n. 7-8-9
luglio-agosto-
settembre 2010

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Sara e Agar
(MASSIMO GRILLI)
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Per
una nuova umanizzazione
Promessa e libertà in san Paolo
(GUIDO BENZI)
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Promessa e
libertà in San Paolo
di GUIDO BENZI
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"Se appartenete a Cristo,
allora siete discendenza di Abramo,
eredi secondo la promessa"
(Gal 3,29)
Avete
assegnato alla mia relazione il titolo: "Promessa e libertà in San
Paolo" ed io ho aggiunto come sottotitolo il versetto 3,29 della Lettera
ai Galati: "Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo,
eredi secondo la promessa". Essere eredi di una promessa ci pone
fuori da ogni logica di calcolo, e d’altra parte pone nella situazione
di dover verificare nella libertà se la promessa può essere
mantenuta. Metterci dunque di fronte alla promessa di Dio nel Signore
Gesù Cristo ci mette al riparo da ogni calcolo di convenienza e ci pone
di fronte, nella libertà, ad una relazione profonda di fede e fiducia.
"Non c’è un altro Vangelo!"
La Lettera ai Galati è una lettera
molto importante, da alcuni ritenuta un po’ difficile, ma si adatta bene
al tema che state svolgendo in questa vostra Assemblea, appunto il tema
della promessa e la promessa in Cristo. Possiamo anzitutto partire da un
versetto di Paolo, molto gustoso, anche un po’ problematico: "O stolti
Gàlati, chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu
rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso!" (Gal 3,1). La traduzione
della CEI è una traduzione elegante del testo, Paolo infatti dice
anoetoi, una parola usata non tanto nelle accademie, quanto nella
commedia. Significa "senza testa", senza nous, senza cervello.
E poi troviamo un altro termine
popolare "chi vi ha incantati?", il verbo baskanizo, che indica
l’affascinare di un mago o di una fattucchiera. È un termine un po’
offensivo, certamente sarcastico, nel senso che - dice - "vi siete
proprio lasciati abbindolare da un mago da strapazzo".
"Proprio voi agli occhi dei quali fu
rappresentato al vivo Cristo crocifisso!". Il problema esegetico di
questo versetto è il significato del verbo "fu rappresentato". Il senso
generale lo capiamo: voi avete ricevuto il dono del Vangelo di Gesù ed
invece siete andati dietro a delle chiacchiere superstiziose. Ma cosa
intende Paolo quando dice: "fu rappresentato al vivo?" Alcuni
commentatori pensano che Paolo utilizzasse delle immagini. Quindi Cristo
è stato rappresentato: il verbo proegrapho tradotto letteralmente
significa "scrivo davanti", ed in realtà il verbo indica anche "fare un
disegno, un affresco". Paolo avrebbe fatto dei disegni? Credo proprio di
no: sapete che l’ebraismo e di conseguenza anche il primissimo
cristianesimo era aniconico, cioè senza rappresentazioni. Paolo non
faceva quadri della passione di Gesù. Dobbiamo dunque pensare di dare a
questo verbo una certa enfasi, nel senso di una interpretazione teatrale
di alto profilo, la ripresentazione di un personaggio dunque, e sappiamo
quale valore aveva il teatro nel mondo greco- ellenistico del tempo di
Paolo. Egli mette qui in gioco se stesso.
"Ai vostri occhi, Galati, io ho
ripresentato/rappresentato Gesù Cristo crocifisso non nel senso
dell’ambasciatore, o del pittore, ma nel senso di colui che in un certo
modo fa rivivere, ripresenta il dramma". In definitiva Paolo, rifiutato
da queste comunità della Galazia, è come Gesù che è rifiutato dai suoi.
Paolo è come "messo in croce", ma questa croce - sappiamo - nel pensiero
paolino è grazia, e quindi l’Apostolo che dentro la comunità vive
l’autorità per un servizio di autorevolezza, nel momento in cui viene in
qualche modo contrastato ripresenta, interpreta Gesù crocifisso.
