Da
quanto tempo è che si parla di nuovi poveri, di nuove emergenze e quindi
di nuove forme di presenza e di diaconia? Da molto tempo, decenni senza
dubbio. Eppure non si smetterà mai di parlare di questo tema. Non solo
perché è sempre vero quanto Gesù dice: «i poveri l avete sempre con voi»
(Gv 12,8); ma anche e soprattutto perché la società cambia, le
circostanze impreviste pure e le improvvise urgenze si moltiplicano
oggi, più di ieri.
Se i
cambi epocali a cui assistiamo ci offrono occasione di gustare tante
novità e di conoscere mille nuove possibilità di vita e di
comunicazione, di lavoro e di garanzia, di festa e di cure, e mille
altre cose, si moltiplicano pure i risvolti difficili, gli effetti
negativi prodotti proprio dalle stesse nuove conquiste umane.
Contraddizioni palesi
Infatti alla nuova economia globalizzata che sposta capitali da un
continente all’altro, che arricchisce nazioni fino a ieri misere, che
apporta benessere e opulenza dove prima c’erano steppe e nomadismo, si
affiancano i nuovi diseredati, vittime della dislocazione selvaggia che
spianta fabbriche e tradizioni industriali consolidate, per guadagnare
altrove con manodopera di infimo prezzo, per inquinare altrove con più
libertà, e anzi con onori e privilegi.
Alla
nuova capacità di informare sugli
standard
di
vita evoluta e mostrare i vantaggi del benessere, fino al consumismo
sprecone e spensierato - le nuove comunicazioni fanno vedere in
Occidente paradisi incredibili - si affiancano i milioni di poveri che
devono affrontare la desertificazione progrediente, o i regimi
violentatori, o le repressioni dittatoriali o fondamentaliste, e quindi
fuggono verso i “paradisi” telediffusi. E sono milioni allora gli
emigranti che attraversano deserti e oceani in cerca di fortuna; milioni
quelli che fuggono dall’oppressione e dalla fame, milioni anche le
vittime per mare e per terra di traversate impossibili; milioni gli
illusi di un benessere che poi li tradisce e li abbandona.
E
dentro le grandi nazioni progredite, i nuovi arrivati, abbacinati dal
miraggio di una vita facile e di un guadagno veloce, si trovano spesso
con la più amara delusione: schiavizzati dai mercanti del lavoro nero,
venduti e comprati dai sensali del vizio e del mercato sessuale,
sfruttati dai profittatori che sotto parvenze di solidarietà li umiliano
fino alla fame, cacciati dai razzisti che non hanno scrupoli a
umiliarli, schedarli e irriderli.
E
nelle risorse originali della nuova bioetica e delle biodiversità quante
nuove possibilità non ci sono, per supplire alle carenze e ai disastri
del supersviluppo che
tutto inquina, e mettere a rischio avvelenamento? Ma nello stesso tempo
sono le popolazioni più deboli che vengono usate come cavie o che
vengono derubate delle loro riserve di biodiversità, a vantaggio delle
solite multinazionali senza pietà e senza scrupoli, che accumulano
ricchezza ingiusta.
E si
potrebbe continuare con i disastri che combinano le guerre a bassa
tensione di cui poco si parla, eppure fanno morti e devastazioni e
umiliazioni che lasceranno il segno per decenni. Le armi con cui si
combattono sono prodotte dalle nostre industrie che così danno da
mangiare a tante nostre famiglie, ma generano morte altrove. Si potrebbe
ancora aggiungere il dissesto che hanno provocato le grandi crisi delle
banche americane innestando a domino un dissesto mondiale di cui ancora
non si vede la fine, ma di cui si toccano sotto casa gli effetti
destabilizzanti con la cassa integrazione e la disoccupazione. Si
potrebbe ancora dire qualche cosa della corruzione sociale e politica
che ha effetti deflagratori sulla coscienza collettiva: dilapidando il
patrimonio di valori e rendendo plausibile ogni sotterfugio e ogni
immoralità.
Diaconie da
reinventare
Abbiamo ereditato mille forme di risposte ai mali del passato: diaconie
benemerite, gloriose storie di iniziative e di istituzioni benefiche,
abitudini alla solidarietà e all’aiuto reciproco, spirito di iniziativa
che alimenta in modo spontaneo la generosità delle parrocchie, perfino
premi alla creatività originale dei samaritani di oggi.
La
vita religiosa in questo ambito ha senza dubbio dei grandi meriti: non
solo per la profezia ormai riconosciuta e “canonizzata” delle fondatrici
e dei fondatori, ma anche per la fedeltà creativa e l’inventiva sempre
accesa dai loro eredi. E sono giunte fino a noi mille forme di questa
diaconia che hanno fatto feconda la parola del Vangelo e hanno
riscattato dalle tenebre della sofferenza e dell’emarginazione milioni
di “ultimi”.
