 |
 |
 |
 |
Il
Santo senza nome. Il Santo che il mondo ama. Ma anche il Santo che
predica nelle piazze, sulle spiagge (la celebre predica ai pesci), dai
pulpiti, nelle campagne e nelle città. Il Santo della fede che rinasce e
riprende vigore, colui che parla a vicini e lontani e muove il cuore a
conversione. Il Santo potente intercessore presso Dio dal quale -
giocando di sponda – si ottengono miracoli. Tanti appellativi per un
uomo del Medioevo, vissuto solo 36 anni (1195-1231) e di cui
storicamente non si conosce molto. A ben guardare il suo e quello di
Francesco d’Assisi sono destini incrociati.
Se
sant’Antonio è il teologo dotto autore dei
Sermoni,
opera impegnativa di commento ai Vangeli domenicali e festivi,
nonché
l’abile predicatore che per anni ha battuto le contrade del
Nord
Italia e del Sud della Francia, san Francesco ha sempre un po’ diffidato
della cultura e universalmente si è fatto la fama d cantore della
semplicità. Quest’ultimo poi è diventato il santo dei convertiti alla
radicalità della fede, delle persone colte, dei raffinati dello spirito,
dei praticanti la religiosità spoglia ed essenziale, e penne di grandi
poeti e letterati si sono misurate con lui.
D’altra parte il dotto Antonio è stato adottato dai poveri, dagli umili,
dalla gente semplice, che ha da sempre fiutato la sua sintonia totale
col Vangelo. Una curiosità: a diventare dottore della Chiesa (con il
titolo di
dottore evangelico)
sant’Antonio ci ha messo più di 700 anni .La proclamazione è avvenuta il
16 gennaio 1946, ad opera di Pio XII. Meglio tardi che mai.
Santi: se loro
sì, perché io no?
Dal
1200 a oggi ne è passata di acqua sotto i ponti. Ma i santi non
invecchiano mai. Il loro segreto, infatti, è la giovinezza perenne, che
attraversa e sfida i secoli. Non hanno bisogno di
maquillage
né
di altro genere di restauro dell’immagine, perché sono sorgenti
inesauribili di grazia e quindi «graziosi», comunicativi, comunque
sempre affidabili. Ma chi sono i santi, e perché tanta gente va loro
dietro? Ricordo un saggio strepitoso di David Maria Turoldo,
Perché a
te
Antonio?,
che riprende la domanda rivolta da frate Masseo a san Francesco (Fioretti
10).
Perché tanta euforia, freschezza di sentimenti e apertura del cuore
quando si entra in contatto con questi credenti tutti d’un pezzo?
Per
la fede cristiana i santi sono «il commento più importante del Vangelo,
l’incarnazione della parola incarnata di Dio» (H. U. von Balthasar), e a
loro i credenti guardano come a fratelli maggiori sotto la guida dei
quali compiere, su questa terra, il pellegrinaggio della vita e della
fede, in unità. «Se loro sì, perché io no?», esclamava nel quarto secolo
il già convertito sant’Agostino, sfidando se stesso e i suoi
contemporanei a desiderare cose grandi, la santità senza
se
e
senza
ma,
quella che Giovanni Paolo II ha definito «la misura alta della vita
cristiana ordinaria», quindi una meta per tutti. In ogni uomo, infatti,
c’è un grande «desiderio di cielo», come testimonia il coro del celebre
canto
Spiritual:
«Oh, quando i santi entreranno marciando [nel tuo regno], Signore, io
voglio essere uno di loro…». C’è una casa che ci attende oltre le
asperità di questa esistenza, una casa dove i drammi saranno ricomposti
e ogni lacrima asciugata. Anche se guardare al cielo non distrae dalla
terra, anzi rende ancora più attenti a valorizzare il prezioso dono
della vita e della fede, perché i talenti del Signore vanno fatti
fruttificare. Insomma, il pellegrinaggio dalla terra al cielo è simbolo
centrale della vita cristiana, e chi si fa pellegrino sulle tracce dei
santi, delle vestigia di Dio in questo mondo - come è avvenuto per sei
giorni, dal 15 al 20 febbraio 2010 nella Basilica di Padova, - vive
un’intensa e autentica esperienza di fede.
Reliquie che fanno
discutere
Dal
15 febbraio la Basilica del Santo è stata sommersa da un’onda pacifica
di pellegrini. Ho negli occhi la fiumana di gente che aspetta in lunghe
file ordinate, chi pregando, chi socializzando, chi ammutolito dallo
stupore di un’attesa carica di tensione spirituale. Mercoledì 17, inizio
della Quaresima ero in piazza già alle cinque del mattino in compagnia
di gruppi, coppie, singoli, famiglie. Faceva un freddo terribile, ma i
bambini presenti - il più piccolo avrà avuto 7/8 anni - apparivano
responsabilizzati dagli adulti circa l’insolita alzataccia e un
pellegrinaggio prima dell’alba. È arrivata in basilica una moltitudine
da ogni parte d’Italia: un 13 giugno in anticipo. Il popolo di Antonio è
fatto di gente dal cuore semplice, di ogni ceto sociale e livello
culturale. Gente che ancora oggi cerca un frammento di eternità da
portare nel proprio quotidiano. Per far fiorire la vita.
L’ostensione dei resti mortali (reliquie = ciò che resta) del corpo di
un santo, agli uomini del XXI secolo può apparire cosa d’altri tempi.