Questo versetto esprime proprio la
configurazione di Paolo con Gesù. Pochi versetti prima aveva detto:
"Sono stato (con)crocifisso - sunestauromai - con Cristo, e non
vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo,
la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se
stesso per me" (Gal 2,19-20). C’è una consegna da parte del Padre - come
vedremo tra poco - del Figlio, una consegna per Paolo, e Paolo che si
consegna a questa comunità, appunto come Gesù si è consegnato. Voi avete
messo come titolo al vostro convegno "In Cristo per umanizzare la vita":
Paolo ci parla di una umanizzazione che non viene tanto dall’esterno, ma
che viene dall’interno e che noi per così dire "respiriamo" attraverso
l’incarnazione del Figlio. Il Concilio Vaticano II ci dice in Gaudium
et Spes 22 che in Gesù noi scopriamo il vero volto dell’uomo, la
vera immagine di Dio che è stata scolpita nell’uomo. Paolo questa
dottrina, nel 55 d.C., quindi appena pochi anni dopo la morte di Gesù,
l’aveva già capita e la esprime con lucidità. Ecco, è proprio in questo
quadro così importante che possiamo condurre la nostra riflessione.
Stabili nella fede
Qual è dunque il contesto della
Lettera ai Galati? Lo si capisce bene dai primi versetti (Gal 1,1-10).
Queste comunità avevano accolto Paolo in un momento di malattia (egli
stesso ne fa un breve cenno in 4,13), e Paolo ha comunicato il suo
Vangelo, il Vangelo di Gesù salvatore, l’unico salvatore: nessuna opera
di religione, nessun precetto, neppure la circoncisione (che era
per gli ebrei il segno dell’alleanza) può liberarci come Gesù ci libera,
noi non possiamo liberarci da soli. Le opere acquistano significato solo
come opere della fede, cioè come risposta di conversione e di
amore alla gratuita e preveniente grazia della salvezza che abbiamo in
Gesù, nella sua passione, morte e risurrezione.1
Dopo l’evangelizzazione della Galazia,
Paolo prosegue la sua missione, ma viene a sapere, probabilmente a
Corinto (alcuni dicono a Efeso), che queste comunità hanno subìto una
contromissione, da parte di alcuni cristiani giudaizzanti, cioè ebrei
convertiti al cristianesimo che però imponevano come elemento essenziale
per la salvezza l’osservanza della circoncisione e delle tradizioni
giudaiche. Qui si tratta di una questione delicata e complessa delle
prime comunità cristiane. Il fatto cioè di sottomettere la liberazione
che viene dal Vangelo alla pratica della Legge: Gesù ci libera, ma
solo se entriamo nell’Alleanza di Abramo, e dunque se viviamo la
circoncisione, se eseguiamo le opere della Legge. Paolo reagisce
vigorosamente a quella che appare come una limitazione del dono di
libertà e salvezza che viene solo da Gesù Cristo e che non può
essere sottomesso a nessun elemento di cultura religiosa.
Paolo lo dice in modo chiaro: "Mi
meraviglio che, così in fretta, da colui che vi ha chiamati con la
grazia di Cristo voi passiate a un altro vangelo. Però non ce n’è un
altro, se non che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il
vangelo di Cristo" (Gal 1,6-7). Questo inizio della Lettera ai Galati è
certamente forte, e ci dice come Paolo sia angosciato, preoccupato,
offeso. Non c’è un altro Vangelo, non c’è nulla che liberi come Cristo
libera, anzi! Non esiste nessuna libertà, se non nella libertà che è
portata in Cristo.
Potremmo già qui fare una riflessione
che riguarda l’idea di una stabilità nella quale si riceve la
promessa. Paolo dice ai Galati che per gustare la libertà in Cristo si
deve essere stabili: la stabilità nella fede. Questo non
significa non essere dei cercatori di Dio, delle persone che
s’interrogano e indagano, che cercano con la propria ragione, ma anche
con la propria emotività e con la propria vita, di capire sempre di più
qual è la promessa di libertà che il Signore ci consegna. Tuttavia Paolo
ci dà subito un criterio, il criterio della stabilità, che non è un
criterio esterno, non si tratta della stabilitas che raccomandava
san Benedetto ai suoi monaci.
