Che
importanza avrebbe
che noi fossimo arche di scienza,
se poi non sapessimo
vivere in fraternità con il nostro prossimo?
(MOHANDAS GANDHI)
Raggiungere
il massimo delle conoscenze, a tal punto da essere considerato
un’arca di scienza,
non implica autosufficienza. Penso invece, che il sapere autentico metta
in sospensione l’autoreferenzialità. La vita è soggetta al cambiamento,
nessun giorno è identico a quello già vissuto. A tale consapevolezza si
viene educati.
Il senso degli eventi, a volte
indecifrabile, dipende anche da ciò che riteniamo importante o
significativo. Capita che qualcuno
attribuisca un’importanza enorme a fatti poco rilevanti. Punti di vista!
Succede così anche per il significato che attribuiamo alle parole. La
parola vissuta ha una maggiore incisività della semplice parola detta.
Cambiano le situazioni, e anche le parole: educazione
è una parola forte
(E. Morin). Per ognuno, educazione
non è solo un termine scritto nel dizionario: è ricordo, dolore, gioia
da trasmettere. A volte un’educazione sbagliata lascia segni indelebili,
e si riesce con molta fatica a superare e guarire gli errori frutto di
superficialità e incuria.
L’etimologia più diffusa, fa derivare
la parola educazione dal latino
educere
(condurre oltre): si tratta di una
realtà in progressione. I soggetti dell’educazione sono molteplici, la
storia ha tante facce: gli ambienti, i fatti, le persone e poi c’è
l’impatto che ogni singola persona, nel suo mondo dove vive, ha con la
realtà.
Esperire
«L’esperienza, che è un frutto
incomunicabile della sofferenza e del ricordo, e attraverso la quale si
compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna
scuola e in nessun corso. Ci sono corsi di filosofia ma non corsi di
saggezza; la saggezza si raggiunge per mezzo dell’esperienza spirituale»1.
Non avrei mai colto in profondità il
significato della morte se questa non mi avesse visitata: l’esperienza
educa, quando entra nelle fibre più nascoste del nostro essere. Allora
si comprende che la morte si vive, non si esorcizza né si dimentica. È
cosi quando si fa esperienza di amore e di dedizione: è molto di più che
sentirne parlare o limitarsi a leggere un libro avvincente
sull’argomento. L’esperienza non si riduce a ciò che accade; bisogna
educare ed educarsi, ad andare oltre e cogliere il senso.
Se consumiamo esperienze, senza
metabolizzare (interpretare, riflettere, gustare, tacere, ecc...), alla
fine ci siamo semplicemente omologati ad uno stile che non abbiamo
scelto e che magari non fa per noi: «Favorire la profondità della
consapevolezza, una vera apertura della mente e dei sensi al dato di
fatto, è per noi vitale come l’iniziazione all’arte della spiegazione e
dell’espressione».2
Molto dipende da come il soggetto si
pone dentro la totalità della sua storia e da ciò che lo circonda, dalle
sue personali elaborazioni o da ciò che ha potuto costituire un freno o
uno stimolo: anche nell’educazione chi ha più risorse potrebbe (non
sempre è così) trovarsi in una situazione di vantaggio rispetto a chi si
trova con strumenti molto limitati.
Da bambina facevo di tutto perché non
apprezzassero la mia buona educazione, perché essa mi appariva una sorta
di osservanza rigida delle buone maniere. Mi costringeva a non dire
parolacce, a non sporcarmi i vestiti e tante piccole accortezze, che in
realtà facevano piacere solo agli adulti. Perciò simpatizzavo per alcuni
coetanei che si potevano permettere di essere poco educati, anche se
leggevano meno libri di me e non possedevano bambole. Eppure i loro
volti erano quelli di bambini liberi e felici, perché meno protetti e
forse più esperti nell’affrontare la vita.
Allora pensavo che la strada educa
alla libertà, quando si percorre senza troppe difese. Bisogna evitare di
cadere nel tranello che una buona educazione sia quella che protegge e
nasconde dal rischio. L’educazione non è un percorso a senso unico, e la
libertà responsabile dell’educando va salvaguardata con attenzione:
«Discernimento, lingua, occhi orecchi e cuore diede loro perché
ragionassero. Li riempì di dottrina e intelligenza, e indicò loro il
bene e il male» (Sir 17,5-6).
Ricomporre
L’esperienza mette in movimento, è il
cuore di quel processo chiamato autoconsapevolezza: è il sentiero da
prendere per essere uomini nuovi. È importante ripeterlo: l’esperienza
ha tante
dimensioni. C’è il fatto che accade,
il movimento della memoria, ci sono le paure, lo stupore, ma anche il
dialogo con l’altro che porta ad un’azione e ad un progetto comuni. Fasi
non necessariamente ordinate in successione, ma indispensabili oggi,
nell’era del globale, per comprendere e affrontare
la sfida della complessità.
I discepoli di Emmaus, nella paura
avevano forse trascurato la memoria e lo stupore. Vanno via da
Gerusalemme, quando si comincia a diffondere la notizia della
risurrezione e sono molto presi unicamente dalla propria visione della
vicenda che li ha portati alla fuga (Lc 24,14). Gesù cammina in loro
compagnia, li aiuta a rimettere insieme le tessere del mosaico. Prima li
stimola alla narrazione, non si mostra estraneo, anzi vuole conoscere la
loro storia, e la loro personale interpretazione degli eventi: desidera
comprendere le esigenze più profonde, capire dove si è inceppato il loro
percorso. Cosa mancava? Coraggio, profondità, intuizione profetica?
