A
cinquant’anni dall’apertura del Concilio Vaticano II, il dibattito sulla
Chiesa è più vivo che mai. L’ecclesiologia appare come un cantiere
sempre aperto, una specie di
Sagrada Familia
sempre in costruzione, dove i tanti progettisti modificano a piacimento
un progetto che il Concilio aveva esposto a grandi linee, fissando i
princìpi più che i dettagli. Ciò che ne risulta è la mancanza di un
modello condiviso di Chiesa, che sembra dar luogo - o forse sarebbe
meglio dire, che lascia spazio - a una moltiplicazione di nuovi modi di
essere, e quindi, di intendere la Chiesa. Il fenomeno non è
necessariamente positivo, e comunque è tipico di un tempo di
transizione, che vede la coesistenza di due o più modelli: uno che
termina, gli altri che con più o meno coerenza si impongono. Vale la
pena di fotografare questa situazione, non solo proponendo un panorama
dei possibili nuovi modi di essere Chiesa, ma provando anche a porre la
questione della loro plausibilità e della loro capacità di rispondere
alle attuali sfide della modernità.
Il
modello tradizionale di Chiesa
Prima di qualsiasi approccio ai nuovi modelli di Chiesa, è necessario
riprendere sinteticamente i tratti dell’ecclesiologia pre-conciliare. I
motivi sono almeno tre:
a)
perché si può misurare il cammino percorso, distaccandosi da una
concezione ecclesiologica e da una prassi ecclesiale che avevano
regolato l’esperienza cristiana in Occidente per quattro secoli, a
partire dalla Riforma cattolica di Trento, se non per un intero
millennio, a partire dalla Riforma gregoriana;
b)
perché quel modello costituisce ancora l’intelaiatura istituzionale
della Chiesa attuale, che non ha cancellato le strutture precedenti per
sostituire le proprie, ma ha inserito i suoi organismi di comunione su
una trama ecclesiale già ben collaudata;
c)
perché frange consistenti nella Chiesa vagheggiano un ritorno a quel
modello, giudicando il Concilio e la sua dottrina come un tradimento
della Tradizione.
Per
definire quel modo di essere Chiesa si parla di modello piramidale. Si
tratta di una struttura a due livelli, che si fonda sul ruolo essenziale
della gerarchia, organizzata in modo piramidale: al vertice il Papa, che
governa l’intera Chiesa come vescovo universale, attraverso i suoi
funzionari, i vescovi, che lo rendono presente nelle circoscrizioni
ecclesiastiche – le diocesi - dell’unica Chiesa Cattolica Romana,
all’interno delle quali agiscono i sacerdoti, dedicati soprattutto alla
cura d’anime, in modo che i fedeli siano raggiunti attraverso una catena
di trasmissione dell’autorità che tutti informa secondo la medesima
disciplina ecclesiastica. Accanto a questo vettore ne esiste un altro,
quello degli Ordini religiosi, direttamente soggetti alla Santa Sede e
regolati dall’istituto dell’esenzione, i quali contribuiscono in modo
determinante ad agire sul
coetus fidelium,
soprattutto sulle categorie di
persone che non rientrano nella cura abituale delle parrocchie.
In
questo modo, attraverso una rete capillare di strutture sul territorio -
parrocchie, oratori, cappelle, ma anche istituti, collegi, case di
accoglienza di ogni genere - la Chiesa svolgeva un ruolo a tutto campo,
che non si limitava all’aspetto religioso della vita, ma abbracciava
tutti i bisogni e accompagnava il cristiano dal primo all’ultimo giorno
di vita.
Risulta subito evidente che si tratta di un modello di Chiesa in cui il
numero delle persone dedicate a questo servizio ecclesiale è altissimo:
questo significa che l’enfasi posta sulla vocazione al sacerdozio e alla
vita religiosa era fortissima, in modo che le forze migliori della
società cristiana scegliessero questo stato e garantissero così una
presenza rilevante nella società cristiana. Questo poteva avvenire in
una società cristiana che, veicolando i modelli di vita, indicava come
significativa una scelta vocazionale che comportava indubbiamente
sacrifici, ma che prometteva «il centuplo quaggiù e la vita eterna».
L’evangelizzazione, in questo modello, era cosa di preti. La fondazione
di tanti istituti per le missioni lo dimostra più di ogni argomentazione
teologica.
