Il
titolo proposto per questa breve riflessione mi pare esprima bene una
linea di grande interesse nel dialogo ebraico-cristiano. Negli anni
postconciliari e anche con maggiore intensità in questi ultimi decenni,
il tema ha interessato vari ambiti di riflessione sia nelle chiese
cristiane sia nelle comunità ebraiche.
Va precisato che nel titolo l’espressione
“vita consacrata” si riferisce alla vita dei religiosi, poiché
potenzialmente ogni battezzato è consacrato a Dio. La vita dei
“religiosi”, potenzialmente ogni battezzato è consacrato a Dio. è detta
in modo peculiare “consacrata” perché impegna coloro che vi aderiscono a
vivere la vita battesimale con un particolare vincolo di radicalità, in
un cammino progressivo alla ricerca assoluta e totalizzante di Do solo,
orientandosi tutta la vita.
“ Con tutte le forze…”
(Dt 6,4-9).
Già in questa definizione mi pare si trovi un
primo e grande spazio di sintonia con l’ebraismo che vuole mantenersi
fedele alle sue radici.
Basti citare la professione di fede del pio
ebreo, lo Shema’: “Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio,
il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore,
con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do,
ti siano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando
ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai
e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno
come un pendaglio fra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua
casa e sulle tue porte» (Dt.6,4-9).
Questo ardore di far penetrare la parola di
Dio in tutto l’essere («tutto il cuore, tutta l’anima, tutte le forze»)
ha portato alcuni ebrei osservanti a una vita piena della parola di Dio
e i religiosi cristiani a vivere una forma di vita tutta orientata al
primato della Parola, attraverso la “preghiera continua” o “preghiera
del cuore” e la sua frequentazione assidua.
Nello
Shema’ si dice «con tutte le
forze», quelle spese per l’amore esclusivo di Dio: attuare i suoi
comandi e fare la sua volontà, che egli manifesta. Questo vale per gli
ebrei osservanti, in grado maggiore o minore: o vivendo una vita
“normale” nel timore di Dio e nell’osservanza nella Legge divina, oppure
facendo scelte di vita che privilegino un lavoro il quale lasci largo
spazio della giornata per lo studio della Parola e dei suoi
commentatori.
Così si vive in zone particolarmente
osservanti a Gerusalemme. Certo, queste a volte sono anche luoghi
fanaticamente intolleranti. Tuttavia, quando si riesce a stabilire un
rapporto personale con ebrei spiritualmente più profondi, si percepisce
una singolare sintonia, una vibrazione concorde rispetto ai grandi temi
della Rivelazione, una consolazione profonda nell’entrare nelle loro
case, dominate da quella Presenza: «…questi precetti li scriverai… sugli
stipiti della tua casa e sulle tue porte».
Ricordo ancora l’osservazione di un nostro
fratello sacerdote, invitato nella casa di uno di questi osservanti: «Mi
è sembrato di entrare in un edificio sacro: tutta la casa, povera e
sobria, era tappezzata di Libri sacri».
La stessa norma di legare i precetti come
segno alla mano e come pendaglio fra gli occhi, in realtà corrisponde a
un desiderio di esprimere a se stessi e agli altri, l’appartenenza
all’Unico Dio.
Tutto questo si può ritrovare nella vita
religiosa: nel rapporto così importante fra il lavoro e la preghiera;
nella cura di vivere in ambienti che manifestino la presenza di Dio;
nell’abito religioso,segno anche esteriore per sé e per gli altri.
Non ho sottolineato tutte queste “consonanze”
per tentare un’assimilazione che sarebbe falsa e approssimativa, poiché
le differenze sono in realtà grandi e sostanziali. Voglio dire che c’è
un “luogo” di sintonia in cui ebrei e cristiani possono realmente
comunicare, purché non ignorino e non dissimulino le differenze.