Si tratta di una stabilità interiore,
cioè l’ascoltare una chiamata, una chiamata che certamente ha preso la
forma di una vita religiosa, ma prima ancora di essere tale è una
chiamata posta dentro la nostra esistenza. Cioè, come cristiani, e ancor
più come consacrati, dobbiamo sentire quello che dice il profeta Geremia
all’inizio del suo libro: dal grembo di nostra madre siamo stati
chiamati (Ger 1,5-10). L’uomo e la donna, per noi cristiani, non sono il
risultato di una concatenazione biologica, ma l’uomo e la donna,
ciascuno ed ognuno, siamo dei chiamati e chiamati alla vita
spirituale. Dio in modo misterioso è intervenuto nell’accendersi della
nostra vita biologica e laddove si formavano le cellule che sarebbero
diventate il nostro corpo, Dio ha creato la nostra anima.
Il timbro spirituale che portiamo è un
intervento diretto del Dio creatore. Paolo questo lo sente molto, tant’è
vero che descrive la sua vocazione (o conversione) di Damasco proprio
come un atto creativo di Dio: "E Dio, che disse: "Rifulga la luce dalle
tenebre", rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza
della gloria di Dio sul volto di Cristo" (2Cor 4,6). Paolo ci mostra la
rivelazione di questa origine che ogni uomo ha in Dio. In nome di questa
stabilità Paolo dice che Cristo è venuto a liberarci; non ci ha
liberato soltanto dagli obblighi, non ci ha liberato soltanto da una
oppressione fideistica che poteva nascere da sensi di colpa, cioè non è
un effetto di purificazione esterna, quello che ha operato Gesù! Egli ci
ha ridato fermezza in questa vocazione originale ed originante, ci ha
ridato confidenza in Dio.
Come Abramo ebbe fede
I capitoli centrali della Lettera ai
Galati sono straordinari per capire il tema della libertà. Sono i
capitoli 3, 4 e 5, là dove Paolo comincia ad argomentare proprio la
liberazione che Cristo ha portato. E direi che questi capitoli possono
essere esposti proprio con questi tre passaggi: il radicamento della
promessa (Gal 3), la modalità spazio-temporale della promessa (Gal 4),
l’identità stessa della promessa (Gal 5).
Il capitolo 3 è dunque quello del
radica mento: Paolo, per dire come Cristo ci ha liberati, non fa un
discorso teologico sulla vita di Gesù. A parte che siamo ancora in un
tempo in cui le comunità cristiane respiravano testimonianze dirette su
Gesù. Siamo nel 55 d.C.: esistevano ancora persone che avevano
conosciuto Gesù, e Paolo, che non l’aveva conosciuto può portare anche
la loro testimonianza. Pur non avendo bisogno del racconto sulla vita di
Gesù in forma scritta, Paolo va ad attingere alle Scritture, all’Antico
Testamento, il radicamento della promessa di libertà. Infatti, nel
capitolo 3 si occupa della discendenza di Abramo: "Come Abramo ebbe
fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia, riconoscete dunque
che figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede. E la Scrittura,
prevedendo che Dio avrebbe giustificato i pagani per la fede,
preannunciò ad Abramo: In te saranno benedette tutte le nazioni.
Di conseguenza, quelli che vengono dalla fede sono benedetti insieme ad
Abramo, che credette " (Gal 3,6-9).
Qual è l’argomento di Paolo? Il radicamento della
promessa non è un codice legislativo, né un’operazione di fondazione
religiosa così sublime come quella di Mosé, ovviamente ispirato da Dio.
Esso viene prima di Mosè ed è posto nel fatto che un uomo si è fidato di
Dio.
