n. 1
gennaio 2011

 

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L’accoglienza: risorsa per il bene comune

di ANNA CLEMENTE

 

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Siamo nel primo decennio del Terzo Millennio ed un primo bilancio è possibile. L’Anno Santo del 2000 ha aperto nuove frontiere a Roma per lo sviluppo dei suoi abitanti, residenti o visitanti. È aumentata la qualità della vita nella città, culla della Chiesa che, per definizione, è la città dell’accoglienza e, quindi, creatrice e realizzatrice del bene comune.

Una sfida

Viene spontaneo dall’osservazione di chi a Roma ci vive da sempre che, oltre alla sua unicità invidiata da tutti, la città non realizzi il vasto senso di civiltà che la sua storia e la sua bellezza meriterebbero.

La civiltà di una città e la qualità della vita dei suoi abitanti, che ne percorrono le strade ogni giorno, si misura sullo stile di quelli che “corrono” per una destinazione e di quelli che si muovono più lentamente. Non tutti sono protetti in maniera adeguata dalla sicurezza, che dovrebbe guardarli dai pericoli, garantire loro giustizia sociale e condizioni di vita dignitosa.

Ci sono persone che si vedono e persone - poche o molte che siano - “invisibili”, dal colore della pelle diversa, che parlano lingue sconosciute, che vivono nella distrazione generale e nel nascondimento, delle quali ci si rende conto quando accade qualche episodio di cronaca. Allora il giudizio prende il posto dell’indifferenza, per tramontare però anche questo rapidamente. D’altra parte, chi non esiste, perché dovrebbe essere ricordato? In particolare, se è anziano (… tanto la vita l’ha vissuta! … a chi può essere ancora utile?...) o se è zingaro (… tanto è solo uno zingaro…).

Il guaio è che ci sono anche tanti giovani tra loro, ed è anche più tragico, perché non vederli nella giusta luce significa negare il futuro dell’umanità stessa e della storia che l’accompagna. Basta osservare la nostra società (in tal senso Roma è uno spaccato che ne comprende le molte facce) anche se tutto è una sfida per i giovani e gli anziani.

Anziani e giovani

Gli anziani, definiti papy boomers o diversamente giovani: una presenza sempre più evidente (nel 2020 un anziano su tre avrà oltre 65 anni), che mostra un volto inversamente proporzionale alle possibilità di prevenire, curare e supportare bisogni legati alla salute, in un paese che invecchia. Sono pochi gli anziani economicamente autonomi, molti invece quelli che mostrano difficoltà nella conduzione di un’esistenza dignitosa, auspicabile riconoscimento di una vita quasi sempre dura (si pensi alla guerra, alla povertà che ne è derivata, alla sforzo per costruire un futuro per le nuove generazioni).

I giovani: ci potremmo chiedere qual è la causa della violenza dei giovani, con i loro comportamenti da bulli e il loro apparente rifiuto di comunicare; crisi familiari, con l’altissimo numero di separazioni, divorzi, annullamenti del vincolo matrimoniale (nei “dormitori dei disperati” uno su cinque è un papà separato). Essi mostrano irresponsabilità verso i figli, vittime di eventi che non capiscono e destinati ad un futuro poco sereno, né facile.

E gli stranieri immigrati, dei quali utilizziamo solo ed esclusivamente l’intelligenza e la forza, sfruttando la povertà che li spinge fuori dei loro confini e li fa approdare nel nostro mondo occidentale che, quasi sempre, affida loro la cura dei propri cari e i lavori più pesanti, ignorando le loro reali capacità. Guai però a lasciarsi sopraffare dalla negatività dei particolari del quotidiano.

Basta spostare il “pensiero” e si può sperare di cambiare le cose.

L’alfabeto della speranza

Uno spostamento di “pensiero” lo forniscono tre lettere: A come Accoglienza, B come Bene comune, C come Città “umana” e Condivisione. Fanno parte dell’«alfabeto della speranza» e hanno accompagnato lo studio e il confronto durante la Settimana Sociale dei Cattolici Italiani a Reggio Calabria. Mi sono sembrate un buon motivo di riflessione in questo tempo di crisi economica e di valori, per abbattere chiusura e diffidenza verso l’altro, e impegnarsi nel comprendere fenomeni che richiedono apertura, intelligenza e responsabilità.

Queste tre semplici lettere sono l’inizio dell’alfabeto: se ben coniugate, possibilmente unite alle restanti, sono alla base del nostro pensiero logico per comunicare con gli esseri umani, costituendo l’essenza stessa del nostro esistere insieme agli altri.

Molti sono i luoghi comuni che contraddistinguono il nostro comunicare anche se sono convinta che, in fondo, ci sia un forte e talvolta inconsapevole desiderio in ognuno di stare con gli altri, credere che ciò sia possibile e volerli accogliere veramente. Basterebbe in fondo poco, anche se difficile; come, ad esempio, fare l’interpunzione su di noi più che su gli altri. In altre parole, partiamo da noi per chiederci: come accogliamo, se agiamo per il bene comune, se siamo costruttori di una città a misura di uomo, donna, bambino, anziano, straniero, zingaro.

