«La
stessa professione della fede è un atto personale ed insieme
comunitario. È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella
fede della comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace
dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come
attesta il
Catechismo della Chiesa Cattolica:
«‘Io credo’ è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni
credente, soprattutto al momento del Battesimo. ‘Noi crediamo’ è la fede
della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più
generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. ‘Io credo’: è anche
la Chiesa nostra Madre che risponde a Dio con la sua fede e che ci
insegna a dire ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’» (n. 167)».1
Se c’è una religione nella quale credere da soli e credere insieme vanno
di pari passo e non si possono contrapporre, questa è certamente il
cristianesimo; esistono infatti diversi motivi fondanti la correlazione
tra dimensione personale e comunitaria della fede. Ne ricordo tre, che
sono alla base dell’ecclesiologia.
L’impronta della Trinità della “persona”
Con la nozione di “persona”, radicata nei racconti biblici della
creazione, il cristianesimo ha intrecciato nella concezione dell’“essere
umano” due idee diverse: l’idea di “individuo” e quella di “relazione”.
La persona è l’essere umano dotato individualmente delle caratteristiche
proprie della specie umana, almeno in senso potenziale, ossia
l’intelletto e la libera volontà; ma è nello stesso tempo l’essere umano
in relazione, poiché nella concezione biblica l’uomo non è fatto per
restare solo, ma per costituire una coppia («maschio e femmina li creò»:
Gen 1,27) e per dare vita ad una società («siate fecondi e
moltiplicatevi »: Gen 1,22). Gli uomini sono creati a immagine e
somiglianza di Dio (cf Gen 1,26-27) che non è un essere solitario, ma
comunione di Persone: per questo sono intimamente spinti alla relazione,
ad uscire da loro stessi e a raccogliersi in “comunione”. Se Dio fosse
una persona sola, allora anche gli uomini, fatti a sua immagine, si
realizzerebbero restando chiusi in se stessi; ma se Dio è Trinità di
persone, allora gli uomini si realizzano in proporzione all’autenticità
delle loro relazioni.
La nozione di “persona” comprende quindi due dimensioni inscindibili,
che rischiano però di procedere spesso parallele o addirittura in
contrasto: quella individuale e quella sociale. Come scrive un
economista contemporaneo: «È proprio grazie alla nozione di persona che
la cultura europea è riuscita a realizzare l’incontro tra individuo e
società, categorie, queste, che di per sé sono conflittuali ».2
Per il cristianesimo quindi l’uomo è un
individuo sociale,
proteso fuori di se stesso: verso
Dio,
in una relazione religiosa che lo rende “inquieto” fino a quando non
riposa in lui;3 verso i
propri simili,
stringendo legami che vanno dalla sessualità alla politica, passando
attraverso le relazioni di famiglia, amicizia, collaborazione; verso la
natura,
della quale egli stesso è intessuto e per mezzo della quale egli vive,
lavora, cresce; anche la relazione dell’uomo con se stesso è spinta ad
uscire da sé, poiché l’uomo è l’unica creatura che possa porsi di fronte
a
se stesso
come un soggetto di fronte a un oggetto: è il dono dell’autocoscienza.
In queste quattro relazioni creaturali dell’essere umano -
religiosa,sociale, cosmica ed esistenziale- si può vedere un “germe
ecclesiale”:Dio ha voluto l’uomo non come un’isola, ma come un essere
teso alla relazione, portato a stringere rapporti e ad aprirsi agli
altri e a lui stesso. “Adamo” ed “Eva” sono
individui,
ma essenzialmente
aperti
alla comunione con Dio e con i loro simili, alla relazione con la natura
e con loro stessi. In fondo è questa la prima forma di
alleanza
di Dio con l’uomo: alleanza sigillata nell’atto stesso di creare l’uomo
come essere in cerca di relazione, capace di comunione.4
Quella concentrata in Adamo è ancora un’ecclesiologia nascosta ed
implicita: quasi un seme deposto, che avrebbe fruttificato solo
gradualmente passando attraverso le successive fasi della storia
salvifica.
