n. 7-8-9
luglio-agosto-
settembre 2010

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Sara e Agar
(MASSIMO GRILLI)
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Per
una nuova umanizzazione
Promessa e libertà in san Paolo
(GUIDO BENZI)
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Sara e Agar
Promessa di Dio e lacerazioni umane
di MASSIMO GRILLI
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La
storia di Sara e Agar risponde all’intento di ripensare la vita
religiosa a partire dall’umano, senza tuttavia dimenticare che siamo
"affidati a una Promessa". Sara e Agar sono due donne diverse: una
libera e l’altra schiava, una figlia d’Israele e l’altra egiziana, una
impossibilitata a generare (paradossalmente è la libera, figlia di
Israele) e l’altra con il potere di procreare figli e figlie. Due donne
che vivono in una situazione lacerata da divisioni e sperimentano queste
lacerazioni sulla propria pelle. È, in fondo, la storia di due donne
vittime dell’ingiustizia della società e della cultura, da cui una è più
colpita dell’altra; ma è anche la storia di un Dio "che vede" e che di
fronte all’ingiustizia fa sempre una scelta di campo, abbattendo i muri
di separazione. La storia è raccontata nei capitoli 16,1-15 e 21,8-19
della Genesi.
Storia di lacerazioni
Il primo quadro ci presenta la situazione. Il
Signore ha già promesso ad Abramo un figlio (Gen 15,1-6), ma Sara pensa
di poter/dover trovare lei una via di uscita e così, secondo l’usanza
del tempo, dà ad Abramo la sua schiava. Essendo la padrona, Sara poteva
disporre della schiava a suo piacimento e, una volta partorito il
figlio, schiava è un oggetto, ma anche per Abramo: non la chiamano mai
per nome lungo tutto il racconto, ma Sara ne parla sempre come "la mia
schiava" ed Abramo, rivolgendosi alla moglie dice: "la tua schiava". Per
ara, Agar s’identifica con lo stato sociale: senza un nome e, dunque,
senza un volto. La cultura maschilista in effetti era più benevola con
Sara che con Agar. Abramo, dunque, accettò il suggerimento di Sara, "si
unì ad Agar, che restò incinta" (Gen 16,4).
Il secondo quadro ci presenta la rivincita di
Agar. In fondo, la natura le aveva concesso ciò che la cultura le aveva
tolto: "ma quando Agar si accorse di essere incinta, la sua padrona non
contò più nulla per lei" (16,5). La competizione tra donne è un luogo
classico dell’immaginario maschile; essa sorge dalla domanda "chi è più
grande?". Domanda diabolica, e non solo femminile, se è vero che anche i
discepoli di Gesù, sulla strada verso la croce, discutevano tra loro
"chi fosse il più grande" (Mc 9,34). Sara è gelosa di non poter avere
quello che era stato dato invece ad Agar. Si lamenta con il marito
dicendo di essere stata disprezzata. In realtà il testo non dice mai che
Agar disprezzò Sara. Fatto sta che Abramo incredibilmente si tira fuori:
"la tua schiava è in mano tua, trattala come ti piace" (cf Gen 16,6a).
Strano l’atteggiamento di Abramo e di Sara: si poteva andare da Agar,
parlare con lei, chiedere come stessero realmente le cose. Tutto questo
non avviene: in fondo Agar è e resta solo una schiava.
Il terzo quadro ci presenta la vendetta di
Sara che "maltratta" Agar, con atti di sopruso. Il verbo (‘nh) è
lo stesso che si utilizza per l’oppressione d’Israele in Egitto. Ci sono
diversi modi di negare l’altro: ucciderlo (come Caino con Abele),
venderlo (come i fratelli con Giuseppe), mettere l’altro in condizione
di andare via e gettarlo così (trattandosi di una donna e di una
schiava) in balia del destino. Questo fa Sara, e Agar fugge (cf Gen
16,6). Ma a questa donna maltrattata dalla cultura e perseguitata da chi
dovrebbe solidarizzare, proprio a lei si manifesta Dio, mediante il suo
angelo, che la trova nel deserto e la riconduce dalla sua signora. È
difficile per il lettore capire questa decisione di Dio che riporta la
schiava sotto il tetto della schiavitù (cf Gen 16,9), ma Agar torna
sotto il dominio di Sara con una diversa percezione di sé e della sua
condizione, per una serie di ragioni:
1) l’angelo del Signore l’ha chiamata per nome
(l’unico personaggio che chiama Agar con il suo nome);
2) a lei donna senza futuro viene fatta una promessa:
"moltiplicherò la tua discendenza e non si potrà contarla" (Gen 16,10).