Ma
proprio questa preziosa identità e questa memoria deve diventare oggi
nuova progettualità, nuova passione per Dio e per l’umanità, nuova
profezia di solidarietà e di liberazione. Altrimenti le mille forme di
diaconia ereditate rischiano di diventare delle risposte sfocate, perché
date a domande e urgenze che sono cambiate, che esistevano altrove e in
passato. Mentre oggi urgono altre domande e altre sfide: a cui bisogna
dare risposte concrete e acculturate, generose e audaci.
Si
legge su un parapetto di Roma, lungo il Tevere, questo graffito: “Il
futuro non è più quello di una volta”. Frase perfetta nella sua
semplicità. Ecco allora la domanda opportuna: “Quale è il futuro del
nostro passato, perché la memoria non basta a nessuno più?”. E la
risposta non può essere già confezionata e organizzata. Deve piuttosto
nascere da quattro passaggi indispensabili. Possiamo anche chiamarli
quattro
pro.
Ascoltare prima di tutte le nuove
provocazioni,
le sfide che ci vengono dalle situazioni di emergenza, dai cambiamenti
in atto, inediti e imprevisti, sconcertanti
e a
volte anche scandalosi. Poi reagire con un senso evangelico e una
lata caritas,
cioè un animo grande e appassionato, e quindi sentire che bisogna
elaborare un
progetto
che
sia vera risposta all’emergenza, ma anche radicato nella fede e nel
senso ecclesiale. Un terzo passaggio consiste nella consapevolezza e
nella pazienza di dare forma al progetto pensato e maturato attraverso
un
processo
di
realizzazione, che conosce passaggi oscuri e non solo entusiasmi,
attraverso tentativi e parzialità, sogni e pianti. Infine l’ultimo passo
è il rivelarsi di un prodotto
finale, frutto di questi passaggi, tutti indispensabili, che danno corpo
alle buone intenzioni.
Questo prodotto non va neanche lui sacralizzato – si ricadrebbe nella
rigidità precedente e nella manutenzione svogliata – ma conservato solo
fino a che è risposta vera a domande vere. Pronti a ripartire di nuovo
dalle provocazioni, quando i mutamenti si accelerano e le soluzioni
hanno bisogno di nuova esplorazione e inventiva, e non di pura
conservazione impaurita e pigra. E non si tratta di solo malessere per
stili di diaconia che invecchiano o che incontrano ostacoli imprevisti,
ma di esercizio della fede indagante, di capacità di scoprire e
ascoltare gli appelli nuovi di Dio, per risvegliare i semi di futuro
insiti nei carismi preziosi.
Raccontare Dio con
l’amore
Questo in fondo sono state le diaconie gloriose e storicamente
consolidate. Questo devono essere le nuove diaconie, adeguate alle sfide
e urgenze attuali.
Se
nel XIX secolo molte famiglie religiose sono nate per venire in aiuto
alle giovani “pericolanti” in un mondo contadino e pre-industriale,
mondo di fame e di ignoranza, oggi le giovani “pericolanti” sono quelle
schiavizzate con brutalità dai mercanti del sesso, ma anche quelle
dominate dal fascino dell’effimero, dalla libertà
precoce non solo sessuale ma anche educativa, dalle droghe e dall’alcol,
dai miti della bellezza e del successo facile. Ragazze svuotate di senso
morale e di valori da mille occasioni di spettacoli e incontri. Bisogna
trovare nuove forme di diaconia prima che la generazione ventura prenda
in mano la loro e la nostra storia con un vuoto abissale di valori e di
progetti seri. Bisogna concentrare le nostre risorse nel capire questa
gioventù
che
si sta di nuovo
bruciando,
e dare ai giovani la possibilità di non sprofondare in abissi di degrado
e di vuoto. E non bastano le tradizionali forme.
Se
nei secoli passati la scuola era privilegio di pochi e sono quindi nate
istituzioni scolastiche in gran quantità per porvi rimedio e dare a
tutti una
chance
educativa, mentre lo Stato non sapeva che fare. Con la conseguenza oggi
che abbiamo ereditato un gran numero di scuole cattoliche che oggi non
riescono a sopravvivere. La stessa cosa vale per l’assistenza agli
anziani con le case a loro dedicate e per la sanità nei luoghi meno
favoriti. Vale anche lo stesso discorso per gli asili infantili e per
gli orfanotrofi, per gli internati (o collegi) e per le mense sociali, e
via dicendo. Ultimamente tutti questi ambiti mostrano altre urgenze,
oltre la nostra gloriosa eredità. E quindi chiamano a nuove uscite
coraggiose e nuova esplorazione.