Nel capitolo dodicesimo della Genesi,
dove incomincia la storia di Abramo, troviamo proprio all’inizio un vero
passaggio, un vero cambiamento. Fino al capitolo 11 c’è tutta una storia
di peccato e di progressivo ed inesorabile allontanamento da Eden: si
parla del peccato originale, cioè il primo e radicale allontanamento di
sfiducia operato dalla creatura, una sfiducia che opera il crollo dei
rapporti tra la creatura e Dio suo creatore, tra la creatura e le
creature; poi si parla di Caino ed Abele, quindi del peccato che dilaga
nella compagine sociale: la storia di Noé e della torre di Babele.
In questo crollo. Abramo senza nessun
motivo esterno (non c’è il tema del castigo e del diluvio come nella
storia di Noè) recupera il rapporto frontale con Dio, un rapporto di
chiamata. Abramo ebbe fede in Dio e gli fu accreditato come giustizia.
Qui Paolo cita Genesi 15,6. Che cosa riguarda questa promessa? Non si
tratta della terra, né della libertà; si tratta della discendenza. Nel
mondo antico avere un figlio era la condizione del possesso della terra
e dell’identità che fonda la libertà. Un uomo senza figli, senza
discendenza era senza futuro. Non è un caso che la promessa prende nella
Bibbia spesso la "forma" di un figlio.
"E alla tua discendenza"
Questo aspetto è importante anche per
dire la spiritualità cristiana, che è una spiritualità di relazione,
ancor più, una relazione generante. La spiritualità cristiana non
è, se non genera. Ovviamente, non è soltanto la generatività biologica,
è una generatività più forte, più interiore, che comincia dal generare
il vero uomo, la vera donna. Questa promessa del generare un figlio
ritorna nella Bibbia. Ad esempio in 2 Samuele 7, Davide si presenta come
un altro Abramo. Qui non c’è il problema della sterilità, egli ha già
molti figli, ma vuole costruire il tempio, pensandolo più o meno come
una cappella della sua reggia. Forse c’è anche un certo calcolo
politico... Il profeta Natan applaude al re: Sì, grande Davide, hai
costruito il regno, adesso fai anche il tempio. Ma nella notte Dio si
rivela al profeta e gli dice di andare da Davide e dirgli: non tu farai
una casa a me, ma io darò a te un casato.
C’è questo gioco di parole. Il profeta
continua: "Un figlio nato dalle tue viscere mi costruirà il tempio". E
qui appare un altro aspetto della promessa: essa è sempre davanti a noi,
ma si distanzia perché è oggetto non del possesso, ma del desiderio.
Ricordiamo che la narrazione della storia di Mosé occupa ben quattro
libri biblici. Eppure Mosè non entra nella terra promessa! Dio gliela fa
vedere da lontano, dal monte Nebo. Così anche Abramo: "Ti darò tutta
questa terra… ". Poi Abramo muore possedendo solo 2 metri quadrati di
terra: è la tomba dove lui verrà seppellito con Sara, pagando una cifra
esorbitante agli Ittiti. La promessa è davanti a te, è una promessa di
generatività, una promessa che esce da te, ma che si realizza in una
vita "altra". Perché un figlio è qualcosa che ti appartiene, ma non è
"tuo": per la madre il figlio è stato per nove mesi una parte di sé e la
madre è stata per nove mesi parte del figlio.
Per il figlio, il padre s’identifica
col mondo: è il primo "altro da sé" che il bambino conosce. È il mondo,
è la vita. Quindi un figlio ti appartiene, ma è anche "qualcun altro", e
non crescerà equilibrato se i genitori per primi non riconosceranno ed
educheranno questa sua "alterità". La promessa si realizzerà se esce da
te e non la tieni inglobata in te stesso.
Paolo dice: Abramo ebbe fede in Dio
e gli fu accreditato come giustizia. La fede di Abramo è proprio
questa fede estroversa, questa capacità di uscire da sé e di donarsi in
una relazione con Dio. Dunque, il radicamento della promessa è una
dimensione di figliolanza e qui Paolo affronta tutto il problema, del
rapporto tra legge e promessa: "Fratelli, ecco, vi parlo da uomo: un
testamento legittimo, pur essendo solo un atto umano, nessuno lo
dichiara nullo o vi aggiunge qualche cosa. Ora è appunto ad Abramo e
alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la
Scrittura: "E ai discendenti", come se si trattasse di molti, ma: E
alla tua discendenza, come a uno solo, cioè Cristo. Ora io dico: un
testamento stabilito in precedenza da Dio stesso, non può dichiararlo
nullo una Legge che è venuta quattrocentotrenta anni dopo, annullando
così la promessa" (Gal 3,15-17).