Dal figlio, dunque, nascerà una discendenza sterminata. Alla schiava
viene fatta la stessa promessa riferita ai patriarchi e, in particolare
ad Abramo. È la prima donna, nella Bibbia, che riceve la promessa di un
figlio ed è l’unica donna che riceve una promessa divina riguardante una
discendenza che non si può contare;
3) il figlio si chiamerà Ismaele che significa: "Dio
ascolta". Tornerà sotto la sua padrona, ma il nome del figlio le
ricorderà perennemente che "Dio ha ascoltato la sua afflizione". Sono le
imperscrutabili vie di Dio, davanti alle quali Agar, la schiava, non può
far altro che esclamare "Tu sei il Dio che vede! " (Gen 16,13). Di
fronte agli aut-aut della miopia umana, allo sguardo
dia-bolico che separa e divide, Dio abbraccia la contraddizione,
abbatte il muro della separazione che l’uomo e la donna ergono di
continuo. La promessa per Abramo rimane, perché Dio non si pente delle
sue promesse, ma c’è anche un’altra promessa per Agar la schiava e per
il suo figlio Ismaele.
Il quadro successivo (cf Gen 21) mette sulla
scena di nuovo Sara e Agar, per volere di Dio ancora insieme, ma per
loro scelta ancora concorrenti. Perché Sara, partorito il figlio della
promessa, non sopporta che Isacco giochi con Ismaele, il figlio della
schiava, e mette Abramo con le spalle al muro: "scaccia questa schiava e
suo figlio... non deve essere erede con mio figlio Isacco" (Gen 21,10).
La Bibbia ci dice che la cosa dispiacque molto ad Abramo, perché anche
Ismaele era suo figlio, e allora si appellò a Dio. Questa volta Dio,
sorprendentemente, viene in aiuto a Sara, anch’essa vittima di una
cultura estranea, ma non viene meno alla sua promessa: quella di un
popolo nato dalle viscere della schiava.
L’ultimo quadro presenta Agar sola nel
deserto, con il suo bambino, minacciata dal sole, dalla fame e dalla
morte. In un momento di disperazione quando non ci fu più acqua
nell’otre: "Allora depose il fanciullo sotto un cespuglio e fuggì e andò
a sedersi di fronte, alla distanza di un tiro d’arco, perché diceva:
"Non voglio veder morire il fanciullo!". Sedutasi di fronte alzò la voce
e pianse" (Gen 21,15-16). È il pianto di chi si sente abbandonata dagli
uomini, e lo è di fatto, ma si sente abbandonata anche da Dio. Il pianto
della madre diventa il pianto del bambino, ma Dio, come sempre nella
storia della salvezza, ode la voce del bambino e interviene: ""Alzati,
prendi il fanciullo e tienilo per mano, perché io ne farò una grande
nazione". E Iddio le aprì gli occhi (!) ed ella vide un pozzo d’acqua.
Allora andò a riempire l’otre e diede da bere al fanciullo" (Gen
21,18-19). Dio con Ismaele fu fedele alla promessa, il quale crebbe e
divenne un esperto cacciatore e padre di un popolo numeroso.
Dalle lacerazioni alla vita
Questa è la storia di Sara e Agar. Due donne - dicevo
– che portano sulla loro pelle non solo le divisioni e le disgregazioni
personali, ma anche le lacerazioni di un mondo ingiusto e crudele con i
più deboli, un mondo forgiato al maschile. Tra le molte riflessioni che
si potrebbero fare su questa storia ne ho scelte quattro, pensando al
progetto di vivere la vita a partire dall’umano, senza dimenticare la
Promessa.
