingenua espressione della fanciullezza o a
quella inquieta dell’adolescenza. Il gesto aiuta a ripensare e ad
assumere i cambiamenti in una prospettiva meno frammentaria; consente di
aprire una finestra di senso sull’oggi.
Provenienze nascoste
Ci sono persone che vivono una grande fatica
in questa sorta di traversata. Altre invece non ne colgono l’importanza,
perché hanno scelto di vivere in superficie: si galleggia meglio! Ma
tanti altri, forse la maggioranza, temono quasi di essere destabilizzati
da un rapporto con le proprie radici e preferiscono negarsi l’impegno
della memoria.
La velocità programmata, della quale si è un
po’ tutti prigionieri, certo non è una buona alleata della memoria. La
memoria di ciò che siamo stati, di chi ci ha presentato la vita per la
prima volta e ce l’ha fatta conoscere attraverso i suoi occhi e le sue
mani, non sempre si concilia con la direzione che tentiamo di dare al
presente o vogliamo progettare per il futuro. Capita di dialogare con
tanta gente che nasconde le proprie origini e provenienza, che non parla
volentieri della propria famiglia, dalla quale matura un distacco simile
al disprezzo verso la propria cultura.
In tempi come i nostri, segnati dalla difesa
fondamentalista delle identità e dalla paura dell’altro, persino parlare
delle proprie radici etniche o geografiche potrebbe esporre a problemi
seri! C’è un rapporto tormentato e conflittuale con la verità; la
maschera protegge da
tante provocazioni, ma fa anche permanere
nell’oscillazione, il che è sempre un rischio, se non si hanno risorse
per gestirla. Però giunge sempre un momento in cui situazioni impreviste
obbligano la persona almeno a porsi il problema se percorre il sentiero
della menzogna o cerca di abbracciare con pazienza e speranza una storia
che non avrebbe mai voluto vivere! Solo con tanta fatica e dolore si
passa alla “consapevolezza”, cioè ad uno stile di vita fatto anche di
domande e critiche sulla storia che si eredita. Si tratta di percorsi
sicuramente difficili, ma fecondi.
Ristabilire relazioni più chiare e sensate
con il mondo da cui si proviene è come decidersi per un viaggio di
risignificazione.
Un percorso certamente non privo di gioie e di scoperte inaspettate: «Il
viaggio decongela l’identità, la rende mobile, itinerante, problematica
[…]. Ha un effetto di deritualizzazione dell’esperienza, che può, al
limite, intaccare i modi consueti dell’esperienza psichica e religiosa,
provocarne un ri-orientamento profondo».1
Tra paura e speranza
Si ritorna ai propri luoghi d’origine con
bagagli diversi: per qualcuno è una faticosa ripresa di dialogo con
conflitti che hanno lasciato ferite profonde; per altri è il lieto
ricordo, carico di nostalgia, per la trasparenza dei paesaggi tenui, per
i suoni, i sapori e i colori da anni dimenticati. Non è un lavoro di
archivio, né basta una presentazione in
power point
con l’albero genealogico della propria
famiglia. È quasi uno slalom
dell’anima tra paura e speranza, e non si
è sempre certi di mettere un evento al punto giusto.
Capita di frequente che la paura blocchi il
viaggio dentro le proprie emozioni e reazioni, perché non si ha
sufficiente coraggio, o si pensa di non potercela fare. Allora si tende
a fermarsi e richiudere la porta, ma prima o poi si è costretti a
riaprirla, perché qualcuno o qualcosa tornerà a bussare e a far
rimettere tutto in gioco. Sono momenti in cui bisogna anche creare delle
condizioni favorevoli. Una di queste è tentare di creare un sacro
silenzio di attesa, senza farsi travolgere né dalla volontà di capire
tutto e subito, né di trovare soluzioni immediate. L’altra è quella di
rimanere fermi nella convinzione che nessuno di noi è Dio. È una
professione d’amore nei confronti della stessa grandezza e finitezza
umana.
Per quanto si provi a dare una spiegazione di
causa ed effetto a tutto,non si è mai totalmente in possesso del mistero
dell’uomo. Non è un’abdicazione al fato, tutt’altro. Bisogna cercare di
desiderare un cuore aperto: conflitti apparentemente risolti riemergono
in situazioni imprevedibili. Giuseppe, figlio di Giacobbe e Rachele (cf
Gen 35,24) non avrebbe mai immaginato che il dialogo con la memoria
sarebbe ripartito con l’arrivo di una carestia.