Oggi
altre sono le carenze di cui soffre la società e per le quali lo Stato
non riesce a porre rimedio: sono gli immigrati senza permessi e quindi
che vivono in semi- clandestinità, loro e anche i loro figli; i bambini
che fanno i mendicanti, forzati dai genitori o dai loro aguzzini; sono i
lavoratori che lungo la strada ogni mattina aspettano il caporale che
passi col furgoncino e poi lavorano il giorno intero in condizioni da
schiavi e con una paga da fame; sono i disoccupati che, per colpa dei
loro datori di lavoro che non hanno saputo gestire la fabbrica con
onestà e intraprendenza, ora si trovano sul lastrico, con una famiglia
da mantenere e un mutuo da pagare; sono gli impoveriti della società
opulenta che sono soli e tristi e diventano barboni,vite di scarto; sono
i giovani che si danno allo sballo della notte,
specie il sabato, e spesso si schiantano contro qualche muro rientrando
a casa dopo le sbornie di alcol, exstasis e balli rumorosi, e lasciano
le famiglie nel pianto per sempre.
E
ancora grida anche al cospetto di Dio la situazione di degrado in cui si
trovano i clandestini nei “centri di identificazione provvisoria”:
spiantati dalle loro radici, scorticati da viaggi avventurosi,
ammucchiati in alloggi indecenti, violentati in mille modi da chi li ha
trasportati, e ora in balia delle più strane forme di controllo e di
pregiudizio. La loro sorte (se va bene, quando va bene) è il permesso di
soggiorno senza alcuna garanzia di un lavoro, di una casa, di una
integrazione facile. E quando va male il rimpatrio forzato come
delinquenti, il ritorno alla miseria per ripartire di nuovo e
attraversare deserti aridi e mari che inghiottono come pesce cani,
oppure lunghi viaggi nascosti nei doppi fondi dei camions, nelle stive
delle navi mercantili. Migliaia, centinaia di migliaia di questi
fantasmi, di questi senza identità e dignità, si aggirano per l’Europa:
la nostra coscienza di religiosi non può dormire tranquilla.
Diaconie
planetarie
Non
basta più dare un pane, un vestito, una mensa: ci vuole un’azione
politica di grande efficacia, una sollevazione delle coscienze, una
sfida alla paura e al pregiudizio: per cambiare radicalmente la società
e la sua mentalità. Oggi più che le opere concrete- che sempre ci
vogliono, certo - è urgente una mobilitazione collettiva, un risveglio
delle coscienze, un sollevamento della ragione, per cambiare approccio a
tutti questi problemi. In passato erano le opere (anzitutto dal piccolo,
dal locale) a mostrare la presa di coscienza, a creare un movimento
“rivoluzionario” in crescendo. Oggi ci vogliono nuove forme di
partecipazione, movimenti di opinioni, gesti significativi che profanano
le malvagie convinzioni, i perbenismi e le difese razziste. Clamorose
proteste che “bucano” la cortina di omertà che tutto rende opaco.
Certe Congregazioni religiose che alzano la voce, utilizzano i nuovi
mezzi di comunicazione per denunciare, organizzano manifestazioni
clamorose di solidarietà, di disobbedienza civile, di solidarietà
intelligente e a vaste dimensioni (si pensi per esempio al commercio
equo e solidale, alle organizzazioni non-profit, alle banche etiche,
alle campagne televisive, e via dicendo) con risonanza vasta e a volte
sconcerto dei benpensanti e dei perbenisti: sono esse le inventrici
delle nuove diaconie di cui desidero vedere la nascita. Non opere
murarie soltanto, non solo le mille e mille iniziative concrete di
carità e presenza – cose sempre preziose – ma anche la mobilitazione
dell’opinione pubblica, la sfida contro le
lobbies
assassine che sfruttano tutti, contro ogni razzismo protezionista e ogni
ipocrisia legalista che consente (di nascosto) violenze e massacri
psichici e culturali, invadenze politiche e pressioni tiranniche sui più
deboli.
Se i
religiosi non si affacciano - almeno qualche volta - su questo nuovo
orizzonte, se non si preparano ad abitarlo con profezia, per una nuova
forma di diaconia evangelica a largo raggio e non a cespuglio, se non
prendono a cuore anche queste forme di servizio e di solidarietà,
finiranno per illanguidire nelle loro mura sempre più fredde e pesanti,
sempre meno luogo di verità e di carisma profetico, e più che altro
idolo sacro che ingoia i suoi stessi custodi, costretti a mille
sotterfugi per tirare avanti, ma senza dignità.
Le
nuove diaconie presto risulteranno la cartina di tornasole di una
fedeltà insieme creativa e piena di fantasia, di chi davvero si guarda
dal vivere a cespuglio, con una visuale stretta e meschina, e spazia
invece su orizzonti nuovi,vasti, carichi di sfide e di attese.
Bruno Secondin o.carm.
Pontificia Università Gregoriana
Borgo S. Angelo, 15 – 00193 Roma