La chiamata dei Dodici
Per quale motivo Gesù non si dedica da solo alla predicazione del Regno
di Dio, ma vuole dall’inizio circondarsi di dodici collaboratori? La
ragione è evidente: Gesù dà corpo allo stile del Dio dei Patriarchi, che
è suo Padre, al quale «piacque chiamare gli uomini a questa
partecipazione della sua stessa vita non tanto in modo individuale e
quasi senza alcun legame gli uni con gli altri, ma di riunirli in un
popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero nell’unità».5
Gesù intende a sua volta radunare il popolo eletto, le “dodici tribù”
d’Israele, volendo portare a compimento il progetto avviato nell’Antico
Testamento, ma interrotto a causa dell’infedeltà verso Dio, che comportò
la rottura dell’unità nazionale subito dopo il regno di Salomone. Gesù,
raccogliendo i Dodici, esprime la volontà messianica di instaurare
l’Israele degli ultimi tempi, che doveva inaugurare il Regno di Dio.6
Gesù, del resto, non poteva non avvalersi di una “comunità” per la
predicazione del Regno, se è vero che stabilì il perno della sua
predicazione nella
legge dell’amore
(cf Mt 22,34-40 par.). Se il Regno annunciato da Gesù vive della logica
dell’amore, è chiaro che progredirà attraverso relazioni interpersonali,
ossia attraverso una forma comunitaria. La crescita del Regno nel puro
ambito della coscienza individuale non avrebbe creato quei rapporti
interpersonali che la legge della carità esige: se ciò che viene accolto
nella coscienza deve rispondere alle esigenze della carità, necessita di
traduzioni in gesti e parole, incontri e relazioni. Trova qui la sua
basilare ragion d’essere la Chiesa, che «esiste per la comunicazione
dell’annuncio del Regno con la parola e per porsi nella storia come un
segno vivente del Regno, attraverso la sua vita comunitaria dominata dal
Signore Gesù ed attraverso il servizio di carità che in nome del Regno
essa rende al mondo».7 I Dodici rimangono “individui” - e
infatti Gesù li lascia liberi di aderire o meno alla sua sequela - ma
sono inseriti vitalmente in quella “comunità” che è la preformazione
della Chiesa, inaugurata nel mistero pasquale.
Sacramenti, Parola, Carità: segni costitutivi della Chiesa
La Pasqua di Gesù, mistero di morte, risurrezione e dono dello Spirito,
si trasmette alla Chiesa non nella forma di semplice “ricordo” di un
avvenimento passato, ma nella forma di “memoriale”, ossia di un
avvenimento che si rende continuamente presente attraverso dei segni.
Sono la Parola, i Sacramenti e la Carità i tre grandi segni, consegnati
da Gesù agli apostoli, attorno ai quali si intesse quella rete di
relazioni che si chiama “Chiesa”. Gesù ha dato agli apostoli i compiti
di annunciare e testimoniare a tutte le genti il Vangelo (cf Mt 28,19;
Mc 16,15; At 1,8), celebrare la cena eucaristica (cf Mt 26,26-29 e par.;
1Cor 11,23-26), battezzare (cf Mt 28,19), perdonare i peccati (cf Mt
16,19; 18,18; Gv 20,22-23), insegnare i suoi comandamenti (cf Mt 28,20)
che si riassumono nel servizio (cf Gv 13,14-15) e nella carità
vicendevole (cf Gv 13,34-35).
L’annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti e la
testimonianza della carità esigono un intreccio di relazioni; attorno a
questi tre segni si crea quell’attività e quella vita che costituiscono
la natura stessa della Chiesa. Essa esiste per ricevere e comunicare la
“vita buona” del Vangelo, per accogliere e donare la grazia di Dio nei
sacramenti e per instaurare nel mondo lo stile della carità. Ecco perché
la “fede”, che comprende tutte queste dimensioni, è atto personale e
comunitario assieme:
personale,
in quanto richiede il libero assenso dell’intelligenza e della volontà e
non può essere un atto forzato, istintivo o irrazionale, altrimenti non
sarebbe “umano”;
comunitario,
in quanto richiede il coinvolgimento di altri, crea dei “legami”:
l’annuncio del Vangelo richiede almeno un predicatore e un ascoltatore,
i sacramenti almeno un ministro e un beneficiario, la carità almeno due
persone che si pongono in relazione tra di loro nello stile di Dio, che
“è amore” (1Gv 4,8.16). Per questo Gesù ha detto: «dove sono due o tre
riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e l’apostolo
Giovanni ha potuto esprimere alla prima persona plurale, in modo
mirabile, la dinamica ecclesiale della trasmissione della fede: «Quello
che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche
voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3).
1 BENEDETTO XVI, Lettera
apostolica Porta fidei,
11 ottobre 2011, n. 10.
2 S. ZAMAGNI, «A proposito
delle radici dell’identità europea. Una prospettiva economica di
sguardo», in A. OLMI (ed.),
L’eredità dell’Occidente. Cristianesimo, Europa, Nuovi mondi,
Nerbini, Loreto 2010, 99.
3 Cf S. AGOSTINO,
Confessioni,
I,1,1.
4 CF G. BARBAGLIO-G. COLOMBO,
«Creazione», in G. BARBAGLIO e S. DIANICH (edd.),
Nuovo Dizionario di Teologia,
Paoline, Roma 1977, 188-189.
5 CONCILIO VATICANO II,
Ad Gentes,
n. 2.
6 Cf J. HOFFMANN, «La Chiesa
e la sua origine», in M. FALCHETTI (ed.),
Iniziazione alla pratica della teologia,
III, Dogmatica II,
Queriniana, Brescia 1986, 55-146.
7 S. DIANICH,
La Chiesa mistero di comunione,
Marietti, Torino 1987, 30.
Erio Castellucci
Facoltà Teologica dell’Emilia
Romagna
erio.castellucci@email.it
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