n. 5
maggio 2009

 

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Come proseguire il dialogo
Alla luce della parola di Dio

di PIERO STEFANI

 

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A molti potrebbe suonare paradossale, ma si può ben sostenere che per comprendere il mondo entro cui nacque e si sviluppò il primo annuncio evangelico vada accantonata la coppia “ebrei e cristiani”. La ragione è molto semplice: nel primo secolo essa semplicemente non si dava. Perciò per approfondire il dialogo tra Chiesa e popolo d’Israele svolto alla luce dei libri rivelati del Tanak (la Scrittura d’Israele composta da Torah, Profeti e Scritti) e della Bibbia cristiana (formata da Antico e Nuovo Testamento) occorre ridimensionare la portata costitutiva di quella coppia. In altre parole, bisogna cogliere l’invito ad abbandonare la precomprensione stando alla quale, fin dall’origine,tutti gli ebrei non erano cristiani e tutti i cristiani non questa alternativa, invero, si è costituita e consolidata ed è giunta a noi come fosse ovvia; tuttavia proprio il ripensamento storico,teologico e spirituale avvenuto negli ultimi decenni ha rilevato la profonda inadeguatezza di questo approccio. La considerazione vale anche quando, abbandonato l’atteggiamento contrappositivo, si imbocca la via dialogica.

Va da sé che la Bibbia ebraica non conosce l’esistenza dei cristiani. Quegli scritti però stabiliscono una distinzione molto  chiara tra il popolo d’Israele e gli altri popoli. Si tratta del tema, spesso arduo da comprendere, dell’elezione. Si può esporre l’argomento on più modi. Tra essi uno dei più sintetici è riferirsi a un passo dell’Esodo in cui sono elencate le tre caratteristiche peculiari di Israele: essere popolo santo (vale a dire distinto), regno di sacerdoti e proprietà particolare per il Signore di tutta la terra (cf Es 19,5-6).

Nell’orizzonte dell’universalità si crea perciò, in virtù dell’alleanza del Sinai, un’articolazione che distingue Israele dalle Genti (gojim). Certo, anche l’ebraismo ha attribuito un ruolo all’alleanza stipulata con Abramo. Tuttavia non va dimenticato che essa, accanto ad altri significati ripresi e sviluppati specialmente nella diaspora, individua la centralità per il popolo ebraico tanto del tema della discendenza genealogica quanto quella della terra di Israele (cf Gen 15,18).

Per quanto in riferimento ad Abramo sia espressa una benedizione estesa a tutti i popoli (Gen 12,3), il riferimento al patriarca e alla sua stirpe può essere chiamato in causa anche per stabilire la particolarità ebraica.

Ebrei: testimoni viventi

Può apparire più singolare che anche gli scritti neotestamentari, pur affermando la novità di Gesù Cristo, continuino a ragionare nell’orizzonte precedente. È tuttavia fatto incontestabile che in essi la parola «cristiano » è di uso assai raro – appare solo tre volte: At 11,26; 26,28; 1Pt 4,16 - e sempre connessa a un rimando, almeno implicito, a una definizione che viene dall’esterno.

Affermare, come è ormai ripetuto anche ufficialmente da parte delle Chiese, che l’alleanza con Israele non è mai stata revocata (Rm 11,29), significa far proprio il presupposto di fondo, ribadito dal Nuovo Testamento, secondo cui l’umanità si articola in due grande parti: Israele e le Genti.

Va da sé constatare che l’essere giudeo o gentile assume un aspetto molto diverso se viene letto in modo cultural-religioso, oppure se è inteso in maniera teologica. Per tutti e due gli ap-procci resta comunque vero che si fraintende il mondo e il messaggio del Nuovo Testamento se li si presenta in base a una articolazione duale, allora inesistente, stando alla quale o si è ebrei o si è cristiani. Sarebbe perciò già un notevole passo in avanti, sia per l’autocomprensione della Chiesa sia per il dialogo con il popolo ebraico, capire che il discorso andrebbe dipanato in modo quadruplice.

L’ottica neotestamentaria guarda, infatti, il mondo servendosi di un prisma che conosce ebrei credenti in Gesù Cristo e un numero assai più numeroso di ebrei che non hanno fede in lui; un manipolo di gentili venuti alla fede in Cristo e una gran massa di gentili che continuano a seguire i loro antichi culti.

Tuttavia, questa quadripartizione, sostanzialmente valida sul piano teologico ed ecclesiologico, risulta sommaria e inadeguata su quello della ricostruzione storica: in quel tempo, le linee di confine, qui indicate come nette, furono, in realtà, assai mobili.

Pur essendo fuori discussione l’importanza della svolta costituita dal Vaticano II, si potrebbe affermare che il cuore della riscoperta di quegli anni si incentrò sul fatto che gli ebrei furono considerati testimoni viventi della fede biblica. In ciò vi è il grande merito e l’oggettivo limite di questa impostazione. L’aggettivo «vivente» va in rotta di collisione con un orientamento millenario che relega il popolo ebraico al passato o al futuro ma nega un valore positivo al suo presente.

