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Le
prime righe della Lettera apostolica
Porta fidei
di Benedetto XVI sono letteralmente disarmanti, nella loro semplicità
evangelica: «La “porta della fede” (cf At 14,27) che introduce alla vita
di comunione con Dio e permette l’ingresso nella sua Chiesa è sempre
aperta per noi». Disarmanti, perché invitano a liberarci dall’armatura
dei nostri pregiudizi che rischia di inchiodarci, esitanti e insicuri,
proprio sulla soglia in cui finito e infinito si toccano. Quella soglia
che la persona umana è l’unico essere al mondo capace di riconoscere e
attraversare.
Sono queste le vere “colonne d’Ercole”, oltre le quali l’umanità può
ritrovare la patria perduta se accetta di staccarsi dal suo vecchio
mondo, rassicurante e insieme invivibile come “l’aiuola che ci fa tanto
feroci” di cui parla Dante (Par.
XXII,151). Non è solo l’Ulisse dantesco a voler varcare questa soglia,
per vivere all’altezza della propria vocazione: “Considerate la vostra
semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e
conoscenza” (Inf.
XXVI, 118-120). Il nostro padre nella fede è Abramo, che può diventare
una benedizione vivente solo a patto di andarsene dalla propria terra,
dalla propria parentela, dalla casa di suo padre e mettersi in viaggio
verso una terra sconosciuta.
Proprio sulla soglia di questa porta ogni essere umano ritrova la
propria vocazione infinita, «quando la Parola di Dio viene annunciata e
il cuore si lascia plasmare dalla grazia che trasforma». È il miracolo
della fede che mette in movimento la nostra storia: «Attraversare quella
porta - è ancora Benedetto XVI - comporta immettersi in un cammino che
dura tutta la vita». In questo cammino, l’uomo non cessa di essere uomo
e nello stesso tempo non è più quello di prima. Un paradosso espresso
efficacemente da papa Benedetto nell’omelia pronunciata nella Veglia
Pasquale del 2006: «Io,
ma non più io:
è questa la formula dell'esistenza cristiana fondata nel Battesimo, la
formula della risurrezione dentro al tempo.
Io, ma non più io:
se viviamo in questo modo, trasformiamo il mondo».
Uomo vecchio e uomo nuovo
Per esprimere questo paradosso, molti Padri della Chiesa - a cominciare
da Agostino - hanno spesso attinto alla metafora paolina dell’uomo
vecchio e dell’uomo nuovo. L’uomo vecchio è portatore di una
creaturalità ferita, che orienta e insieme indebolisce la ricerca del
bene. L’uomo nuovo è il frutto di una nuova nascita, come Gesù si sforza
di far comprendere a Nicodemo. La differenza attesta un incontro che
scaturisce da un dono immeritato e comporta un’adesione - fragile e
sempre reversibile - a un nuovo modo di vivere e di morire, che
trasfigura la vita incorporandoci al Risorto. Tuttavia non promette lo
stravolgimento dell’umano, non cancella la fragilità costitutiva
dell’“uomo vecchio”, non ci fa diventare “superuomini” (che è un altro
modo di essere “disumani”).
Anche il cristiano, quindi, porta dentro di sé un uomo vecchio, ed è
sempre tentato di varcare all’indietro quella soglia, addirittura
rimpiangendo, come il popolo ebraico, persino le cipolle d’Egitto e la
schiavitù passata, quando il cammino si fa impervio e la meta appare
lontana. Il dialogo tra le domande dell’uomo vecchio e le risposte
dell’uomo nuovo identificano lo statuto più proprio dell’umano: quello
di abitare sulla soglia di due mondi e di non potersene ritrarre in modo
indolore. Come ha scritto B. Lonergan: «Essere solo uomo è quanto l'uomo
non può essere».
Interrogarsi sulla fede oggi, in un contesto ritenuto - forse a torto -
di incredulità, significa riflettere sul senso di questa porta aperta:
non una porta che sta davanti a noi, in una zona lontana e periferica
dell’esistere, dove è possibile avventurarsi rinunciando a frequentare
orizzonti di senso più accessibili e promesse più a buon mercato. Inteso
in questo senso estrinseco, quel passaggio potrebbe anche - chissà -
aggiungere qualcosa alla nostra vita, ma ignorarlo certamente non le
toglierebbe nulla, perché si possono pur sempre immaginare tanti altri
passaggi, più o meno simili. Non è così: qui stiamo parlando di una
porta speciale, che non è davanti a noi, perché è la
porta che noi stessi
siamo.
Può essere chiamata via della fede per chi l’attraversa, ma anche via
dell’infinito per chi la riguarda solo dal lato di una finitezza aperta.
