n. 1
gennaio 2011

 

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Quali politiche per i giovani

di ARMANDO MATTEO

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Qualche anno fa è stato scritto un testo sul rapporto che la nostra società ha da alcuni decenni imbastito con il ceto giovanile dal titolo particolarmente provocatorio: Non è un paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce (Marsilio, Venezia 2009). Proprio sulle prime pagine di questo testo di Alessandro Rosina e di Elisabetta Ambrosi si trova citata un’espressione dell’indimenticato Edmondo Berselli che spiega bene la provocazione insita nel titolo: «A lungo si è detto che con il debito pubblico stavamo ipotecando il futuro dei nostri figli. Evidentemente non bastava: siamo fatti così. Le nuove generazioni ci piace rapinarle».

Avanti giovani!

Ed effettivamente, come non ricordare che, secondo recenti rilevazioni Istat, sono proprio i giovani coloro che stanno pagando il prezzo più alto, in termini di perdita di lavoro, della recente spaventosa crisi economico-finanziaria?

E cosa dire delle spesso umilianti tipologie di contratti cui si sono sottoposti gli altri 4 milioni di giovani lavoratori? E possiamo dimenticare i restanti due milioni circa di giovani che sono alle prese con gli studi universitari?

Cosa li attende? Un destino incerto tra precariato, espatrio e disoccupazione. Questa, dunque, la situazione dei nostri giovani: una situazione difficile per quel che riguarda il mondo del lavoro e di conseguenza l’inserimento nelle dinamiche della società. Difficile per quel che riguarda la possibilità di conseguire l’autonomia economica dalle proprie famiglie di origine e infine la possibilità di dar vita a nuovi nuclei familiari. E questo fa sì che il nostro non sia un Paese per giovani, in quanto non li aiuta ad onorare la verità del loro nome. Che cosa significa, infatti, essere “giovane”? Secondo alcuni, la parola “giovane” potrebbe derivare dal latino iuvare (in ciò sarebbe parente del più diffuso termine “giovamento”), quindi giovane sarebbe “colui che aiuta”.

La cosa appare convincente proprio per il fatto che è a quell’età - tra i 18 e i 29 anni - che un essere umano è naturalmente dotato del meglio della forza biologica, del meglio della forza riproduttiva, del meglio della forza intellettuale, e di uno straordinario desiderio di cambiamento. E che cosa oggi dobbiamo constatare? Dobbiamo tristemente prendere atto della presenza di giovani che, loro malgrado, se non possono lavorare, non possono fare famiglia né figli con i pochi soldi che tirano su, non possono accedere ai posti di comando, sono costretti a non giovare! Né a loro né ad altri. Eppure, a parere di molti studiosi, non sarebbe particolarmente complesso provare a dare una scossa al nostro sistema socio-economico, per restituire proprio ai giovani la possibilità di essere di giovamento per il nostro Paese, che, nel frattempo, proprio perché tiene inattiva il meglio della forza fisica, intellettuale e riproduttiva - quella dei giovani s’intende - diventa giorno dopo giorno più vecchio, più lento, meno competitivo a livello internazionale e sempre più privo di culle. Mi pare che abbia ben colto il nodo del problema e le prospettive di soluzioni Massimo Livi Bacci, in un volume particolarmente efficace sin dal titolo: Avanti giovani alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia (Il Mulino, Bologna 2008).

Tre questioni per intervenire

A suo avviso tre sono gli ambiti di intervento che la nostra classe politica dovrebbe affrontare per restituire ai giovani le prerogative loro sottratte. Al primo posto, vi è la questione della formazione (in Italia ancora troppo lunga e diciamo pure abbastanza confusa). Al secondo, la questione della difficile conquista dell’autonomia dalla famiglia d’origine: in Italia i costi per farsi una famiglia sono letteralmente insostenibili per chi è alla prima esperienza di lavoro o è ancora in cerca di una prima occupazione (si pensi solo ai prerequisiti necessari per accedere e accendere un mutuo). Vi è poi infine l’ambito del rapporto lavoro/genitorialità possibile: soprattutto per le donne l’attuale legge non trova modi di conciliare le diverse esigenze. Più operativamente, si dovrebbe dunque rendere più breve (e chiaro) il percorso di studi, soprattutto quello universitario. Sarebbe necessario costituire fondi di solidarietà o prestiti d’onore per chi inizia a lavorare o vuole comprare una casa, e ancora rivedere le leggi del lavoro sia per quello che riguarda la questione flessibilità, che spesso ha dato vita a veri mostri contrattuali, sia per quello che riguarda l’incoraggiamento delle giovani donne che desiderano

mettere al mondo dei figli. Ma di queste cose pare che l’attuale ceto dirigente italiano non ne voglia proprio sentire parlare.