Soggette della propria e altrui storia
Diventare - in quanto donne - soggette della propria
e dell’altrui storia. Sara e Agar sono vittime di un mondo dove i canoni
sono stabiliti da altri. E tuttavia, in questo mondo soprattutto la
schiava si muove per diventare - con l’aiuto di Dio – protagonista della
sua storia. Non ci sono uomini in questa storia, se non Abramo che,
però, in qualche modo si defila. Alla fine della storia rimane Agar, il
suo bambino e Dio. E Agar, forte di una Promessa, con coraggio, prende
in mano la sua vita. Leggere la storia di Agar, significa anzitutto far
emergere un’anima femminile che non si rassegna ad essere "oggetto".
La sua vicenda mette in luce le contraddizioni di un
mondo dove si è padroni o schiavi e mostra quale possa essere il ruolo
della donna, anche nella lettura di quel mistero che è Dio stesso e la
sua Promessa.
Dieci anni fa la Pontificia Commissione Biblica, in
un documento dal titolo L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa,
occupandosi dei nuovi metodi e approcci al testo biblico, prendeva in
esame anche la lettura femminista. Pur mettendo in guardia da eventuali
rischi, ne faceva comunque rilevare anche gli aspetti positivi:
"Numerosi sono i contributi positivi provenienti dall’esegesi
femminista. Le donne hanno preso così una parte più attiva nella ricerca
esegetica; sono riuscite a percepire, spesso meglio degli uomini, la
presenza, il significato e il ruolo della donna nella Bibbia… La
sensibilità femminile porta a svelare e a correggere alcune
interpretazioni correnti che erano tendenziose e miravano a giustificare
il dominio dell’uomo sulla donna…" (p. 61).
Leggere il testo della Bibbia con occhi femminili
significa leggere la storia con occhi diversi, con occhi di donna. È
vero che le immagini di Dio che la Bibbia ci trasmette sono di
preferenza maschili e che tutto il nostro linguaggio è permeato di
dominante mascolinità. Dio come padre e sposo… sono di gran lunga le
categorie preminenti nel mondo biblico e nel nostro linguaggio
ecclesiale. Ma la Bibbia - e la storia di Agar e Sara ne è una
dimostrazione - ci invita a pensare Dio e la storia della salvezza anche
in termini femminili. La donna porta nel suo grembo il mistero del
creatore, perché generatrice di vita, come lui.
La storia allora racconta in positivo questo grande
mistero: che la donna non deve farsi imprigionare nei labirinti di un
potere, che non conosce il mistero. "L’assenza di mistero della nostra
vita moderna è la nostra decadenza e la nostra povertà" (D. Bonhoeffer).
Un mondo senza mistero è un mondo dove si lotta solo per il potere e per
il proprio tornaconto personale. Due donne, prigioniere della logica del
potere, ci ricordano paradossalmente che la creatura umana non può e non
deve rassegnarsi alla prospettiva di chi vuole disporre ed essere
signore di tutto. No, non tutto è in nostro potere. Il mistero di Dio e
quello dell’uomo non può essere imprigionato.
Dipendenti dall’avere o non avere figli
La realizzazione di Sara e di Agar – come del resto
della donna in tutta l’antichità - è strettamente dipendente dall’avere
o non avere figli. "Dammi dei figli se no io muoio" (Gen 30,1), è il
grido di Rachele verso Giacobbe ed esprime in modo meraviglioso il
sentimento di un mondo dove il celibato era una cosa aberrante.
È la nuzialità la componente strutturale dell’uomo e
della donna ("Dio creò l’uomo a sua immagine… maschio e femmina ": Gen
1,27) e, secondo un detto rabbinico, il celibe (e la vergine) diminuisce
l’immagine di Dio. È la procreazione di figli e figlie che conduce
avanti la storia della salvezza! "Eredità del Signore sono i figli, è
sua ricompensa il frutto del grembo" (Sal 127,3); "La tua sposa come
vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti
d’ulivo intorno alla tua mensa" (Sal 128,3). È questo il mondo di Agar e
di Sara, ma - fatte le debite distinzioni - anche il nostro. La scelta
celibataria/verginale - e la solitudine che ne consegue - non appaga
l’anelito del cuore umano, il desiderio di tenerezza nuziale del corpo e
del cuore.