Il
cambio di prospettiva del Vaticano II
La
fine della
societas cristiana
ha
messo in crisi questo circolo virtuoso, nel quale chi sceglieva uno
stato di consacrazione avrebbe plasmato una società cristiana da cui
sarebbero usciti altri che avrebbero continuato questa opera. Il
Sessantotto costituisce uno spartiacque decisivo, dopo il quale il
processo di secolarizzazione ha determinato una contrazione drastica
degli ingressi nei seminari e nelle case di formazione. Grandi strutture
appena costruite per accogliere schiere di vocazioni che non chiedevano
la vita eterna, ma un diploma come strumento per guadagnare posizioni
nella società, sono il segno di un’illusione che ha lasciato il campo a
una delusione ancora più amara, per un passato glorioso che stava
finendo. Si può discutere sulle cause che hanno determinato la fine di
un regime di cristianità. Gli ambienti tradizionalisti accusano il
Vaticano II di aver spezzato il filo della Tradizione, determinando
l’attuale crisi della Chiesa. In realtà, senza il Concilio, la Chiesa si
sarebbe trovata ancora più impreparata a un evento traumatico come il
Sessantotto, che ha scosso il sistema sociale fin nelle sue fondamenta,
determinando un cambio radicale di mentalità.
Piuttosto, il Vaticano II ha offerto i fondamenti di una visione
rinnovata di Chiesa, capace di entrare in dialogo con il mondo
contemporaneo, anche se non si può parlare in senso proprio di un
modello di Chiesa conciliare: «ecclesiologia di comunione» è formula
invalsa a partire dal Sinodo dei vescovi del 1985. Senz’altro, però, il
Vaticano II ha segnato la fine dell’ecclesiologia precedente. Questo non
significa che l’ha negata, ma piuttosto che l’ha assunta in un orizzonte
più ampio. Se, infatti, la manualistica parlava di Chiesa visibile, in
polemica con le tesi della Riforma, il Vaticano II, con la famosa
analogia della Chiesa con il Verbo incarnato,
ricompone la frattura.
E
precisa che «la società gerarchica e il corpo mistico di Cristo,
l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa della terra e
la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare
come due realtà, ma come una sola complessa realtà, risultante di un
elemento umano e di un elemento divino: l’organismo sociale dei credenti
e lo Spirito che lo vivifica e lo “concorpora”» (LG 8).
Se
la manualistica enfatizzava in modo unilaterale la dimensione gerarchica
della Chiesa, il Vaticano II recupera la teologia del Popolo di Dio,
affermando il primato della vita teologale sulle funzioni ministeriali;
se la manualistica insisteva sulla Chiesa monarchica, concentrando ogni
realtà della Chiesa nel Papa, suo capo visibile, il Vaticano II rilegge
la teologia del primato nel quadro della collegialità episcopale (cf LG
III). Peraltro, l’affermazione dell’universale vocazione alla santità
(cf LG V) finiva per togliere enfasi all’affermazione della vita
religiosa come stato di perfezione evangelica, obbligando a cercare
un’altra via - quella propriamente del “carisma fondazionale” - per
spiegare questo stato di vita nella Chiesa.
Nuovi modi di essere della Chiesa
Ciò
che il capitolo I diceva sul piano teologico, era ripreso sul piano più
storico nel capitolo II: la Chiesa-sacramento, a ben vedere, è lo stesso
Popolo di Dio che cammina nella storia verso il compimento del Regno.
Come si sa,
Lumen gentium
II
costituisce uno dei tornanti più significativi del Concilio, perché
supera definitivamente la concezione piramidale della Chiesa. Il cambio
radicale di prospettiva non consiste tanto in una qualche proposta
ecclesiologica alternativa, ma nella scelta di anteporre al capitolo
sulla gerarchia quello sul Popolo di Dio. In tal modo la comune dignità
di tutti i battezzati viene prima delle funzioni che appartengono alla
sola gerarchia. Questo, più di qualsiasi altro discorso, costituisce la
novità che permette di parlare di una partecipazione di tutti i
battezzati alla vita e alla missione della Chiesa, in quanto partecipi
della funzione profetica, sacerdotale e regale di Cristo. I due
capitoli, nella mente dei Padri, non erano in discontinuità né in
opposizione. Purtroppo, nell’immediato post-concilio, si è imposta una
lettura alternativa, secondo la quale un’ecclesiologia che si
richiamasse al Popolo di Dio doveva per forza essere antiistituzionale,
anti-gerarchica, profetica, carismatica, in ultima istanza democratica.