Dal pedagogo al Cristo
Se infatti l’eredità si ottenesse in
base alla Legge, non sarebbe più in base alla promessa. Dio invece ha
fatto grazia ad Abramo mediante la promessa. Paolo con un raffinato
gioco di esegesi ebraica dice: la Legge di Mosé non è superiore a questa
promessa originaria, ma ne dipende. La Legge è stata data perché Israele
non riusciva ad essere fedele al desiderio segnato da questa promessa
originaria. Dunque la Legge - dirà Paolo - evidenzia il peccato,
evidenzia la fragilità. Noi abbiamo bisogno di una Legge perché il
comportamento che essa sancisce è un comportamento dannoso. Il giudaismo
farisaico, che fondava sull’applicazione della Torah, facendone il punto
forte d’identificazione, viene sfidato da Paolo rimandando ad Abramo e
non a Mosè.
Perché allora la Legge? Essa fu data a
motivo delle trasgressioni (Gal 3,19). È quello che abbiamo detto: una
legge trova il suo senso rivelando il peccato. Dunque, la Legge non può
liberare. Leggiamo in Paolo: "Ma prima che venisse la fede, noi eravamo
custoditi e rinchiusi sotto la Legge, in attesa della fede che doveva
essere rivelata. Così la Legge è stata per noi un pedagogo, fino a
Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede,
non siamo più sotto un pedagogo. Tutti voi infatti siete figli di Dio
mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in
Cristo vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è Giudeo né Greco; non c’è
schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno
in Cristo Gesù. Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di
Abramo, eredi secondo la promessa" (Gal 3,23-29).
C’è un essere battezzati in Cristo,
quindi sacramentalmente immersi nella promessa, e un rivestirsi di
Cristo, quindi anche una partecipazione nostra. Questo è il tesoro che
abbiamo, non le opere giuste e doverose che compiamo. Esse prendono
importanza alla luce della grande notizia che Paolo comunica: essere
battezzati e rivestiti di Cristo. Questo evidenzia che siamo generati ad
un Vangelo di libertà.
Generati al Vangelo di libertà
Il capitolo 4 della Lettera ai Galati
delinea la modalità spaziotemporale della promessa. Paolo la
esprime attraverso il tema della figliolanza: "Dico ancora: per tutto il
tempo che l’erede è fanciullo, non è per nulla differente da uno
schiavo, benché sia padrone di tutto, ma dipende da tutori e
amministratori fino al termine prestabilito dal padre. Così anche noi,
quando eravamo fanciulli, eravamo schiavi degli elementi del mondo" (Gal
4,1-3). L’espressione elementi del mondo è strana, non si sa bene
cosa fossero queste idee sincretiste alle quali facevano riferimento i
Galati, probabilmente si collegavano le feste religiose ebraiche ai
tempi astrali; quindi gli elementi del mondo potrebbero essere il
lunario, il calendario, anche una certa astrologia, cioè, "pratiche"
religiose.
Ad esse Paolo contrappone: "Ma quando
venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna,
nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge,
perché ricevessimo l’adozione a figli. E che voi siete figli lo prova il
fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale
grida: "Abbà! Padre!". Quindi non sei più schiavo, ma figlio e, se
figlio, sei anche erede per grazia di Dio" (Gal 4,4-7). Paolo parla
della promessa e del suo compimento, usando il linguaggio del
concepimento e della nascita. Pleroma significa pienezza ed il
suo compimento che si rivela dall’interno, esattamente come il grembo
gravido della donna agli ultimi mesi di attesa. Il kronos è il
tempo reale, quello degli orologi, dei calendari: è come se Paolo
dicesse "quando venne un tempo incinto", quella "pienezza del
tempo" non è semplicemente l’arrivo al traguardo, è lo svelamento e la
rivelazione piena ed insieme straordinaria della promessa.
