A
molti potrebbe suonare paradossale, ma si può ben sostenere che per
comprendere il mondo entro cui nacque e si sviluppò il primo annuncio
evangelico vada accantonata la coppia “ebrei e cristiani”. La ragione è
molto semplice: nel primo secolo essa semplicemente non si dava. Perciò
per approfondire il dialogo tra Chiesa e popolo d’Israele svolto alla
luce dei libri rivelati del
Tanak
(la Scrittura d’Israele
composta da Torah, Profeti e Scritti) e della Bibbia cristiana (formata
da Antico e Nuovo Testamento) occorre ridimensionare la portata
costitutiva di quella coppia. In altre parole, bisogna cogliere l’invito
ad abbandonare la precomprensione stando alla quale, fin
dall’origine,tutti gli ebrei non erano cristiani e tutti i cristiani non
questa alternativa, invero, si è costituita e consolidata ed è giunta a
noi come fosse ovvia; tuttavia proprio il ripensamento storico,teologico
e spirituale avvenuto negli ultimi decenni ha rilevato la profonda
inadeguatezza di questo approccio. La considerazione vale anche quando,
abbandonato l’atteggiamento contrappositivo, si imbocca la via
dialogica.
Va da sé che la Bibbia
ebraica non conosce l’esistenza dei cristiani. Quegli scritti però
stabiliscono una distinzione molto chiara tra il popolo d’Israele e gli
altri popoli. Si tratta del tema, spesso arduo da comprendere,
dell’elezione. Si può esporre l’argomento on più modi. Tra essi uno dei
più sintetici è riferirsi a un passo dell’Esodo in cui sono elencate le
tre caratteristiche peculiari di Israele: essere popolo santo (vale a
dire distinto), regno di sacerdoti e proprietà particolare per il
Signore di tutta la terra (cf Es 19,5-6).
Nell’orizzonte
dell’universalità si crea perciò, in virtù dell’alleanza del Sinai,
un’articolazione che distingue Israele dalle Genti (gojim).
Certo, anche l’ebraismo ha attribuito un ruolo all’alleanza stipulata
con Abramo. Tuttavia non va dimenticato che essa, accanto ad altri
significati ripresi e sviluppati specialmente nella diaspora, individua
la centralità per il popolo ebraico tanto del tema della discendenza
genealogica quanto quella della terra di Israele (cf Gen 15,18).
Per quanto in
riferimento ad Abramo sia espressa una benedizione estesa a tutti i
popoli (Gen 12,3), il riferimento al patriarca e alla sua stirpe può
essere chiamato in causa anche per stabilire la particolarità ebraica.
Ebrei: testimoni
viventi
Può apparire più
singolare che anche gli scritti neotestamentari, pur affermando la
novità di Gesù Cristo, continuino a ragionare nell’orizzonte precedente.
È tuttavia fatto incontestabile che in essi la parola «cristiano » è di
uso assai raro – appare solo tre volte: At 11,26; 26,28; 1Pt 4,16 - e
sempre connessa a un rimando, almeno implicito, a una definizione che
viene dall’esterno.
Affermare, come è ormai
ripetuto anche ufficialmente da parte delle Chiese, che l’alleanza con
Israele non è mai stata revocata (Rm 11,29), significa far proprio il
presupposto di fondo, ribadito dal Nuovo Testamento, secondo cui
l’umanità si articola in due grande parti: Israele e le Genti.
Va da sé constatare che
l’essere giudeo o gentile assume un aspetto molto diverso se viene letto
in modo cultural-religioso, oppure se è inteso in maniera teologica. Per
tutti e due gli ap-procci resta comunque vero che si fraintende il mondo
e il messaggio del Nuovo Testamento se li si presenta in base a una
articolazione duale, allora inesistente, stando alla quale o si è ebrei
o si è cristiani. Sarebbe perciò già un notevole passo in avanti, sia
per l’autocomprensione della Chiesa sia per il dialogo con il popolo
ebraico, capire che il discorso andrebbe dipanato in modo quadruplice.
L’ottica
neotestamentaria guarda, infatti, il mondo servendosi di un prisma che
conosce ebrei credenti in Gesù Cristo e un numero assai più numeroso di
ebrei che non hanno fede in lui; un manipolo di gentili venuti alla fede
in Cristo e una gran massa di gentili che continuano a seguire i loro
antichi culti.
Tuttavia, questa
quadripartizione, sostanzialmente valida sul piano teologico ed
ecclesiologico, risulta sommaria e inadeguata su quello della
ricostruzione storica: in quel tempo, le linee di confine, qui indicate
come nette, furono, in realtà, assai mobili.
Pur essendo fuori
discussione l’importanza della svolta costituita dal Vaticano II, si
potrebbe affermare che il cuore della riscoperta di quegli anni si
incentrò sul fatto che gli ebrei furono considerati testimoni viventi
della fede biblica. In ciò vi è il grande merito e l’oggettivo limite di
questa impostazione. L’aggettivo «vivente» va in rotta di collisione con
un orientamento millenario che relega il popolo ebraico al passato o al
futuro ma nega un valore positivo al suo presente.