La scelta di trasferire il contrasto dentro gli stessi documenti
conciliari ha spinto a guardare con sospetto o sufficienza la proposta
ecclesiologica del Vaticano II. Per uscire dall’impasse,
due sono state le vie esplorate:
a)
l’individuazione di un principio fondante, che interpretasse le ricche
suggestioni ecclesiologiche del Vaticano II. In questa direzione va
l’ecclesiologia di comunione, proposta al Sinodo del 1985. Ma non poteva
bastare una formula convenzionale per sviluppare un’ecclesiologia
condivisa, visto che l’idea di comunione si presta a tali e tante
interpretazioni, da costituire il fondamento e la giustificazione di
visioni di Chiesa diametralmente opposte eppure legittime;
b)
il tentativo di indicare possibili modelli ecclesiologici, o di rilevare
scenari di Chiesa, cioè modi di attuare l’appartenenza alla comunità
ecclesiale che rimanda a una concezione corrispondente di Chiesa. Si
tratta di due metodi di lettura ormai ampiamente praticati in
ecclesiologia. Sul primo versante, l’opera più famosa è senz’altro
quella di Avery Dulles,
Modelli di Chiesa
(1974, 1987, 2002), nella quale il teologo nord-americano inquadra un
vissuto ecclesiale complesso in cinque modelli di Chiesa -
istituzionale, comunionale, sacramentale, kerigmatico e diaconale - a
cui l’autore aggiungerà, negli ultimi suoi scritti, il modello della
comunità dei discepoli. Non si tratta ancora di modi di essere della
Chiesa, ma piuttosto di “visioni”, che dipendono da un principio
fondante attorno al quale si organizza tutto un possibile sistema.
Sull’altro versante, João Batista Libanio, in
Scenari di Chiesa
(2002), ha immaginato in prospettiva quattro possibili modi di essere
Chiesa, individuabili in base al principio dominante che li ispira e che
costituisce anche il loro criterio di organizzazione interna: la
Chiesa dell’istituzione,
la
Chiesa carismatica,
la
Chiesa della predicazione,
la
Chiesa della prassi di liberazione.
Un
nodo da sciogliere
La
seconda via dice con tutta evidenza che non esiste ancora un modello
condiviso di Chiesa, o che non si intravvede a breve uno scenario in
grado di superare la frammentazione del corpo ecclesiale in una miriade
di esperienze spesso autoreferenziali. La questione è di fondamentale
importanza per chi voglia interrogarsi sulla missione della Chiesa, in
particolare sul suo compito di evangelizzare. Sarebbe illusorio
rivendicare all’evangelizzazione processi e leggi proprie, indipendenti
dal vissuto ecclesiale: non solo ogni evangelizzatore è condizionato
dalla sua esperienza, ma ogni modello o scenario ecclesiale configura un
modello diverso di missione.
D’altronde, è del tutto evidente che l’annuncio del Vangelo non è un
momento o un processo a se stante, sia perché l’evangelizzatore è
mandato dalla Chiesa e a quella Chiesa rimanda, e perché ogni
evangelizzazione è in vista di una conversione che aggrega alla Chiesa.
E se l’evangelizzazione è condizione del futuro della Chiesa, la sua
efficacia dipende dalla Chiesa che la esprime. Per questo non basta
concentrarsi sui processi della comunicazione, ma bisogna impegnarsi per
maturare un modello condiviso di Chiesa, che abbia al centro la Parola e
di questa viva, nella luce e nella forza dello Spirito.
Questo è possibile a condizione di un processo di recezione del
Concilio, che purtroppo è lontano dal potersi dire concluso. È la sfida
che Karl Rahner indicava come urgente già quarant’anni fa, parlando
della
Trasformazione strutturale della Chiesa come compito e come chanche
(1973). Tre erano le domande che il grande teologo formulava: A che
punto siamo? Che cosa dobbiamo fare? Come può essere pensata una Chiesa
del futuro? Queste tre domande non solo restano di grande attualità, ma
domandano risposte urgenti, pena il rischio per la Chiesa di diventare
un soggetto irrilevante nella costruzione del futuro dell’uomo; pena il
rischio di far scadere ogni evangelizzazione in proselitismo.
Dario Vitali
Pontificia Università Gregoriana
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