Grandezza della fede e miseria delle idolatrie
Come si guarda (o non si guarda) oggi a quest’apertura infinita del
nostro cuore? Non vorrei abusare del luogo comune - peraltro
giustificabile, se ben motivato - che pone il nostro tempo sotto il
segno dell’incredulità. Non solo perché viviamo in un’epoca chiamata “postsecolare”,
in quanto segnata da un ritorno del religioso sulla scena pubblica, che
coincide con un indebolimento delle utopie e delle ideologie che avevano
secolarizzato, nella modernità, l’escatologia cristiana. Questo
fenomeno, di per sé complesso e meritevole di attenzione, non equivale
però a una rinascita quasi automatica della fede; anzi, a volte, sembra
imporsi proprio a scapito della fede, sia nella forma troppo “forte” di
una rivalsa fondamentalista, sia nella forma troppo “debole” di una
religione civile, chiamata a supplire alla crisi d’identità della
politica.
È in un altro senso che vorrei ridimensionare lo stereotipo
dell’incredulità. In modo quasi provocatorio, si potrebbe addirittura
capovolgere quest’affermazione, arrivando ad affermare che è proprio un
eccesso di credulità il vero nemico della fede autentica. La credulità è
la banalizzazione della fede, che s’illude di surrogare la rinuncia a
sporgersi sull’infinito dipingendo tante porte finte sulla superficie
esteriore della vita, da spostare di qualche centimetro, ogni volta che
tocchiamo con mano l’inganno; porte che lasciano intravedere scenari
inesistenti, frutto di banali illusioni ottiche (in francese si
parlerebbe di
trompe
l'oeil).
Ieri attraversare la porta della fede poteva essere temuto come una
sorta di fuga dalla vita, generando reazioni di rifiuto, spesso ostili
ed esibite. Si avvertiva, in modo più o meno consapevole, che quel passo
esigeva un prezzo troppo alto: una scelta per la vita, dalla quale non
si poteva tornare indietro a cuor leggero. Oggi, al contrario, questo
attraversamento può apparire addirittura troppo facile. La porta della
fede è diventata una porta come un’altra, che si può demolire e
ricostruire, anzi cancellare e ridisegnare a piacimento. Stiamo
diventando indifferenti alle differenze.
Rispetto all’uomo moderno, che ha combattuto battaglie aspre e
sanguinose in nome di ideologie, visioni del mondo, progetti politici
ritenuti irrinunciabili nella loro diversità quasi salvifica, l’uomo
postmoderno assume un atteggiamento più disincantato e ambivalente. Le
differenze ci fanno paura, ci mettono a disagio; per questo cerchiamo di
ridimensionarle, relativizzarle, sfumarle. Non solo le differenze
storiche, ma anche quelle culturali e persino naturali: sfuma la
differenza fra vero e falso, fra buono e cattivo, fra bello e brutto,
fra maschile e femminile, fra uomo e animale, fra finito e infinito…
La vita diventa insapore, e incolore. Per questo, si può cercare di
aprire tante piccole porte, diventare senza troppi scrupoli abitanti a
tempo determinato di tante tribù: opportunisti nel lavoro fino al
cinismo, spensierati nel tempo libero fino all’incoscienza, generosi nel
volontariato fino all’altruismo. Intransigenti nell’etica pubblica e
incensurabili nell’etica privata. Freddi calcolatori nell’uso dei più
sofisticati strumenti tecnologici e creduloni superstiziosi nel ricorso
a maghi ed astrologi. Persino il bisogno religioso può essere appagato
da un’appartenenza puramente esteriore a tribù simboliche senza verità e
senza dogmi, dove si adora a occhi chiusi il mondo dello sport, dello
spettacolo, della finanza, della politica, ricreando al loro interno
chiese, riti, tempi liturgici, culto dei santi…
In ogni distorsione idolatrica ricorre una medesima sproporzione fra lo
squallore insulso di una consacrazione salvifica del finito e il suo
diabolico potenziale autodistruttivo. Perché la nostalgia d’infinito -
lo ripeto - costituisce la nostra identità più vera e più profonda.
Ostentare indifferenza nei confronti della porta della fede significa
umiliare le domande dell’uomo vecchio e cercare invano di sterilizzare
la differenza infinita che noi siamo a noi stessi. Questa rinuncia non è
come un’altra, è infinitamente più grande. Non è come rinunciare, per
una sera, a uscire di casa: è rinunciare, per sempre, a entrare a casa
nostra e illudersi che si possa vivere bene da stranieri bussando a una
sfilza interminabile di porte chiuse.
Luigi Alici
Università degli Studi di Macerata
Via Garibaldi, 20 – 62100 Macerata
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