"Metti in circolo il tuo amore
come quando dici "perché no?".
Metti in circolo il tuo amore
come quando ammetti
"non lo so"
come quando dici
"perché no?" […]
Metti in circolo il tuo amore
come fai con una novità.
Metti in circolo il tuo amore
come quando dici "si vedrà"
come fai con una novità"
(LUCIANO LIGABUE)
La
distanza che ci separa dal nostro prossimo non si misura solo nei passi
che dobbiamo compiere per giungere ad ascoltare il suo grido d’aiuto e
nel mettere all’opera le nostre energie per andare incontro alle sue
esigenze. Non è mai solo una questione di distanza fisica. Né è mai una
semplice questione di denaro. Vi è una più profonda disposizione di
cuore, che alla fine dei conti decide se ascoltare quel grido d’aiuto
oppure no, se porgere una monetina allo zingarello di strada oppure no,
se rivolgere una parola buona al barbone che mi fissa oppure no, se
versare un contributo di solidarietà oppure no.
Gratuità dice infatti di una generosità, di una
solidarietà, di uno slancio d’aiuto che incrocia le richieste e le
sofferenze, i bisogni e le urgenze che ci vengono incontro e che
proviamo a soddisfare perché appunto qualcosa scatta dal cuore, dal di
dentro. Senza pretendere nulla. Senza attendere nulla.
In verità, ogni giorno, tutti noi vediamo gli effetti
davvero disastrosi di uno stile di vita così poco ispirato al principio
della gratuità, del dono disinteressato, della cura e dell’accudimento
di chi non potrebbe in alcun modo ricambiarci nulla. Le nostre metropoli
occidentali nascondono, infatti, nelle loro pieghe più remote sacche di
povertà, di sfruttamento, di miseria. E il sistema globale si regge
sulle spalle dei poveri.
Ogni cosa viene valutata in termini di denaro, di
rendita, di investimento. Il gesto della solidarietà è ridotto all’invio
di un sms, in occasione di qualche tragedia. La rigida e ferrea
legge del denaro ha trasformato i nostri cuori in blindate cassette di
sicurezza, impenetrabili. La più recente crisi ha affinato il senso del
risparmio, provocando pure un ritorno a una certa sobrietà che penalizza
l’attenzione a chi la crisi l’ha subita più di noi.
È così allora che in modo paradossale, mentre sono
aumentate le risorse mediamente a disposizione di ciascun occidentale
rispetto al passato, è diminuito lo spazio della gratuità, della
generosità, della solidarietà. Il dio denaro miete con generosità le sue
vittime sia tra i suoi adoratori più devoti sia tra coloro che subiscono
l’effetto perverso del suo culto. Come fare per avviare un cammino di
riscoperta della gratuità? Come sperare di poter sbloccare il
nostro cuore? E più precisamente: da dove iniziare?
Autorizzati ad amare
Ogni gesto di gratuità e di dono mette in campo, in
verità, non solo il problema di altri che hanno bisogno, ma più
radicalmente porta allo scoperto i nostri bisogni. Al centro della
questione vi è, infatti, il rapporto che ciascuno ha con se stesso e con
ciò che gli è necessario per potersi accogliere, volere bene e in ultima
analisi amare. Che cosa mi autorizza a benedire la mia vita? Che cosa mi
permette di accoglierla nella sua contingenza e nella sua invalicabile e
irrevocabile finitezza? Che cosa mi porta ad essa pur sapendo che essa
mi porta alla morte?
È qui che si decide del "come" ci si relaziona con gli altri.
Ed è proprio su questo punto che traspare nella sua
lucentezza la parola che Gesù continua a rivolgere a ogni uomo e a ogni
donna della terra. Rispetto alla logica ordinaria del mondo, per cui si
crede che solo possedendo molte cose si sarebbe al centro
dell’attenzione degli altri, suscitando il loro amore, che darebbe senso
alla propria esistenza, egli invita a cambiare letteralmente
prospettiva.
Gesù propone una conversione dello sguardo: non è
dalle promesse degli altri o dall’abbondanza delle cose che possiedo o
dal calcolo delle cose che potrei acquistare che debbo partire per
decidermi se e in quale misura posso andare incontro agli altri e se vi
è ancora spazio per una qualche forma di gratuità. Bisogna prima di
tutto percepire un infinito sguardo d’amore posto sul proprio essere al
mondo.
Amati, amiamo
"Ama Dio": è la prima parte del grande comandamento
dell’amore. Si deve riconoscere, dunque, innanzitutto Dio quale presenza
benedetta e benedicente sulla tua vita. Corrispondere al Suo amore. È
questo che ci autorizza ad amare: ad andare incontro all’altro, con
libertà di intenzioni. Solo dopo Gesù afferma: "Ama il tuo prossimo". Vi
è pertanto un ordine, un legame, una legge, un cammino da compiere:
dall’alto verso il basso, dal cielo verso la terra, dal cuore ricolmo di
amore divino verso mani e piedi capaci di prossimità ospitale e
gratuita.
Amato, posso amare. Accolto, posso accogliere.
Ospitato, posso essere ospitale. Se è così, allora posso evitare di
sottopormi al ricatto che gli altri mi tendono come prezzo da pagare per
ottenere il loro amore. Se è così, posso sciogliere i mille legami
iniqui che stringo o che impongo di stringere per dare all’altro un
pezzo del mio amore. Se è così, possiamo andare l’uno incontro all’altro
con generosità.