Anzitutto bisogna riconoscerlo: lo stato che un
celibe e una vergine scelgono - anche se è una scelta per il Regno -
resta una ferita e la gelosia di Sara nei confronti di Agar lo dimostra.
Il corpo, il cuore e la mente vivono un vuoto che Dio non colma e non
appaga, perché Dio non uccide il nostro desiderio e non sostituisce la
mancanza. Se non si mente, dobbiamo riconoscere, senza mistificazioni,
il nostro desiderio inappagato.
E tuttavia, in un’altra prospettiva, e se vissuta per
amore, questa croce non ci schiaccia e non ci diminuisce, come non ha
schiacciato e diminuito Gesù, che è rimasto celibe. Anzi la croce
diventa il luogo del compimento, perché diventa la testimonianza che
nessun uomo e nessuna donna può realizzarsi se non vanno oltre l’aspetto
carnale e che l’amore è vero amore quando si libera della voracità del
possesso.
Il celibato e la verginità per il Regno testimoniano
che la costola che manca all’uomo e alla donna è Dio stesso. Perché il
rapporto nuziale e il figlio sono la ricerca di un appagamento infinito,
il tentativo di vincere il provvisorio e il limite, una lotta quotidiana
contro la morte. Ma solo Dio è capace di vincere la morte: è questa la
vera testimonianza del celibe e della vergine. Senza mai dimenticare,
però, che l’amore – e solo l’amore - dà senso alla scelta di rimanere
celibi e vergini. Non si deve mai dimenticare l’ammonimento di
Crisostomo: una vergine può essere spiritualmente una prostituta e una
prostituta nell’economia di Cristo può diventare una vergine. È l’Amore
che conta, non lo "status"!
La logica della competizione
Tutta la storia di Sara e Agar ci mostra che il
comune argomentare tra uomini e donne – in politica come in religione,
in comunità civili come in comunità religiose - è un argomentare per via
di opposizione: schiavo-libero, maschio-femmina, compatriota-straniero,
superiore-inferiore, capace-incapace… È un argomentare di tipo
"dia-bolico", nel senso etimologico del termine (dia ballo- in
greco = separare). La competizione nasce da questo tipo di
argomentazione. Anche le due alleanze sono state contrapposte per questo
motivo, fin dai tempi di Paolo, e proprio prendendo come modelli Sara e
Agar: "Le due donne rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte
Sinai, che genera nella schiavitù, ed è Agar… la Gerusalemme di lassù è
libera ed è la madre di tutti noi" (Gal 4,24-26).
Questo ragionare per via di opposizione (il pensare
dia-bolico) costruisce muri di separazione ed è del tutto contrapposto
al pensiero di Dio, il quale vede "oltre" le contrapposizioni create
dalla nostra mente classista. Dio "vede" una strada per Isacco, il
figlio della promessa, e una strada per Ismaele il figlio di Agar, che
non appartiene al popolo eletto. È un Dio che ha uno sguardo
"simbolico", uno sguardo che ricompone, non affastellando e confondendo,
ma trovando sempre una peculiarità, in sintonia con altre vie. Lo
sguardo simbolico (syn-ballô, comporre, mettere insieme),
che è poi lo sguardo di chi ama, incomincia là dove si dà credito alla
Promessa di un Dio "che vede" infinitamente più in là della miopia
umana. La Promessa di Dio abbatte le barriere culturali e istituzionali,
incomincia là dove finiscono le corazze dell’io, e l’altro mi interessa
più della mia sopravvivenza, della mia giustizia, di qualunque garanzia
(C. Yannaras). La Promessa di Dio incomincia ad operare là dove finisce
l’estenuante competizione di giustificarsi, superarsi, arrivare prima e
arrivare comunque.