Il luogo, lo spazio e il tempo della
promessa non sono dunque qualcosa di esterno. Cristo è la pienezza della
storia, il suo svelamento più profondo, perché radicato nell’insondabile
ed inesprimibile promessa di Dio; quella storia ad un certo punto – come
dicono i profeti - era una donna incapace di generare, sterile. Sembra
di ascoltare quella poesia di Orazio (uno dei vertici del pensiero
pagano): una schiava mentre gli versa il vino nella coppa lo interroga
sul futuro e lui le risponde di non interrogare il domani, di essere
saggia, e le dedica il famoso "carpe diem" "cogli l’attimo".
Questa è la storia nel senso pagano:
un "attimo fuggente". Ed invece dice Paolo che è avvenuto il riempimento
del tempo, il pleroma del kronos, cioè la storia
"partorisce" una novità. È chiaro per noi credenti il riferimento a
Maria, anche se probabilmente Paolo non vuole fare un discorso
mariologico: l’espressione "nato da donna" potrebbe essere solo
generale, cioè indicare l’effettiva umanità del figlio. Ma noi possiamo
riconoscere che qui Paolo sta dicendo qualcosa che si è effettivamente
realizzato in Maria, in colei che ha detto "sì" per prima e ha detto
quel "sì" assoluto per cui tutta la storia, ad opera dello Spirito
Santo, è diventata una storia di novità, di parto, di promessa
mantenuta.
Una libertà "liberata"
"Nato da donna, nato sotto la Legge,
per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo
l’adozione a figli". Qual è allora la promessa? Essa possiede una
identità: il Figlio mandato da Dio. E prosegue: "Che voi siete
figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del
suo Figlio, il quale grida: "Abbà! Padre!"": è lo stesso atto divino.
Come il Verbo, la seconda persona
della santissima Trinità, si è incarnato nel grembo di Maria vergine e
la storia ha potuto dire: "ecco qui finalmente c’è qualcosa che mai
prima avevamo udito e mai prima avevamo visto", così è l’inabitazione
dello Spirito nel cuore dei credenti. È la stessa operazione: Dio
mandò il suo Figlio, Dio mandò lo Spirito.
Paolo fa un’equazione. L’identità
della promessa non è soltanto un Figlio, il Figlio, cioè Cristo, e
attraverso di lui, qualcosa di più: il poter essere noi figli
come Cristo è Figlio. Da Cristo in poi ogni bimbo è una novità
nella storia, come lo è stato Cristo. Per questo noi possiamo dire che
ripetiamo in noi la promessa. Ognuno di noi è la promessa, la
nostra vita, la vostra vita consegnata anche attraverso la consacrazione
è la promessa. Ogni peccatore che torna alla casa del Padre può essere
riconosciuto e ristabilito come figlio, può essere perdonato e
rigenerato nell’amore, perché ora la promessa è più forte e determinante
della Legge. La libertà dei cristiani non è una "libertà condizionata".
Per questo Paolo potrà dire: "Cristo ci ha liberati per la libertà" (Gal
5,1). Non è una liberazione sociologica o un affrancamento soltanto
ideale: è l’averci consegnato questa identità d’origine per cui non
siamo più figli della schiava Agar, ma della promessa, siamo i figli
della donna libera, Sara.
Essere figli della promessa significa,
dunque, sentire che la liberazione che Cristo ha operato in noi è
autentica perché ci consegna la nostra origine. Dice Paolo: "Quanto a
noi, per lo Spirito, in forza della fede, attendiamo fermamente la
giustizia sperata. Perché in Cristo Gesù non è la circoncisione che vale
o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della
carità" (Gal 5,5-6). Sembra di ascoltare Giovanni: "In verità, in verità
io vi dico: chi crede in me, anch’egli compirà le opere che io compio e
ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre" (Gv 14,12).