Nella fase successiva li invita al
discernimento lucido e illuminato dalla fede del popolo: «Sciocchi e
tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti» (Lc 24,25). Il
momento conclusivo dell’incontro è paradigmatico per ogni educatore:
Gesù condivide la mensa con i due dopo averli
condotti oltre
(cioè
educati).
Stare a tavola con i propri discepoli
significa anche non dimenticare le loro necessità primarie. Capita che
gli educatori di professione pensino che la vita del discepolo sia
semplicemente quella che vedono nelle situazioni istituzionali: tra i
banchi di scuola o in riunioni occasionali. Ne viene fuori una visione
molto limitata dell’altro, a volte pure distorta. Stare a tavola vuol
dire tentare di sostare nella vita dell’altro senza pensare che la
possibile soluzione sia già negli schemi ordinati e ben confezionati.
Finalmente i due discepoli riprendono
fiducia e hanno il coraggio di tornare alle proprie radici annunciando
che il Maestro è risorto (Lc 24,33-35). La paura dei discepoli di Emmaus
si è ridimensionata, ora hanno un contatto più sano con gli eventi. E
ciò li conduce ad essere uomini liberi. La vita di ogni persona è un
mosaico da ricomporre, l’educatore deve ricordare che l’immagine che ne
verrà fuori non dovrà essere la sua. Esiste una reciprocità fatta di
rispetto, di vicinanza e di distanza, di ascolto e di attesa. È
necessario vigilare sulla tentazione di neutralizzare la differenza che
inquieta, senza dar nulla per scontato e fare attenzione alle sfumature,
alle frasi dette velocemente, a quelle dette solo con lo sguardo, e poi
non cedere al delirio di pensare ad un’educazione perfetta: non esiste,
non è un sistema. Il limite è costitutivo dell’essere umano e anch’esso
forse più di ogni altra dimensione può essere luogo educativo.
Liberare, amare
Non si è educati per sempre, perché
l’educazione è legata anche all’interiorità, che sfugge ad ogni
casistica. Possono mutare le tipologie di approccio, le posizioni
teoriche, il linguaggio e le tecniche, ma un‘educazione che non si
concepisce come processo, rischia di essere un sistema giustapposto.
Nel libro dell’Esodo subito dopo il
passaggio del mar Rosso il popolo del Signore è già stanco della sua
libertà, preferisce cipolle e tranquillità alla fatica della libertà (Es
16,2-4). Il cibo e l’acqua non mancheranno, il ruolo di Mosè fa
riflettere, più volte egli ripete al popolo che le loro mormorazioni
sono contro il Signore, il quale però l’acqua e il cibo non li fa
mancare, seppur secondo le necessità del momento (Es 16,16). Mosè cerca
di aiutare la sua gente a non collocarlo nel posto sbagliato, insiste su
questo punto: «Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il
Signore?» (Es 17,2).
In realtà comprende la fatica della
sua gente e parla col suo Signore: «Che farò io per questo popolo?
Ancora un poco e mi lapideranno!» (Es 17,4). Bisogna avere la pazienza
di mediare: in realtà Mosè si assume la sfiducia e il disorientamento
degli Israeliti e li presenta a Colui che è l’autore della loro libertà.
L’educazione chiede di essere
strumenti e di agire con flessibilità e autorevolezza; bisogna indicare
la strada, camminare insieme e fare memoria dell’oltre e soprattutto
amare. Chi ci sta di fronte e attende da discepolo va incoraggiato a non
arrendersi, a cercare la liberazione con le fatiche che questo comporta,
a mettere in gioco la propria creatività come i Lillipuziani nei viaggi
di Gulliver che solidarizzano tra di loro e trovano una via d’uscita:
entrare nel bosco anche se si incontrerà il lupo.
C’è poi un’altra dimensione che non
bisogna perdere di vista, la relazione educativa non è a senso unico:
«Chiunque insegna impara» (Seneca). L’educatore è il saggio, la persona
matura che non si arrocca sulla propria esperienza ma sa stupirsi e
interrogarsi sempre nuovamente.3
Ci sono elementi e dimensioni che
cambiano perché unicamente legati alla cultura di un gruppo o di un
popolo, altri che in qualche forma indicano la strada ad ogni essere
umano.
Sarà pure un limite, ma credo di non
poter comprendere in pieno l’insistenza sulla
spendibilità dei saperi:
mi sembra un’espressione a senso unico, ci sono saperi che non si
possono collocare in un’ottica simile. La sapienza ci suggerisce che c’è
un depositum
da ereditare da chi ha vissuto nella
saggezza, come dice il libro dei Proverbi in apertura: «Per conoscere la
sapienza e l’istruzione, per capire i detti intelligenti, per acquistare
una saggia educazione, equità, giustizia e rettitudine, per rendere
accorti gli inesperti e dare ai giovani conoscenza e riflessione» (Pr
1,3-4).
NOTE
1 J. MARITAIN,
Per una filosofia dell’educazione,
a cura di G. Galeazzi, La
Scuola, Brescia 2001, 87.
2 A. J. HESCHEL,
Il canto della libertà,
Qiqajon, Magnano 1996, 80.
3 Cf AA.VV.,
Le età della vita. Accelerazione
del tempo e identità sfuggente,
Glossa, Milano 2009, 42.
Antonietta Augruso
Docente di Religione
Via Eurialo, 91 - 00181
Roma