Un cammino verso il basso
Sara e Agar testimoniano un cammino di competizione
che è contrario alla storia salvifica, perché esso va verso l’alto
mentre quello della storia della salvezza cammina verso il basso. Sara e
Agar vivono in un mondo dove conta avere potere. I figli sono il segno
del potere di una donna. Questa tentazione è espressa da Agostino in
un’alternativa radicale, che appartiene ad Adamo, e quindi all’uomo: "o
il potere o l’amore". È l’alternativa davanti alla quale è posta ogni
vita. Oggi, come ieri, l’uomo è malato di onnipotenza. In questo senso,
anche il racconto della torre di Babele, contenuto in Genesi 11,1-9 è di
estrema attualità, perché presenta la storia della presunzione umana.
Potremmo anche esprimere tutto questo dicendo che si
vive o dando il primato a se stessi e al proprio ruolo, oppure dando il
primo posto all’Altro, nel servizio radicale di Dio e dei fratelli. La
comprensione che l’uomo ha oggi di sé è spesso legata alla riuscita.
L’uomo contemporaneo deve ormai di continuo giustificarsi, non più
davanti al tribunale di Dio, come al tempo di Paolo, ma davanti al
tribunale della società, del posto di lavoro, dell’ambiente circostante.
E ci si può giustificare solo mediante il rendimento. Questa è oggi la
vera maledizione della legge: si è qualcuno solo in virtù delle proprie
prestazioni personali, ci si può affermare solo documentando la propria
efficienza. Ovviamente, non si tratta qui di polemizzare in maniera
indistinta con le opere umane, l’avanzamento professionale… Il messaggio
ebraico-cristiano non offre giustificazioni all’inoperosità e, del
resto, la civiltà occidentale lo dimostra in maniera abbastanza
evidente. E tuttavia, c’è un tarlo in tutto questo: l’obbligo - conscio
o inconscio - che ha l’uomo moderno di dover sempre e comunque esibire i
propri titoli di merito (le opere di cui fa menzione Paolo)
offrendo l’illusione che tutto si giochi su una gara di efficienza che -
si sa - il più delle volte è senza scrupoli.
In una lezione sull’ecclesiologia del Vaticano II,
tenuta nel 2001 nella diocesi di Aversa, l’allora prefetto della
Congregazione per la dottrina della fede, il card. J. Ratzinger,
affermava: "… la prima parola della Chiesa è Cristo e non se stessa;
essa è sana nella misura in cui tutta la sua attenzione è rivolta a lui.
[…]. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, sarebbe
superflua… La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto
di popolo di Dio, è "crisi di Dio"; essa risulta dall’abbandono
dell’essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di
questa ve n’è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c’è bisogno
della Chiesa".
La strada di Dio è la kenosis/abbassamento. Il
termine hesed nella Bibbia si trova spesso rafforzato da ’emet,
alla maniera di endiadi. Due termini per esprimere un concetto: quello
della tenerezza certa, duratura o anche della certezza
misericordiosa. L’altro termine usuale per esprimere l’amore di Dio
è il plurale di rahamîm, che sono le viscere materne.
Ancora una volta la donna gioca un ruolo fondamentale nell’immagine che
si dà di Dio, come nel bellissimo testo di Numeri in cui Mosè esclama:
"Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato
grazia agli occhi tuoi, e mi hai messo addosso il carico di tutto questo
popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse dato
alla luce io, che tu mi dica: "Portalo sul tuo seno", come la balia
porta il bimbo lattante, fino al paese che tu hai promesso con
giuramento ai suoi padri?…" (Nm 11,11-12).
Questo passo mostra molto bene che il sentimento di
misericordia non è un puro sentire, ma si traduce sempre in
storia di salvezza, in responsabilità etica. Oggi l’umanità è armata -
fuori, ma soprattutto dentro - di thanatos, di morte. La
vera testimonianza è quella di chi, a chiare lettere, grida che "Dio non
ci salva in virtù della sua onnipotenza, ma in virtù della sua
impotenza" (Bonhoeffer), il che equivale a dire in virtù della sua
misericordia. Forse proprio la donna, con le sue viscere materne, è
chiamata a testimoniare questa paradossale verità, artefice di un mondo
dove "non c’è giudeo né greco, non c’è schiavo né libero, non c’è
maschio né femmina" perché tutti siamo uno in Cristo Gesù (Gal 3,28).
Massimo Grilli
Pontificia Università Gregoriana
Via del Casaletto 128 – 00151 Roma
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