Il cristiano, ogni cristiano non è semplicemente un imitatore di Gesù,
è un alter Christus. Ne compirà di più grandi non perché
Gesù ha fatto un miracolo e noi ne facciamo tre, ma perché noi possiamo,
per sua grazia e nello Spirito Santo, ripetere questa novità dentro la
storia. La vita di Gesù, la vita per, con e in Cristo,
allora diventa la possibilità di moltiplicare le novità dello svelamento
della promessa nella storia. Voi farete cose più grandi. Questa novità
può diventare un progetto di vita.
Promessa, libertà e vita religiosa
Per concludere. C’è un progetto
depositato nella mia vita, quindi posso riconciliarmi con la morte: la
promessa sgorga dalla mia vita, so di avere un futuro, un domani. Ma la
proposta della Scrittura è ancora più radicale perché a riconciliarsi
con la morte ci hanno provato un po’ tutti, come dimostra anche il
pensiero di Freud. Gli antichi si riconciliavano con la
morte attraverso l’idea dell’eroismo
che portava gloria e fama: "è bello morire per la patria". Non tutti
sono capaci di morire da eroe, ma tutti ci provano. Rimaneva però un
grande interrogativo sulla fragilità della vita.
La Bibbia non solo ci chiede di
riconciliarci con la morte, ma con la nascita e non essere più come
Giobbe o Geremia che davanti alla sofferenza maledice la sua nascita:
"Maledetto il giorno in cui io nacqui… perché non mi fece morire nel
grembo; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il suo grembo gravido per
sempre " (Ger 20,14-18).
Riconciliarsi con la nascita. Sono
anch’io nato nella fragilità: non allattato, non accudito, non curato
nei primi mesi di vita sarei morto… Adesso sono un eroe, ma lo sono
diventato perché sono nato nel limite, cioè nella fragilità accolta
dall’amore. Riconciliarsi con la nascita è più faticoso che
riconciliarsi con la morte. E la nascita nessuno se la può dare da solo.
Purtroppo, in un atto estremo, noi potremmo anche darci la morte. Ma la
nascita non se la può dare nessuno. Solo Gesù, nella pienezza del tempo
ci ha consegnato questa novità. Egli dice a Nicodemo: "In verità, in
verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno
di Dio" (Gv 3,3).
La vita religiosa mi sembra che sia
proprio dentro questo progetto di libertà: non siamo custoditi dalle
nostre regole, bensì dalla promessa di libertà. Questa è la vita
religiosa: una promessa di libertà che entra dentro le cose, dentro la
vita e ce la fa vedere con lo sguardo dello Spirito.
Terminiamo con una pagina di santa
Teresa di Lisieux, riferendosi al viaggio in Italia: "Non riesco ancora
a capire perché le donne in Italia vengano scomunicate così facilmente.
Ad ogni piè sospinto ci si diceva: "Non entrare qui, non entrare là,
sarete scomunicate". O, povere donne, come sono disprezzate! Tuttavia
amano il buon Dio in ben maggior numero che non gli uomini e durante la
passione di nostro Signore le donne ebbero più coraggio degli apostoli
perché sfidarono gli insulti dei soldati ed osarono asciugare il volto
adorabile di Gesù" (Storia di un’anima, Manoscritto A, 184).
1 Per approfondire questo tema si può
vedere la felice sintesi del Catechismo della Chiesa Cattolica ai
nn. 1987-1995.
Guido Benzi
Biblista e Direttore Ufficio Catechistico Nazionale
Circonvallazione Aurelia 50
00165 Roma
Bibliografia
FABRIS, R., Paolo l’apostolo delle
genti, Paoline, Milano 1997.
PITTA, A., Lettera ai Galati,
Dehoniane, Bologna 1997.
VANHOYE, A., Lettera ai Galati,
Paoline, Milano 2000.
BENZI, G., Paolo e il suo Vangelo,
Queriniana, Brescia 2001.
UCN-SETTORE APOSTOLATO BIBLICO, In
cammino con San Paolo, Elledici, Leumann (Torino) 2008.
BIANCHINI, F., Lettera ai Galati,
Città Nuova, Roma 2009.
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