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ualche
anno fa è stato scritto un testo sul rapporto che la nostra società ha
da alcuni decenni imbastito con il ceto giovanile dal titolo
particolarmente provocatorio:
Non
è un paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce
(Marsilio, Venezia 2009). Proprio sulle prime pagine di questo testo di
Alessandro Rosina e di Elisabetta Ambrosi si trova citata un’espressione
dell’indimenticato Edmondo Berselli che spiega bene la provocazione
insita nel titolo: «A lungo si è detto che con il debito pubblico
stavamo ipotecando il futuro dei nostri figli. Evidentemente non
bastava: siamo fatti così. Le nuove generazioni ci piace rapinarle».
Avanti giovani!
Ed
effettivamente, come non ricordare che, secondo recenti rilevazioni
Istat, sono proprio i giovani coloro che stanno pagando il prezzo più
alto, in termini di perdita di lavoro, della recente spaventosa crisi
economico-finanziaria?
E
cosa dire delle spesso umilianti tipologie di contratti cui si sono
sottoposti gli altri 4 milioni di giovani lavoratori? E possiamo
dimenticare i restanti due milioni circa di giovani che sono alle prese
con gli studi universitari?
Cosa
li attende? Un destino incerto tra precariato, espatrio e
disoccupazione. Questa, dunque, la situazione dei nostri giovani: una
situazione difficile per quel che riguarda il mondo del lavoro e di
conseguenza l’inserimento nelle dinamiche della società. Difficile per
quel che riguarda la possibilità di conseguire l’autonomia economica
dalle proprie famiglie di origine e infine la possibilità di dar vita a
nuovi nuclei familiari. E questo fa sì che il nostro non sia un Paese
per giovani, in quanto non li aiuta ad onorare la verità del loro nome.
Che cosa significa, infatti, essere “giovane”? Secondo alcuni, la parola
“giovane” potrebbe derivare dal latino
iuvare
(in
ciò sarebbe parente del più diffuso termine “giovamento”), quindi
giovane sarebbe “colui che aiuta”.
La
cosa appare convincente proprio per il fatto che è a quell’età - tra i
18 e i 29 anni - che un essere umano è naturalmente dotato del meglio
della forza biologica, del meglio della forza riproduttiva, del meglio
della forza intellettuale, e di uno straordinario desiderio di
cambiamento. E che cosa oggi dobbiamo constatare? Dobbiamo tristemente
prendere atto della presenza di giovani che, loro malgrado, se non
possono lavorare, non possono fare famiglia né figli con i pochi soldi
che tirano su, non possono accedere ai posti di comando, sono costretti
a non giovare! Né a loro né ad altri. Eppure, a parere di molti
studiosi, non sarebbe particolarmente complesso provare a dare una
scossa al nostro sistema socio-economico, per restituire proprio ai
giovani la possibilità di essere di giovamento per il nostro Paese, che,
nel frattempo, proprio perché tiene inattiva il meglio della forza
fisica, intellettuale e riproduttiva - quella dei giovani s’intende -
diventa giorno dopo giorno più vecchio, più lento, meno competitivo a
livello internazionale e sempre più privo di culle. Mi pare che abbia
ben colto il nodo del problema e le prospettive di soluzioni Massimo
Livi Bacci, in un volume particolarmente efficace sin dal titolo:
Avanti giovani alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in
Italia
(Il
Mulino, Bologna 2008).
Tre questioni per intervenire
A
suo avviso tre sono gli ambiti di intervento che la nostra classe
politica dovrebbe affrontare per restituire ai giovani le prerogative
loro sottratte. Al primo posto, vi è la questione della formazione (in
Italia ancora troppo lunga e diciamo pure abbastanza confusa). Al
secondo, la questione della difficile conquista dell’autonomia dalla
famiglia d’origine: in Italia i costi per farsi una famiglia sono
letteralmente insostenibili per chi è alla prima esperienza di lavoro o
è ancora in cerca di una prima occupazione (si pensi solo ai
prerequisiti necessari per accedere e accendere un mutuo). Vi è poi
infine l’ambito del rapporto lavoro/genitorialità possibile: soprattutto
per le donne l’attuale legge non trova modi di conciliare le diverse
esigenze. Più operativamente, si dovrebbe dunque rendere più breve (e
chiaro) il percorso di studi, soprattutto quello universitario. Sarebbe
necessario costituire fondi di solidarietà o prestiti d’onore per chi
inizia a lavorare o vuole comprare una casa, e ancora rivedere le leggi
del lavoro sia per quello che riguarda la questione flessibilità, che
spesso ha dato vita a veri mostri contrattuali, sia per quello che
riguarda l’incoraggiamento delle giovani donne che desiderano
mettere al mondo dei figli. Ma di queste cose pare che l’attuale ceto
dirigente italiano non ne voglia proprio sentire parlare.