Come dimenticare con quanta difficoltà nel nostro Paese si discuta anche solo del tema del quoziente familiare e di come con eccessiva disinvoltura sia stata lasciata cadere la proposta della costituzione di un fondo di solidarietà per le giovani coppie?

E così, passano gli anni, aumentano le denunce e le proposte, eppure la situazione non cambia: semmai peggiora. Ma da cosa deriva questa distrazione della classe politica – e più in generale dell’intera società – nei confronti dei giovani, così spesso evocati e così altrettanto di frequente dimenticati, quando si tratta di distribuire le risorse economiche? Come darsi e dare ragione dell’amara constatazione, fatta da Rosina e Ambrosi, per la quale, della spesa pubblica, al ceto giovanile vengono destinate solo le “briciole”?

Cambiare stili di vita e leggi

A queste ultime domande non si è sottratto Massimo Livi Bacci, offrendoci un’illuminante risposta. Egli afferma: «Tutto questo [cioè le proposte da lui formulate in merito alle tre questioni prima evocate: formazione, autonomia dalla famiglia d’origine, e rapporto lavoro/esperienza della genitorialità] non basterà se, assieme alle condizioni materiali e ai modi di funzionamento della società, non cambieranno anche le ambizioni, le aspettative e gli ideali. Il mutamento dei primi non è sufficiente per determinare la trasformazione dei secondi».

Quella giovanile non è dunque una questione (solo) di tipo politico. Più in profondità è una questione di stili di vita. Se infatti nel nostro Paese la popolazione giovanile, negli ultimi sessant’anni, è diminuita in misura notevole, passando dall’essere nel 1950 un quarto della popolazione totale all’attuale settimo di essa, sono aumentati i cosiddetti “giovani nell’anima”, un’intera generazione di adulti – grosso modo coloro che sono nati tra il 1946 e il 1964 - che pazzamente afferrata dal mito della giovinezza non vuole smettere di essere e fare i giovani.

Insomma, vi è nel nostro Paese un eccesso di giovinezza che condanna a un destino di marginalizzazione i giovani veri, quelli anagrafici. Una generazione che alla fine dei conti - parole di Marco Belpoliti - finisce per amare più la giovinezza che i giovani stessi. Proprio questa generazione di “giovani nell’anima” non lascia i posti di comando; non fa leggi per le giovani famiglie; non porta a buon termine alcuna riforma dell’Università o del mondo del lavoro; è all’origine della spaventosa crisi economico-finanziaria dell’ultimo periodo; non lotta con convinzione contro l’evasione fiscale; non procede ad un ammodernamento del sistema giudiziario del Paese; tiene lontani moltissimi investitori stranieri.

Ma tiene tutto per sé, interessata unicamente al miglioramento delle condizioni di benessere di chi già sta bene. In questo modo questi adulti non garantiscono nessuna possibilità al futuro ei giovani e nessun futuro alle possibilità dei giovani, semplicemente procedono ad un sistematico sequestro del futuro ai loro figli.

Da questo punto di vista si richiede un’inversione di tendenza davvero radicale: non possiamo continuare a vivere al di sopra delle nostre possibilità, mettendo un’ipoteca sul futuro dei giovani. A noi adulti è richiesto, dunque, un sussulto di amore, amore vero per i giovani, ricordandoci che il mondo non ci viene dato in eredità da chi ci ha preceduto, ma più in verità, ci viene dato in prestito da chi viene dopo di noi.

Armando Matteo
Assistente Nazionale della FUCI
Via F. Marchetti Selvaggiani, 22
00165 Roma

 

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