Fecondità e celibato
Nello stato religioso la rinuncia alle nozze
terrene è un punto che sembra discriminante e in qualche modo
inassimilabile per la spiritualità ebraica. In essa, infatti, la
generazione dei figli è così importante che la sterilità è considerata
un’onta per la donna; per l’uomo è quasi una morte, tanto che nella
Bibbia c’è il precetto del levirato per cui se un uomo muore senza figli
il fratello è tenuto a sposarne la vedova, «per suscitargli una
discendenza ». La continuità della propria vita nei figli è considerata
infatti una vera sopravvivenza.
Un altro motivo rende importante per alcuni
ebrei la generazione dei figli: la speranza di essere nella linea della
generazione del Messia. Tuttavia anche fra gli ebrei ci sono alcuni che
scelgono il celibato. Nella comunità di Qumran pare storicamente
accertato che ci fossero persone,sia uomini sia donne, che lo
sceglievano per dedicarsi totalmente alla parola di Dio. Un rabbi
diceva: «Cosa posso farci se lo studio della Torah ha preso possesso di
tutta la mia vita? Penseranno altri ad accrescere la comunità di
Israele!». Sono esempi lontani e sporadici. Rimane vero che la rinuncia
alle nozze è pienamente comprensibile solo in rapporto a Cristo e alla
vita futura di cui segna un anticipo già in questa vita.
La celebrazione dei «tempi sacri»
Un altro “luogo” d’incontro profondo con
l’ebraismo è la celebrazione dei “tempi sacri”. La “festa ebdomadaria”
per gli ebrei è il sabato, per i cristiani è la domenica; per tutti e
due è “giorno del Signore”, consacrato a lui. Giorno di riposo per
essere più liberi per la preghiera, per lo studio della Parola, per il
culto e, in misura e in forma diversa, per le opere di carità.
Certo il “giorno del Signore” oggi non incide
sufficientemente nella realtà di vita dei cristiani. Per questo la
testimonianza dei religiosi, che ne sperimentano la forza spirituale,
può esprimere la comunione col mondo ebraico, anche se il “profumo del
sabato”, come lo si vive presso le comunità osservanti d’Israele, ha una
sua peculiarità.
La Pasqua e la Pentecoste due feste fra le
maggiori sia per noi che per gli ebrei, creano rapporti profondi, anche
se invisibili e in gran parte non percepiti. La nostra Pasqua nata dalla
celebrazione pasquale ebraica, e l’Eucaristia che in essa è stata
istituita, ha con essa legami strettissimi. Questo rapporto si manifesta
maggiormente se si considera che per noi cristiani la Pasqua non si
celebra solo nel giorno di Pasqua, ma in ogni Eucaristia: quella
domenicale è la Pasqua della settimana.
Meno nota è la festa di
Shavu’ot
(delle Settimane) o Pentecoste.
Anche in essa il rapporto è
fortissimo: non solo perché il
dono dello Spirito è stato dato
agli apostoli in questa festa, ma
anche per un altro elemento importante. Infatti nella festa della
Pentecoste ebraica si legge la
storia
biblica di Rut, la donna straniera,
moabita, venuta a rifugiarsi
“sotto le ali della
Schekinah”
(la Presenza di Dio, la nube sulla
Tenda nel deserto): nel giorno
della Pentecoste l’annuncio degli
apostoli è stato ascoltato dai
rappresentanti
di tanti popoli, ciascuno
nella propria lingua, e il libro
di Rut ne è un richiamo.
La preghiera dei Salmi
Un altro “luogo per il dialogo” e forse
quello più totalmente comune, senza differenze, è la preghiera dei
Salmi. Sono infatti gli stessi testi, le stesse parole, le stesse
espressioni ad essere recitate o cantate. Dice un pensatore ebraico,
molto attento e rispettoso nei confronti del mondo cristiano: «Da due
millenni i conventi e i “ghetti” si incontrano misteriosamente in
questa“veglia di guardia” d’amore, per salmodiare in latino e in
ebraico gli inni dei pastori di Israele».
