n. 4
aprile 2010

 

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Reinventare le diaconie
in una società in trasformazione

di BRUNO SECONDIN

 

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Da quanto tempo è che si parla di nuovi poveri, di nuove emergenze e quindi di nuove forme di presenza e di diaconia? Da molto tempo, decenni senza dubbio. Eppure non si smetterà mai di parlare di questo tema. Non solo perché è sempre vero quanto Gesù dice: «i poveri l avete sempre con voi» (Gv 12,8); ma anche e soprattutto perché la società cambia, le circostanze impreviste pure e le improvvise urgenze si moltiplicano oggi, più di ieri.

Se i cambi epocali a cui assistiamo ci offrono occasione di gustare tante novità e di conoscere mille nuove possibilità di vita e di comunicazione, di lavoro e di garanzia, di festa e di cure, e mille altre cose, si moltiplicano pure i risvolti difficili, gli effetti negativi prodotti proprio dalle stesse nuove conquiste umane.

Contraddizioni palesi

Infatti alla nuova economia globalizzata che sposta capitali da un continente  all’altro, che arricchisce nazioni fino a ieri misere, che apporta benessere e opulenza dove prima c’erano steppe e nomadismo, si affiancano i nuovi diseredati, vittime della dislocazione selvaggia che spianta fabbriche e tradizioni industriali consolidate, per guadagnare altrove con manodopera di infimo prezzo, per inquinare altrove con più libertà, e anzi con onori e privilegi.

Alla nuova capacità di informare sugli standard di vita evoluta e mostrare i vantaggi del benessere, fino al consumismo sprecone e spensierato - le nuove comunicazioni fanno vedere in Occidente paradisi incredibili - si affiancano i milioni di poveri che devono affrontare la desertificazione progrediente, o i regimi violentatori, o le repressioni dittatoriali o fondamentaliste, e quindi fuggono verso i “paradisi” telediffusi. E sono milioni allora gli emigranti che attraversano deserti e oceani in cerca di fortuna; milioni quelli che fuggono dall’oppressione e dalla fame, milioni anche le vittime per mare e per terra di traversate impossibili; milioni gli illusi di un benessere che poi li tradisce e li abbandona.

E dentro le grandi nazioni progredite, i nuovi arrivati, abbacinati dal miraggio di una vita facile e di un guadagno veloce, si trovano spesso con la più amara delusione: schiavizzati dai mercanti del lavoro nero, venduti e comprati dai sensali del vizio e del mercato sessuale, sfruttati dai profittatori che sotto parvenze di solidarietà li umiliano fino alla fame, cacciati dai razzisti che non hanno scrupoli a umiliarli, schedarli e irriderli.

E nelle risorse originali della nuova bioetica e delle biodiversità quante nuove possibilità non ci sono, per supplire alle carenze e ai disastri del supersviluppo che

tutto inquina, e mettere a rischio avvelenamento? Ma nello stesso tempo sono le popolazioni più deboli che vengono usate come cavie o che vengono derubate delle loro riserve di biodiversità, a vantaggio delle solite multinazionali senza pietà e senza scrupoli, che accumulano ricchezza ingiusta.

E si potrebbe continuare con i disastri che combinano le guerre a bassa tensione di cui poco si parla, eppure fanno morti e devastazioni e umiliazioni che lasceranno il segno per decenni. Le armi con cui si combattono sono prodotte dalle nostre industrie che così danno da mangiare a tante nostre famiglie, ma generano morte altrove. Si potrebbe ancora aggiungere il dissesto che  hanno provocato le grandi crisi delle banche americane innestando a domino un dissesto mondiale di cui ancora non si vede la fine, ma di cui si toccano sotto casa gli effetti destabilizzanti con la cassa integrazione e la disoccupazione. Si potrebbe ancora dire qualche cosa della corruzione sociale e politica che ha effetti deflagratori sulla coscienza collettiva: dilapidando il patrimonio di valori e rendendo plausibile ogni sotterfugio e ogni immoralità.

Diaconie da reinventare

Abbiamo ereditato mille forme di risposte ai mali del passato: diaconie benemerite, gloriose storie di iniziative e di istituzioni benefiche, abitudini alla solidarietà e all’aiuto reciproco, spirito di iniziativa che alimenta in modo spontaneo la generosità delle parrocchie, perfino premi alla creatività originale dei samaritani di oggi.

La vita religiosa in questo ambito ha senza dubbio dei grandi meriti: non solo per la profezia ormai riconosciuta e “canonizzata” delle fondatrici e dei fondatori, ma anche per la fedeltà creativa e l’inventiva sempre accesa dai loro eredi. E sono giunte fino a noi mille forme di questa diaconia che hanno fatto feconda la parola del Vangelo e hanno riscattato dalle tenebre della sofferenza e dell’emarginazione milioni di “ultimi”.