Aurora e crepuscolo
In Egitto Giuseppe, alla corte dei potenti,
aveva tentato, forse senza riuscirci, di recidere i legami con una
memoria dolorosa. Lo dicono chiaramente i nomi scelti per i figli: il
primo Manasse
(«mi ha fatto dimenticare»), il secondo
Efraim
(«mi ha reso fecondo»). Ma l’afflizione e la
fecondità di Giuseppe, ora avvolto nelle usanze egiziane di corte,
appaiono misteriosamente sottoposte ad una prova dura.
Non è facile reinventarsi tutto, i frutti di
ogni albero dipendono dalle sue radici e dalla linfa che scorre tra i
suoi rami! La fuga dalle proprie radici, traumatica, casuale o
volontaria, per quanto possa anche essere accompagnata da successo e
fecondità, prima o poi sembra chiedere il “ritorno”. A volte sono i
bisogni essenziali a provocare incontri inaspettati e riaprire storie
seppellite nel pozzo profondo del passato. Il grano che la famiglia di
Giacobbe deve comprare sarà il pane senza il quale non ci si può sedere
a tavola, condividere e guardarsi in faccia. Che strano che sia proprio
Giuseppe a doverglielo vendere! I fratelli, da parte loro, sono quasi
costretti dagli eventi a disseppellirlo gradualmente dalla zona remota
dove lo avevano occultato (Gen 42,13; 42,21). Ma i pezzi del quadro si
ricompongono solo quando Giuseppe acconsente ad un Altro (nomina Dio per
tre volte in Gen 45) di entrare in questa storia fatta di bugie e di
fragilità umanissime, soprattutto quando esplicitamente parla della
storia come una realtà dove l’Altro non è, né rimane come un estraneo.
La storia di Giuseppe, così come altre storie bibliche, mette in luce un
altro aspetto: l’impegno di uno solo non basta.
Viene chiamata in causa la comunità e la sua
storia: come riprovare a sbrogliare i fili di una tela policroma, sulla
quale hanno passeggiato tanti piedi. A mano a mano che il lavoro procede
si costruisce un nuovo ethos,
un nuovo posto da vivere, più umanamente abitabile: «Si tratta di
convincersi che non si può pensare alcun esodo se prima non si condivide
una deportazione. Si tratta di lasciarsi inghiottire dalla balena».2
Si matura in compagnia delle fragilità comuni, perché si inizia a mutare
lo sguardo sulla vita. Giuseppe tenta più volte di riscattarsi dalla
sofferenza attraverso la semplice rivalsa. Ma questo è solo il primo
passo verso la ricomposizione della sua storia. Solo l’urlo del pianto e
la verità pronunciata nel rispetto del mistero (cf Gen 45,2) riaprono le
porte alla riconciliazione con i propri luoghi d’origine spesso
occultati da paura e rassegnazione.
Ripartire
Dialogare con la storia, cercare la propria
identità a volte smarrita non è questione di un giorno, ci sono anche i
silenziosi tagli con il passato. È necessario un
ritorno critico
verso il vissuto, mai solo dell’individuo. Un
paradigma è la storia biblica di Rut la moabita. Anche lei compie un
ritorno (Rut 1,14) ma non verso le proprie radici: il suo è un esodo,
assieme alla betlemita Noemi. La solidarietà con l’anziana Noemi e la
successiva integrazione nella comunità, fa di lei il prototipo di una
dedizione creativa alle origini e alla memoria, con immaginazione
tipicamente femminile.
Il ritorno non è solo rivisitazione ossessiva
del vissuto, forse chi è impoverito non può permettersi neanche questo
lusso! L’incontro con Booz, la nascita del bimbo (Rut 4), dicono che le
proprie radici si possono intrecciare con altre senza produrre distanze
gelide e istruzione. Il faticoso percorso con la memoria va accompagnato
dallo sguardo verso la luce che scende dall’alto: non siamo gli unici
artefici del nostro destino. Bisogna dare una
chance
anche alla leggerezza di chi non si sente al centro dell’universo e sa
che si può sempre ripartire: «Con
lieve cuore, con lieve mani / la vita prendere, la vita lasciare»
(Cristina Campo).
Note
1 F.
FERRAROTTI,
Partire, tornare. Viaggiatori e pellegrini alla fine del millennio,
Donzelli, Roma 1999, 50.
2 S.
AUGRUSO-G.B. CALVIERI-P. DE VITA-G. MONTELEONE,
Geografie verticali.
L’edilizia sacra di una comunità calabrese,
Qualecultura, Vibo Valentia 2001, 15.
Antonietta Augruso
Docente di Religione
Via Eurialo, 91 - 00181 Roma
 |