La priorità dell’amore di Dio scioglie d’un tratto il
groviglio delle reti che gli uomini e le donne si gettano l’un l’altro e
che molto spesso finiscono per intrappolarli e soffocarli. Nel segno
dell’amore di Dio - di un Dio che siamo invitati a riconoscere come
Padre - possiamo effettivamente creare spazi di un incontro gratuito,
dove l’appello e il volto dell’altro diventino davvero un mio
inter-esse, un qualcosa che mi tocca nell’essere: nell’essere appunto
fratelli di un unico Padre.
Questo mondo non è il paradiso
L’intera vicenda di Gesù di Nazaret si è così
consumata nel tentativo di estendere questa autorizzazione ad amare a
ogni uomo e a ogni donna. Non ha lasciato fuori nessuna possibilità
dell’umano (il peccatore, il malato, il ricco, il povero, il potente, il
ferito, l’uomo in ricerca, lo straniero), giungendo sino all’estremo
della croce: luogo di rivelazione per eccellenza.
Dalla e sulla croce Gesù dichiara che l’amore che Dio
ha per ogni uomo è indefettibile: niente può stravolgere quel "sì"
rivolto a ciascuno di noi in un "no". Neppure la violenza, neppure
l’ingiusta calunnia, neppure la condanna alla morte e a una morte
maledetta. Quell’autorizzazione ad amare vale anche per i Sommi
Sacerdoti, vale anche per Pilato, vale anche per il popolo che lo
rifiuta, vale anche per i soldati che lo umiliano e lo crocifiggono.
Vale anche per Giuda, che lo tradisce.
La croce però è parola penultima. L’ultima parola di
Dio è il Crocifisso Risorto: è un Dio che mette una croce sulla morte,
la incrocia e la apre al mistero più profondo dell’amore.
Possiamo dunque generosamente andare incontro
all’altro non solo perché siamo preceduti da un amore gratuito ed
irrevocabile di Dio ("Dio ti ama infinitamente di più di quanto tu possa
immaginare": questo è il vangelo bello di Gesù), ma soprattutto perché
nella Pasqua il credente scopre la verità di questo mondo, scopre che
questo mondo è sempre e solo penultimo. Non è il paradiso! Questa è la
rivoluzione della croce gloriosa di Cristo: una definitiva apertura dei
nostri occhi sul destino e sulla vera consistenza di questo mondo.
Questo mondo è "figura", "segno", "anticipo ", "caparra", "spazio di
attesa e di invocazione". Non è ultimo.
E se è così, allora non possiamo chiedere a questo
mondo di essere il paradiso. Non possiamo chiedere alle cose di questo
mondo di portarci il cielo in una stanza. Non possiamo neppure chiedere
agli altri di sciogliere completamente la fatica del nostro essere al
mondo. Siamo appunto tutti in cammino.
Eppure la realtà dei nostri giorni ci restituisce
un’immagine ben diversa: uomini e donne che bussano al cuore di questo
mondo chiedendogli di essere il paradiso e finiscono per ritrovarsi in
un inferno, a causa di spropositate pretese, irraggiungibili obiettivi,
attese eccessive. Uomini e donne che si creano un vero e proprio piccolo
inferno domestico e lavorativo, a causa di promesse non mantenute, di
subdoli ricatti, di sottili prevaricazioni. Uomini e donne che creano
spazi di inferno per gli altri, sfruttando situazioni di povertà, di
minorazione, di disagio, di scarsa cultura.
Che cosa resterebbe allora oggi della parola e della
realtà della gratuità?
Ciò che conta
Per tutto questo si dovrà riconoscere che quello
della gratuità è un cammino profondo e faticoso, che investe
propriamente l’immagine che ciascuno ha di se stesso e del suo essere al
mondo e infine l’immagine stessa di Dio.
Appunto di quel Dio, che l’Occidente ha in gran parte
smarrito. Ha davvero ragione il Papa, quando afferma che "il vero
problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce
dall’orizzonte degli uomini e con lo spegnersi della luce proveniente da
Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti
distruttivi ci si manifestano sempre di più".
E proprio questo è il punto: quando Dio scompare
dall’orizzonte della storia, la storia diventa l’unico orizzonte, lo
sfondo unico e univoco di senso, incapace di restituirci la verità di se
stessa e di noi stessi. Potente ritorna allora una riflessione del
cardinale Henri De Lubac: "Non è che l’uomo non possa costruire il mondo
senza Dio, è piuttosto vero che lo costruirà contro l’uomo ".
Riflettere sulla gratuità significa quindi
riconoscere che solo il pensiero di Dio è in grado di salvaguardare una
convivenza tra gli uomini sottratta al domino delle passioni e alle
passioni del dominio, al potere dei soldi e ai soldi del potere, alla
forza dello scambio e allo scambio della forza. Il pensiero di Dio - il
pensiero che Dio è amore - ci ricorda, infatti, che il nostro primo ed
elementare compito di uomini e di donne, creati a Sua immagine, è quello
di aumentare l’amore presente in questo mondo: aumentarne le riserve di
generosità, di solidarietà, di fraternità, di gratuità. Di mettere e
mantenere in circolo tutto ciò. Tutto ciò che davvero conta e non è
destinato a perire.
Armando Matteo
Assistente Nazionale FUCI
Via F. Marchetti Selvaggiani, 22
00165 Roma
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