Una sorta di esibizionismo estremo che mette in mostra ossa vecchie di
secoli - quasi otto nel caso di sant’Antonio - per una venerazione che
anche alcuni cristiani guardano con sospetto. Il presupposto di questi
ragionamenti, sia da fuori che da dentro la Chiesa, è che la fede non
deve nutrirsi di segni, e che alcuni segni più di altri (le reliquie, in
particolare) sono del tutto sconvenienti. Questo modo di pensare, però,
dimostra poca o nulla conoscenza della grande tradizione cristiana che
ha radici ben piantate nel culto dei martiri (coloro che hanno
testimoniato Cristo fino a donare la vita) e, dal IV secolo, dei santi
(il primo «confessore» non martire a essere venerato nella liturgia
cattolica è san Martino di Tours).
La
gente accorre alle loro tombe, si reca in pellegrinaggio nei santuari
che ne custodiscono il corpo, perché questi fratelli nella fede sono via
sicura che conduce a Dio. Lui hanno servito in vita, e lui continuano a
indicare dal cielo facendosi ponte di grazia (e di grazie!) con la
terra. La gente lo sa e non si lascia intimidire dalle saccenti
discussioni in merito alla pietà popolare: fede di serie B che andrebbe
purificata (perché troppo spuria) e fatta crescere (perché ancora
infantile). Sono convinto che la pietà dei poveri - non solo di soldi -
non è una pietà povera, e se va evangelizzata è anche necessario
lasciarsi da essa evangelizzare.
Farsi vedere ed
essere visti
Ma
veniamo all’ostensione («ostentazione» ha scritto un giornale) del corpo
del Santo di Padova, fatta - nessuno lo può negare - in un tempo di «vetrinizzazione
sociale». Questa espressione, coniata dal sociologo Vanni Codeluppi, sta
a significare che ai nostri giorni molti individui sentono una spinta
irrefrenabile a stare in vetrina – quella più luccicante e fruttuosa è
naturalmente la Tv - così come le merci, mettendo in mostra e in scena
tutto di sé, il proprio corpo, ma ancor più l’intimità della propria
sfera privata. È la pseudocultura del
reality
show,
che in parte ha indotto e in parte rispecchia un clima sociale nel quale
identità fragili cercano conferma nell’apparire, nell’esserci, nella
sovraesposizione mediatica, fino a credersi qualcuno.
Scrive Codeluppi: «Tutto è organizzato e messo in scena per l’occhio
della videocamera, che lo registra e lo certifica attribuendogli una
patente di “vera realtà”. Una patente particolarmente importante in una
esistenza sempre più mediatizzata e artificiale. Probabilmente, il fatto
di essere guardati da qualcuno comunica alle persone che la loro vita ha
qualcosa di interessante. E chi non ha nulla da mettere in mostra - un
corpo, una competenza o un’abilità da ammirare – esibisce la sua sfera
più intima. Pur di farsi notare, arriva a
vetrinizzare
completamente i suoi sentimenti e le sue emozioni» (Tutti
divi. Vivere
in
vetrina,
Laterza, Bari 2009, 5). E questo comporta conseguenze perlomeno curiose:
mentre un tempo chi era famoso andava in televisione, oggi chi va in
televisione diventa famoso. Quindi, per andare e restare in Tv, si è
disposti più o meno a tutto.
L’ostensione del corpo Santo, che pure ha avuto una
webcam
puntata addosso 24 ore su 24 che rimandava le immagini in diretta nel
sito ufficiale dell’evento (www.santantonio.org/ostensionedelsanto2010),
ci aiuta a capire la differenza tra
essere visti
e
farsi vedere.
Nel secondo caso è il soggetto che compie uno sforzo titanico, sostenuto
da robuste dosi di narcisismo, per tenere a ogni costo la scena,
terrorizzato dalla paura di essere risucchiato e scomparire nel nulla,
nel non-essere- visto-da-nessuno. Abbiamo appena detto che per molti
nostri contemporanei l’anonimato forzato, il non essere
on
air,
corrisponde alla morte sociale.
Sant’Antonio, e con lui ogni vero testimone della fede di ieri e di
oggi, non ha bisogno di mostrarsi per essere visto. Il fatto che sia
stato visibile (guardabile in una cassa di vetro) ha rappresentato solo
un’occasione in più per incontralo e comunicare con lui. È la gente a
cercarlo e a metterlo al centro, e questo da otto secoli, senza tregua.
Le folle accorse a questa ostensione del suo corpo, inoltre, hanno
incontrato una figura solida, reale, da interpellare, con la quale
dialogare entrando in un rapporto vitale destinato a continuare nel
tempo.
«Caro sant’Antonio…»
Nei
sei giorni di ostensione decine di migliaia di suppliche sono state
depositate in una teca ai piedi della cassa di sant’Antonio. Ne ho lette
molte, sia di dolci che di vibranti, sia di semplici che di emotivamente
sovraccariche, ma tra tutte una mi ha colpito: «Caro san’Antonio, ti
chiedo di essere felice nella mia vita come tu lo sei stato nella tua,
grazie, Lina». Questa donna, che ha capito tutto di sant’Antonio, ha
capito tutto della fede.
Ugo Sartorio ofmconv
Direttore de
Il
Messaggero di Sant’Antonio
Via Orto Botanico, 11 – 35123 Padova
 |