A lungo i cristiani
hanno pensato su per giù così: gli ebrei un tempo furono eletti da Dio a
portare nel mondo la sua parola; rifiutando il Messia, anzi mettendolo a
morte, essi persero la propria elezione la quale passò alla Chiesa
autodefinitasi nuovo Israele; tuttavia alla fine dei tempi gli ebrei si
convertiranno alla fede in Gesù Cristo accogliendo il battesimo.
Lo schema, detto
teologia della sostituzione, ha dominato la visione cristiana degli
ebrei per un tempo tanto esteso da lasciare tuttora strascichi evidenti.
In questo quadro agli ebrei era riservata una funzione positiva nel
passato e nel futuro, mentre il presente era accreditato di una capacità
testimoniale solo in virtù di una loro presunta durezza di cuore, di un
loro attaccamento alla lettera della Scrittura e della loro punizione
manifestasi in un’errabonda esistenza. Affermare che gli ebrei sono
testimoni di una fede, senza la quale non si darebbe neppure il
cristianesimo, rappresentò perciò un salto qualitativo senza precedenti.
Esso fece virare verso il polo positivo la relazione tra cristiani ed
ebrei.
Ortodossia e sistemi
religiosi
Non vi è dubbio che
affermare l’esistenza di rapporti intrinseci tra cristiani ed ebrei fu
una conseguenza dovuta anche al ritorno alla Bibbia che ha preparato e
sostenuto il Vaticano II. Tuttavia, proprio questa spinta di
rinnovamento ha avuto, tra le sue conseguenze, quella di far comprendere
negli ambiti ecclesiali più consapevoli che l’irrinunciabile amore
cristiano per le pagine dell’Antico (o Primo) Testamento non basta né
per comprendere l’ebraismo vivente, né per ascoltare gli ebrei, né per
dialogare con loro. Sia pure a segno capovolto, l’affermazione secondo
cui si è di fronte a testimoni viventi della fede biblica restava
impigliata nel pregiudizio in base al quale gli ebrei sono rimasti
all’Antico Testamento.
L’indagine storica ha
riaperto scenari in cui le origini cristiane cessano, per così dire, di
essere semplicemente tali per diventare sempre più eventi radicati entro
il polifonico ebraismo del primo secolo. Affermare l’ebraicità di Gesù e
della Chiesa primitiva comporta riprendere in mano grandi e complesse
questioni relative tanto alla nascita dell’annuncio evangelico quanto
alla comprensione del giudaismo. In virtù dell’approfondimento di questi
studi pure l’autorappresentazione rabbinica, che parla di una tradizione
orale che risaliva lungo una catena ininterrotta fino al Sinai, non può
essere accreditata di corrispondenze storiche attendibili.
Le indagini sulla
costruzione delle due «ortodossie» giudaica e cristiana hanno reso
chiaro che, per un approccio storiografico, l’«ortodossia» è un punto di
arrivo non di partenza. Essa si è formata lungo un percorso che, in
prospettiva storica, non corrisponde a quello in cui ebrei e cristiani
si autodefiniscono a partire dalla loro realtà religiosa. Pur
trattandosi di ambiti ancora relativamente ristretti, l’eco di questi
studi si sta diffondendo abbastanza velocemente, fino a diventare uno
dei fattori che ha indotto alcune componenti ufficiali cristiane ed
ebraiche a ribadire con fermezza determinate visioni tradizionali.
Questa nuova situazione
ha avuto ripercussioni anche nell’ambito del dialogo. Si è così giunti
alla complessa situazione odierna nella quale, mentre sono ben lungi
dall’essere disattivati i residui di scorie secolari, ci si trova già di
fronte a problemi largamente inediti legati a una ridefinizione di
confini storicamente molto più frastagliati e mobili rispetto a quelli
proposti dalle visioni ufficiali dei «sistemi religiosi » ebraico e
cristiano. La sfida del dialogo oggi passa anche lungo queste frontiere.
I tempi esigono che da entrambe le parti si imbocchino, con coraggio,
vie a un tempo originarie e nuove anche nell’ambito della riflessione
teologica.
È punto saldissimo e
indiscutibile che il popolo d’Israele colga come perenne e indefettibile
la propria alleanza con il Signore. È caratteristica peculiare degli
ultimi decenni affermare da parte della Chiesa il permanere di quella
alleanza. Per il popolo ebraico è sempre stato evidente che il patto
produce la distinzione Israele-Genti. Anche le comunità dei credenti in
Gesù Cristo cominciano a osservare in modo nuovo questa affermazione.
Per gli uni e per gli altri ciò dovrà comportare un profondo
ripensamento dell’opportunità di porre al centro del dialogo la coppia
“identitaria” cristiani ed ebrei.
Piero Stefani
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