A lungo i cristiani hanno pensato su per giù così: gli ebrei un tempo furono eletti da Dio a portare nel mondo la sua parola; rifiutando il Messia, anzi mettendolo a morte, essi persero la propria elezione la quale passò alla Chiesa autodefinitasi nuovo Israele; tuttavia alla fine dei tempi gli ebrei si convertiranno alla fede in Gesù Cristo accogliendo il battesimo.

Lo schema, detto teologia della sostituzione, ha dominato la visione cristiana degli ebrei per un tempo tanto esteso da lasciare tuttora strascichi evidenti. In questo quadro agli ebrei era riservata una funzione positiva nel passato e nel futuro, mentre il presente era accreditato di una capacità testimoniale solo in virtù di una loro presunta durezza di cuore, di un loro attaccamento alla lettera della Scrittura e della loro punizione manifestasi in un’errabonda esistenza. Affermare che gli ebrei sono testimoni di una fede, senza la quale non si darebbe neppure il cristianesimo, rappresentò perciò un salto qualitativo senza precedenti. Esso fece virare verso il polo positivo la relazione tra cristiani ed ebrei.

Ortodossia e sistemi religiosi

Non vi è dubbio che affermare l’esistenza di rapporti intrinseci tra cristiani ed ebrei fu una conseguenza dovuta anche al ritorno alla Bibbia che ha preparato e sostenuto il Vaticano II. Tuttavia, proprio questa spinta di rinnovamento ha avuto, tra le sue conseguenze, quella di far comprendere negli ambiti ecclesiali più consapevoli che l’irrinunciabile amore cristiano per le pagine dell’Antico (o Primo) Testamento non basta né per comprendere l’ebraismo vivente, né per ascoltare gli ebrei, né per dialogare con loro. Sia pure a segno capovolto, l’affermazione secondo cui si è di fronte a testimoni viventi della fede biblica restava impigliata nel pregiudizio in base al quale gli ebrei sono rimasti all’Antico Testamento.

L’indagine storica ha riaperto scenari in cui le origini cristiane cessano, per così dire, di essere semplicemente tali per diventare sempre più eventi radicati entro il polifonico ebraismo del primo secolo. Affermare l’ebraicità di Gesù e della Chiesa primitiva comporta riprendere in mano grandi e complesse questioni relative tanto alla nascita dell’annuncio evangelico quanto alla comprensione del giudaismo. In virtù dell’approfondimento di questi studi pure l’autorappresentazione rabbinica, che parla di una tradizione orale che risaliva lungo una catena ininterrotta fino al Sinai, non può essere accreditata di corrispondenze storiche attendibili.

Le indagini sulla costruzione delle due «ortodossie» giudaica e cristiana hanno reso chiaro che, per un approccio storiografico, l’«ortodossia» è un punto di arrivo non di partenza. Essa si è formata lungo un percorso che, in prospettiva storica, non corrisponde a quello in cui ebrei e cristiani si autodefiniscono a partire dalla loro realtà religiosa. Pur trattandosi di ambiti ancora relativamente ristretti, l’eco di questi studi si sta diffondendo abbastanza velocemente, fino a diventare uno dei fattori che ha indotto alcune componenti ufficiali cristiane ed ebraiche a ribadire con fermezza determinate visioni tradizionali.

Questa nuova situazione ha avuto ripercussioni anche nell’ambito del dialogo. Si è così giunti alla complessa situazione odierna nella quale, mentre sono ben lungi dall’essere disattivati i residui di scorie secolari, ci si trova già di fronte a problemi largamente inediti legati a una ridefinizione di confini storicamente molto più frastagliati e mobili rispetto a quelli proposti dalle visioni ufficiali dei «sistemi religiosi » ebraico e cristiano. La sfida del dialogo oggi passa anche lungo queste frontiere. I tempi esigono che da entrambe le parti si imbocchino, con coraggio, vie a un tempo originarie e nuove anche nell’ambito della riflessione teologica.

È punto saldissimo e indiscutibile che il popolo d’Israele colga come perenne e indefettibile la propria alleanza con il Signore. È caratteristica peculiare degli ultimi decenni affermare da parte della Chiesa il permanere di quella alleanza. Per il popolo ebraico è sempre stato evidente che il patto produce la distinzione Israele-Genti. Anche le comunità dei credenti in Gesù Cristo cominciano a osservare in modo nuovo questa affermazione. Per gli uni e per gli altri ciò dovrà comportare un profondo ripensamento dell’opportunità di porre al centro del dialogo la coppia “identitaria” cristiani ed ebrei.

Piero Stefani
Via Borgo di Sotto, 17 - 44100 Ferrara

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