Siamo
nel primo decennio del Terzo Millennio ed un primo bilancio è possibile.
L’Anno Santo del 2000 ha aperto nuove frontiere a Roma per lo sviluppo
dei suoi abitanti, residenti o visitanti. È aumentata la qualità della
vita nella città, culla della Chiesa che, per definizione, è la città
dell’accoglienza e, quindi, creatrice e realizzatrice del bene comune.
Una sfida
Viene spontaneo dall’osservazione di chi a Roma ci vive da sempre che,
oltre alla sua unicità invidiata da tutti, la città non realizzi il
vasto senso di civiltà che la sua storia e la sua bellezza
meriterebbero.
La
civiltà di una città e la qualità della vita dei suoi abitanti, che ne
percorrono le strade ogni giorno, si misura sullo stile di quelli che
“corrono” per una destinazione e di quelli che si muovono più
lentamente. Non tutti sono protetti in maniera adeguata dalla sicurezza,
che dovrebbe guardarli dai pericoli, garantire loro giustizia sociale e
condizioni di vita dignitosa.
Ci
sono persone che si vedono e persone - poche o molte che siano -
“invisibili”, dal colore della pelle diversa, che parlano lingue
sconosciute, che vivono nella distrazione generale e nel nascondimento,
delle quali ci si rende conto quando accade qualche episodio di cronaca.
Allora il giudizio prende il posto dell’indifferenza, per tramontare
però anche questo rapidamente. D’altra parte, chi non esiste, perché
dovrebbe essere ricordato? In particolare, se è anziano (… tanto la vita
l’ha vissuta! … a chi può essere ancora utile?...) o se è zingaro (…
tanto è solo uno zingaro…).
Il
guaio è che ci sono anche tanti giovani tra loro, ed è anche più
tragico, perché non vederli nella giusta luce significa negare il futuro
dell’umanità stessa e della storia che l’accompagna. Basta osservare la
nostra società (in tal senso Roma è uno spaccato che ne comprende le
molte facce) anche se tutto è una sfida per i giovani e gli anziani.
Anziani e giovani
Gli
anziani,
definiti
papy
boomers
o
diversamente giovani: una presenza sempre più evidente (nel 2020 un
anziano su tre avrà oltre 65 anni), che mostra un volto inversamente
proporzionale alle possibilità di prevenire, curare e supportare bisogni
legati alla salute, in un paese che invecchia. Sono pochi gli anziani
economicamente autonomi, molti invece quelli che mostrano difficoltà
nella conduzione di un’esistenza dignitosa, auspicabile riconoscimento
di una vita quasi sempre dura (si pensi alla guerra, alla povertà che ne
è derivata, alla sforzo per costruire un futuro per le nuove
generazioni).
I
giovani:
ci potremmo chiedere qual è la causa della violenza dei giovani, con i
loro comportamenti da bulli e il loro apparente rifiuto di comunicare;
crisi familiari, con l’altissimo numero di separazioni, divorzi,
annullamenti del vincolo matrimoniale (nei “dormitori dei disperati” uno
su cinque è un papà separato). Essi mostrano irresponsabilità verso i
figli, vittime di eventi che non capiscono e destinati ad un futuro poco
sereno, né facile.
E
gli stranieri immigrati, dei quali utilizziamo solo ed esclusivamente
l’intelligenza e la forza, sfruttando la povertà che li spinge fuori dei
loro confini e li fa approdare nel nostro mondo occidentale che, quasi
sempre, affida loro la cura dei propri cari e i lavori più pesanti,
ignorando le loro reali capacità. Guai però a lasciarsi sopraffare dalla
negatività dei particolari del quotidiano.
Basta spostare il “pensiero” e si può sperare di cambiare le cose.
L’alfabeto della speranza
Uno
spostamento di “pensiero” lo forniscono tre lettere: A come Accoglienza,
B come Bene comune, C come Città “umana” e Condivisione. Fanno parte
dell’«alfabeto della speranza» e hanno accompagnato lo studio e il
confronto durante la Settimana Sociale dei Cattolici Italiani a Reggio
Calabria. Mi sono sembrate un buon motivo di riflessione in questo tempo
di crisi economica e di valori, per abbattere chiusura e diffidenza
verso l’altro, e impegnarsi nel comprendere fenomeni che richiedono
apertura, intelligenza e responsabilità.
Queste tre semplici lettere sono l’inizio dell’alfabeto: se ben
coniugate, possibilmente unite alle restanti, sono alla base del nostro
pensiero logico per comunicare con gli esseri umani, costituendo
l’essenza stessa del nostro esistere insieme agli altri.
Molti sono i luoghi comuni che contraddistinguono il nostro comunicare
anche se sono convinta che, in fondo, ci sia un forte e talvolta
inconsapevole desiderio in ognuno di stare con gli altri, credere che
ciò sia possibile e volerli accogliere veramente. Basterebbe in fondo
poco, anche se difficile; come, ad esempio, fare l’interpunzione su di
noi più che su gli altri. In altre parole, partiamo da noi per
chiederci: come accogliamo, se agiamo per il bene comune, se siamo
costruttori di una città a misura di uomo, donna, bambino, anziano,
straniero, zingaro.