Ma proprio questa preziosa identità e questa memoria deve diventare oggi nuova progettualità, nuova passione per Dio e per l’umanità, nuova profezia di solidarietà e di liberazione. Altrimenti le mille forme di diaconia ereditate rischiano di diventare delle risposte sfocate, perché date a domande e urgenze che sono cambiate, che esistevano altrove e in passato. Mentre oggi urgono altre domande e altre sfide: a cui bisogna dare risposte concrete e acculturate, generose e audaci.

Si legge su un parapetto di Roma, lungo il Tevere, questo graffito: “Il futuro non è più quello di una volta”. Frase perfetta nella sua semplicità. Ecco allora la domanda opportuna: “Quale è il futuro del nostro passato, perché la memoria non basta a nessuno più?”. E la risposta non può essere già confezionata e organizzata. Deve piuttosto nascere da quattro passaggi indispensabili. Possiamo anche chiamarli quattro pro.

Ascoltare prima di tutte le nuove provocazioni, le sfide che ci vengono dalle situazioni di emergenza, dai cambiamenti in atto, inediti e imprevisti, sconcertanti

e a volte anche scandalosi. Poi reagire con un senso evangelico e una lata caritas, cioè un animo grande e appassionato, e quindi sentire che bisogna elaborare un progetto che sia vera risposta all’emergenza, ma anche radicato nella fede e nel senso ecclesiale. Un terzo passaggio consiste nella consapevolezza e nella pazienza di dare forma al progetto pensato e maturato attraverso un processo di realizzazione, che conosce passaggi oscuri e non solo entusiasmi, attraverso tentativi e parzialità, sogni e pianti. Infine l’ultimo passo è il rivelarsi di un prodotto finale, frutto di questi passaggi, tutti indispensabili, che danno corpo alle buone intenzioni.

Questo prodotto non va neanche lui sacralizzato – si ricadrebbe nella rigidità precedente e nella manutenzione svogliata – ma conservato solo fino a che è risposta vera a domande vere. Pronti a ripartire di nuovo dalle provocazioni, quando i mutamenti si accelerano e le soluzioni hanno bisogno di nuova esplorazione e inventiva, e non di pura conservazione impaurita e pigra. E non si tratta di solo malessere per stili di diaconia che invecchiano o che incontrano ostacoli imprevisti, ma di esercizio della fede indagante, di capacità di scoprire e ascoltare gli appelli nuovi di Dio, per risvegliare i semi di futuro insiti nei carismi preziosi.

Raccontare Dio con l’amore

Questo in fondo sono state le diaconie gloriose e storicamente consolidate. Questo devono essere le nuove diaconie, adeguate alle sfide e urgenze attuali.

Se nel XIX secolo molte famiglie religiose sono nate per venire in aiuto alle giovani “pericolanti” in un mondo contadino e pre-industriale, mondo di fame e di ignoranza, oggi le giovani “pericolanti” sono quelle schiavizzate con brutalità dai mercanti del sesso, ma anche quelle dominate dal fascino dell’effimero, dalla libertà

precoce non solo sessuale ma anche educativa, dalle droghe e dall’alcol, dai miti della bellezza e del successo facile. Ragazze svuotate di senso morale e di valori da mille occasioni di spettacoli e incontri. Bisogna trovare nuove forme di diaconia prima che la generazione ventura prenda in mano la loro e la nostra storia con un vuoto abissale di valori e di progetti seri. Bisogna concentrare le nostre risorse nel capire questa gioventù che si sta di nuovo bruciando, e dare ai giovani la possibilità di non sprofondare in abissi di degrado e di vuoto. E non bastano le tradizionali forme.

Se nei secoli passati la scuola era privilegio di pochi e sono quindi nate istituzioni scolastiche in gran quantità per porvi rimedio e dare a tutti una chance educativa, mentre lo Stato non sapeva che fare. Con la conseguenza oggi che abbiamo ereditato un gran numero di scuole cattoliche che oggi non riescono a sopravvivere. La stessa cosa vale per l’assistenza agli anziani con le case a loro dedicate e per la sanità nei luoghi meno favoriti. Vale anche lo stesso discorso per gli asili infantili e per gli orfanotrofi, per gli internati (o collegi) e per le mense sociali, e via dicendo. Ultimamente tutti questi ambiti mostrano altre urgenze, oltre la nostra gloriosa eredità. E quindi chiamano a nuove uscite coraggiose e nuova esplorazione.