Credo anche che sia un luogo comune parlare di famiglia, di globalizzazione, di processi migratori, di violenza giovanile, senza sapere bene di cosa stiamo parlando e che cosa significhi nella realtà. E questo è il guaio. Se riflettessimo di più, se osservassimo di più, sicuramente accoglieremmo e contribuiremmo ad un bene comune migliore.

A tal proposito mi piace citare lo scambio di telegrammi fra il Presidente della Repubblica e il Papa nel suo recente viaggio a Malta parlando dell’immigrazione. «L'accoglienza è un dovere. Il vecchio continente è chiamato oggi ad assistere ed accogliere, con spirito solidale e senza pregiudizi, coloro che cercano rifugio», si legge nel messaggio del Presidente. Benedetto XVI si richiama ai doveri dei cristiani verso il dramma dell’immigrazione che è «… una grande sfida del nostro tempo alla quale dobbiamo tutti rispondere. Bisogna lavorare, però, affinché tutti possano vivere nella loro terra una vita dignitosa e, se arrivano qui, fare il possibile affinché trovino uno spazio di vita dignitosa. È quindi necessario trovare la fantasia per rispondere a queste sfide».

Alla ricerca di significato

Queste provocazioni ci stimolano a chiederci: Cosa significa allora Accogliere, cosa significa Bene comune, ed ancora, cosa significa Città dell’essere umano e Condivisione?

Per Accogliere possono essere sottolineate almeno alcune conseguenze.

Una riguarda la famiglia, questa sconosciuta, nel senso che non vi è occasione dove non vengano nominati i rapporti affettivi fra i membri, la sua fragilità tra nascita e tramonto, conciliazione fra lavoro e relazioni, tradizioni tra unicità e differenze culturali, identità di gruppo fra diversità generazionali e legami responsabili. Allora, parlando di famiglia come “guida” dell’agire sociale dalla “culla alla bara”, per ogni essere umano non si può che considerarla insostituibile “luogo naturale”, entro cui educare alla libertà, alla responsabilità dei suoi membri, proteggendoli e nello stesso tempo aprendoli all’impegno religioso, politico, economico, ideologico, etico. In altre parole, verso una crescita di consapevolezza e responsabilità nei confronti del bene comune.

Ciò può avvenire con una vera accoglienza del bambino che viene al mondo e con il rifiuto del porre fine alla vita colpita da malattie inguaribili attraverso quella che, superficialmente, viene definita eutanasia.

Il Bene comune: ambito essenziale di benessere per le persone e per la società che deve accogliere non solo i propri membri, ma chiunque altro, non occupandosi o preoccupandosi solo del proprio interno, della propria intimità, del proprio star bene privato, ma capace di aprirsi e proiettarsi verso l’esterno, dove la solidarietà prende il posto dell’egoismo o egocentrismo, impegnandosi per un nuovo “stile di vita”.

Città dell’essere umano e Condivisione: ne fanno parte sia l’accoglienza che il bene comune. Solo esistendo entrambi possiamo realizzare una città a misura dell’uomo, che condivida e cerchi di risolvere gli immensi problemi che nascono dal vivere insieme.

Risorsa

Ho parlato di osservazione e di riflessione. Riflettendo su quanto accennato (servirebbero fiumi di parole per descrivere solo questi pochi aspetti considerati), vorrei aggiungere un’altra lettera alle prime tre dell’alfabeto: R come Risorsa. Noi siamo la risorsa per cambiare le cose. Al nostro cambiamento di pensiero deve seguire con coraggio e forza quello dell’azione. Agiremo, se crediamo in qualcuno che è sopra e nello stesso tempo dentro di noi. A pensarci bene, cosa ci impedisce di cambiare la visione delle cose del mondo? Nella distrazione generale, basta accettare la sfida di fare spazio alla vita debole che nasce ai margini. Sappiamo che accettare ciò significa realizzare il desiderio dei desideri: quello di essere felici.

È possibile esserlo in mezzo a tante difficoltà?

Sì, se accorciamo le distanze tra bisogno e risposta. Aiutare chi sta peggio significa guardarsi attorno e muoversi verso, piuttosto che attendere che chi ha bisogno venga a chiedere. È bene ricordare che i bisogni non sono soltanto e sempre economici, sono anche la mancanza di condivisione, incomprensione, e, quindi, isolamento ed emarginazione.

Condividere insieme la vita, che da soli pesa troppo, può farla diventare leggera e, fondamentalmente, aiuta la società a non inselvatichirsi ed essere meno egoista.

Anna Clemente
Psicologa Terapeuta familiare
Viale Gorgia di Leontini 260
00124 Roma
 

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