In alcuni monasteri vige ancora la
tradizione, dettata da s. Benedetto nella sua
Regola,
di recitare ogni settimana tutti i 150 Salmi, come si fa anche nella più
osservante tradizione ebraica. Per gli uni e per gli altri il Libro dei
Salmi non è una raccolta di canti e di poesie, ma rappresenta davvero un
Libro, uno dei libri biblici, in cui c’è uno svolgimento tematico
coerente.
Tesi che è ora sostenuta da alcuni esegeti
moderni con ragioni convincenti, e sostenuta o sottesa da molti studiosi
e oranti ebrei.
Naturalmente, questa vera unità fra ebrei e
cristiani nei testi fondamentali della preghiera è alquanto indebolita
dalla scelta, fatta dopo il Concilio per comprensibili motivi pastorali,
di omettere nella lettura e nel canto, e perfino nei testi scritti dei
libri liturgici, quelle parti dei salmi che possono essere meno
comprensibili per la nostra mentalità moderna e occidentale. Questo può
apparire scandaloso per un ebreo osservante che è stato educato a un
rispetto infinito per il testo scritto, tutto rivelato e tutto sacro, da
cui non può cadere nemmeno un iota, come dice Gesù nel discorso della
montagna.
Rimane il fatto oggettivo che la continua
lettura e rilettura, proclamazione e canto delle stesse parole sacre,
giorno dopo giorno, plasma il mondo interiore. Le categorie mentali e
spirituali che ne derivano, profondamente capaci di risuonare
all’unisono, creano le premesse per un dialogo sempre più aperto e
sincero, espressione dello Spirito Santo che ha operato in chi ha
scritto questi testi e che opera in chi li legge.
La lettura dell’Antico Testamento
Questa forza di comunione agisce
profondamente anche attraverso la lettura più ampia dell’Antico
Testamento. Non è solo la lettura degli stessi testi che crea questo
vincolo, ma anche la meditazione e la preghiera su di essi, che sempre
più può avvalersi dell’apporto dello studio e della meditazione ebraica
dei testi. Questi ci permettono di attingere a un’esegesi molto ricca,
che ci consente di mettere basi solide, valorizzate da un’antica
tradizione. Troviamo in questi commenti un’attenzione scrupolosa al
testo originale, e insieme aperture spirituali profonde e suggestive.
Talora, nei testi più antichi non ancora influenzati dalla polemica
anticristiana vi troviamo singolari luci cristologiche e
neotestamentarie.
Anche in questo rapporto con la parola di
Dio, la cui lettura sempre di più, per la grazia operante dello Spirito,
è raccomandata dalla Chiesa come il fondamento della vita orante di
tutti, la vita consacrata può avere un valore particolare nel creare
questo “luogo per il dialogo” a cui tutti i credenti sono chiamati.
L’attesa messianica ed escatologica
Accenno infine a un altro “luogo per il
dialogo”: l’attesa escatologica o messianica. Ultimamente forse si è un
po’ attenuata in alcuni ambienti ebraici, mentre si è esasperata (anche
in modo deviante) in altri; il che si dà, nei due sensi, anche nel mondo
cristiano.
Certamente la vita religiosa, se da una parte
anticipa le realtà future (cf LG 44), dall’altra è chiamata ad essere
caratterizzata da una particolare tensione dello spirito verso il
ritorno del Signore, verso i nuovi cieli e la nuova terra in cui abiterà
la giustizia e in cui ci sarà il riscatto di ogni realtà, del cosmo e
dell’uomo. Nelle nostre case religiose dovrebbe risuonare con
particolare intensità il grido delle prime assemblee cristiane: «Maranatha!
Vieni Signore Gesù!».
Se gli ebrei osservanti attendono e invocano
con ardore e lacrime la venuta del Messia, una venuta che segnerà la
scomparsa di tutte le realtà negative del nostro mondo: guerra,
malattia, morte, per noi cristiani è possibile associarci a loro
nell’invocare e affrettare il ritorno del Messia, non più sofferente, ma
glorioso, che farà nuove tutte le cose.
Agnese Magistretti
Piccola Famiglia dell’Annunziata
Via Casaglia, 75/7
40043 Marzabotto (Bologna)
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