Oggi altre sono le carenze di cui soffre la società e per le quali lo Stato non riesce a porre rimedio: sono gli immigrati senza permessi e quindi che vivono in semi- clandestinità, loro e anche i loro figli; i bambini che fanno i mendicanti, forzati dai genitori o dai loro aguzzini; sono i lavoratori che lungo la strada ogni mattina aspettano il caporale che passi col furgoncino e poi lavorano il giorno intero in condizioni da schiavi e con una paga da fame; sono i disoccupati che, per colpa dei loro datori di lavoro che non hanno saputo gestire la fabbrica con onestà e intraprendenza, ora si trovano sul lastrico, con una famiglia da mantenere e un mutuo da pagare; sono gli impoveriti della società opulenta che sono soli e tristi e diventano barboni,vite di scarto; sono i giovani che si danno allo sballo della notte,

specie il sabato, e spesso si schiantano contro qualche muro rientrando a casa dopo le sbornie di alcol, exstasis e balli rumorosi, e lasciano le famiglie nel pianto per sempre.

E ancora grida anche al cospetto di Dio la situazione di degrado in cui si trovano i clandestini nei “centri di identificazione provvisoria”: spiantati dalle loro radici, scorticati da viaggi avventurosi, ammucchiati in alloggi indecenti, violentati in mille modi da chi li ha trasportati, e ora in balia delle più strane forme di controllo e di pregiudizio. La loro sorte (se va bene, quando va bene) è il permesso di soggiorno senza alcuna garanzia di un lavoro, di una casa, di una integrazione facile. E quando va male il rimpatrio forzato come delinquenti, il ritorno alla miseria per ripartire di nuovo e attraversare deserti aridi e mari che inghiottono come pesce cani, oppure lunghi viaggi nascosti nei doppi fondi dei camions, nelle stive delle navi mercantili. Migliaia, centinaia di migliaia di questi fantasmi, di questi senza identità e dignità, si aggirano per l’Europa: la nostra coscienza di religiosi non può dormire tranquilla.

Diaconie planetarie

Non basta più dare un pane, un vestito, una mensa: ci vuole un’azione politica di grande efficacia, una sollevazione delle coscienze, una sfida alla paura e al pregiudizio: per cambiare radicalmente la società e la sua mentalità. Oggi più che le opere concrete- che sempre ci vogliono, certo - è urgente una mobilitazione collettiva, un risveglio delle coscienze, un sollevamento della ragione, per cambiare approccio a tutti questi problemi. In passato erano le opere (anzitutto dal piccolo, dal locale) a mostrare la presa di coscienza, a creare un movimento “rivoluzionario” in crescendo. Oggi ci vogliono nuove forme di partecipazione, movimenti di opinioni, gesti significativi che profanano le malvagie convinzioni, i perbenismi e le difese razziste. Clamorose proteste che “bucano” la cortina di omertà che tutto rende opaco.

Certe Congregazioni religiose che alzano la voce, utilizzano i nuovi mezzi di comunicazione per denunciare, organizzano manifestazioni clamorose di solidarietà, di disobbedienza civile, di solidarietà intelligente e a vaste dimensioni (si pensi per esempio al commercio equo e solidale, alle organizzazioni non-profit, alle banche etiche, alle campagne televisive, e via dicendo) con risonanza vasta e a volte sconcerto dei benpensanti e dei perbenisti: sono esse le inventrici delle nuove diaconie di cui desidero vedere la nascita. Non opere murarie soltanto, non solo le mille e mille iniziative concrete di carità e presenza – cose sempre preziose – ma anche la mobilitazione dell’opinione pubblica, la sfida contro le lobbies assassine che sfruttano tutti, contro ogni razzismo protezionista e ogni ipocrisia legalista che consente (di nascosto) violenze e massacri psichici e culturali, invadenze politiche e pressioni tiranniche sui più deboli.

Se i religiosi non si affacciano - almeno qualche volta - su questo nuovo orizzonte, se non si preparano ad abitarlo con profezia, per una nuova forma di diaconia evangelica a largo raggio e non a cespuglio, se non prendono a cuore anche queste forme di servizio e di solidarietà, finiranno per illanguidire nelle loro mura sempre più fredde e pesanti, sempre meno luogo di verità e di carisma profetico, e più che altro idolo sacro che ingoia i suoi stessi custodi, costretti a mille sotterfugi per tirare avanti, ma senza dignità.

Le nuove diaconie presto risulteranno la cartina di tornasole di una fedeltà insieme creativa e piena di fantasia, di chi davvero si guarda dal vivere a cespuglio, con una visuale stretta e meschina, e spazia invece su orizzonti nuovi,vasti, carichi di sfide e di attese.

     Bruno Secondin o.carm.
   Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma

 

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