Come
dimenticare con quanta difficoltà nel nostro Paese si discuta anche solo
del tema del quoziente familiare e di come con eccessiva disinvoltura
sia stata lasciata cadere la proposta della costituzione di un fondo di
solidarietà per le giovani coppie?
E
così, passano gli anni, aumentano le denunce e le proposte, eppure la
situazione non cambia: semmai peggiora. Ma da cosa deriva questa
distrazione della classe politica – e più in generale dell’intera
società – nei confronti dei giovani, così spesso evocati e così
altrettanto di frequente dimenticati, quando si tratta di distribuire le
risorse economiche? Come darsi e dare ragione dell’amara constatazione,
fatta da Rosina e Ambrosi, per la quale, della spesa pubblica, al ceto
giovanile vengono destinate solo le “briciole”?
Cambiare stili di vita e leggi
A
queste ultime domande non si è sottratto Massimo Livi Bacci, offrendoci
un’illuminante risposta. Egli afferma: «Tutto questo [cioè le proposte
da lui formulate in merito alle tre questioni prima evocate: formazione,
autonomia dalla famiglia d’origine, e rapporto lavoro/esperienza della
genitorialità] non basterà se, assieme alle condizioni materiali e ai
modi di funzionamento della società, non cambieranno anche le ambizioni,
le aspettative e gli ideali. Il mutamento dei primi non è sufficiente
per determinare la trasformazione dei secondi».
Quella giovanile non è dunque una questione (solo) di tipo politico. Più
in profondità è una questione di stili di vita. Se infatti nel nostro
Paese la popolazione giovanile, negli ultimi sessant’anni, è diminuita
in misura notevole, passando dall’essere nel 1950 un quarto della
popolazione totale all’attuale settimo di essa, sono aumentati i
cosiddetti “giovani nell’anima”, un’intera generazione di adulti –
grosso modo coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 - che pazzamente
afferrata dal mito della giovinezza non vuole smettere di essere e fare
i giovani.
Insomma, vi è nel nostro Paese un eccesso di giovinezza che condanna a
un destino di marginalizzazione i giovani veri, quelli anagrafici. Una
generazione che alla fine dei conti - parole di Marco Belpoliti -
finisce per amare più la giovinezza che i giovani stessi. Proprio questa
generazione di “giovani nell’anima” non lascia i posti di comando; non
fa leggi per le giovani famiglie; non porta a buon termine alcuna
riforma dell’Università o del mondo del lavoro; è all’origine della
spaventosa crisi economico-finanziaria dell’ultimo periodo; non lotta
con convinzione contro l’evasione fiscale; non procede ad un
ammodernamento del sistema giudiziario del Paese; tiene lontani
moltissimi investitori stranieri.
Ma
tiene tutto per sé, interessata unicamente al miglioramento delle
condizioni di benessere di chi già sta bene. In questo modo questi
adulti non garantiscono nessuna possibilità al futuro ei giovani e
nessun futuro alle possibilità dei giovani, semplicemente procedono ad
un sistematico
sequestro del futuro ai loro figli.
Da
questo punto di vista si richiede un’inversione di tendenza davvero
radicale: non possiamo continuare a vivere al di sopra delle nostre
possibilità, mettendo un’ipoteca sul futuro dei giovani. A noi adulti è
richiesto, dunque, un sussulto di amore, amore vero per i giovani,
ricordandoci che il mondo non ci viene dato in eredità da chi ci ha
preceduto, ma più in verità, ci viene dato in prestito da chi viene dopo
di noi.
Armando Matteo
Assistente Nazionale della FUCI
Via F. Marchetti Selvaggiani, 22
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