Credo anche che sia un luogo comune parlare di famiglia, di
globalizzazione, di processi migratori, di violenza giovanile, senza
sapere bene di cosa stiamo parlando e che cosa significhi nella realtà.
E questo è il guaio. Se riflettessimo di più, se osservassimo di più,
sicuramente accoglieremmo e contribuiremmo ad un bene comune migliore.
A
tal proposito mi piace citare lo scambio di telegrammi fra il Presidente
della Repubblica e il Papa nel suo recente viaggio a Malta parlando
dell’immigrazione. «L'accoglienza è un dovere. Il vecchio continente è
chiamato oggi ad assistere ed accogliere, con spirito solidale e senza
pregiudizi, coloro che cercano rifugio», si legge nel messaggio del
Presidente. Benedetto XVI si richiama ai doveri dei cristiani verso il
dramma dell’immigrazione che è «… una grande sfida del nostro tempo alla
quale dobbiamo tutti rispondere. Bisogna lavorare, però, affinché tutti
possano vivere nella loro terra una vita dignitosa e, se arrivano qui,
fare il possibile affinché trovino uno spazio di vita dignitosa. È
quindi necessario trovare la
fantasia
per
rispondere a queste sfide».
Alla ricerca di significato
Queste provocazioni ci stimolano a chiederci: Cosa significa allora
Accogliere,
cosa significa
Bene
comune,
ed ancora, cosa significa
Città dell’essere umano
e Condivisione?
Per
Accogliere
possono essere sottolineate almeno alcune conseguenze.
Una
riguarda la
famiglia,
questa
sconosciuta,
nel
senso che non vi è occasione dove non vengano nominati i rapporti
affettivi fra i membri, la sua
fragilità
tra
nascita e tramonto,
conciliazione
fra
lavoro e relazioni,
tradizioni
tra
unicità e differenze culturali,
identità
di
gruppo fra diversità generazionali e legami responsabili. Allora,
parlando di famiglia come “guida” dell’agire sociale dalla “culla alla
bara”, per ogni essere umano non si può che considerarla insostituibile
“luogo naturale”, entro cui educare alla libertà, alla responsabilità
dei suoi membri, proteggendoli e nello stesso tempo aprendoli
all’impegno religioso, politico, economico, ideologico, etico. In altre
parole, verso una crescita di consapevolezza e responsabilità nei
confronti del bene comune.
Ciò
può avvenire con una vera accoglienza del bambino che viene al mondo e
con il rifiuto del porre fine alla vita colpita da malattie inguaribili
attraverso quella che, superficialmente, viene definita eutanasia.
Il
Bene
comune:
ambito essenziale di benessere per le persone e per la società che deve
accogliere non solo i propri membri, ma chiunque
altro,
non occupandosi o preoccupandosi solo del proprio interno, della propria
intimità, del proprio star bene privato, ma capace di aprirsi e
proiettarsi verso l’esterno, dove la solidarietà prende il posto
dell’egoismo o egocentrismo, impegnandosi per un nuovo “stile di vita”.
Città dell’essere umano
e
Condivisione:
ne fanno parte sia l’accoglienza che il bene comune. Solo esistendo
entrambi possiamo realizzare una città a misura dell’uomo, che condivida
e cerchi di risolvere gli immensi problemi che nascono dal vivere
insieme.
Risorsa
Ho
parlato di osservazione e di riflessione. Riflettendo su quanto
accennato (servirebbero fiumi di parole per descrivere solo questi pochi
aspetti considerati), vorrei aggiungere un’altra lettera alle prime tre
dell’alfabeto: R come
Risorsa.
Noi siamo la risorsa per cambiare le cose. Al nostro cambiamento di
pensiero
deve
seguire con coraggio e forza quello dell’azione.
Agiremo, se crediamo in qualcuno che è sopra e nello stesso tempo dentro
di noi. A pensarci bene, cosa ci impedisce di cambiare la visione delle
cose del mondo? Nella distrazione generale, basta accettare la sfida di
fare spazio alla vita debole che nasce ai margini. Sappiamo che
accettare ciò significa realizzare il desiderio dei desideri: quello di
essere felici.
È
possibile esserlo in mezzo a tante difficoltà?
Sì,
se accorciamo le distanze tra bisogno e risposta. Aiutare chi sta peggio
significa
guardarsi attorno
e
muoversi verso,
piuttosto che attendere che chi ha bisogno venga a chiedere. È bene
ricordare che i bisogni non sono soltanto e sempre economici, sono anche
la mancanza di condivisione, incomprensione, e, quindi, isolamento ed
emarginazione.
Condividere insieme la vita, che da soli pesa troppo, può farla
diventare leggera e, fondamentalmente, aiuta la società a non
inselvatichirsi ed essere meno egoista.
Anna
Clemente
Psicologa Terapeuta familiare
Viale Gorgia di Leontini 260
00124 Roma