Non
è possibile cercare di comprendere l’affermazione di Paolo così solenne,
vitale ed essenziale, senza leggerla all’interno del contesto più ampio
in cui egli l’ha scritta, l’ha pronunciata per noi, nella persona di
Timoteo, suo amato figlio. Perciò diventa importante prendere contatto,
un contatto profondo e intimo, con tutto il primo capitolo della seconda
lettera a Timoteo, in particolare fino al v. 14.
Facendo questo, ci accorgeremo di venire accompagnati in un cammino di
gestazione, di rinascita, un percorso attraverso la notte, che ci
conduce al nuovo giorno (cf Gv 3,1ss).
Il grembo è pronto, già aperto per noi; acque di accoglienza zampillano
e scorrono piano (cf Is 8,6): matrice sostanziosa per la sete e la fame
del cuore. Non ci resta che entrare, prender posto nella casa
dell’amore, per stare ancora ad ascoltare il canto di salvezza, che il
Padre intona per noi, uno ad uno chiamati per nome, riconosciuti fra
mille (cf Ct 5,10): «Unica è la mia diletta, la preferita di colei che
l’ha generata» (Ct 6,9). Ognuno, ognuna di noi, la creatura preferita,
l’amata. Forse l’abbiamo già da lungo tempo dimenticato, tanto che ora
ci è impossibile crederlo ancora: lineamenti di bellezza sbiaditi,
cancellati. Ci guardiamo dentro e troviamo la polvere delle solitudini,
dei vuoti, dei silenzi; non c’è più né padre, né madre. Forse non c’è
più nemmeno Lui, l’Amore, che un tempo ci ha sedotte e prese con sé.
Eppure ancora qualcuno grida, voce di tutti, fede di tutti: “Io so, io
conosco Colui al quale ho creduto!”. Possiamo raccogliere queste parole
di Paolo, chinarci fino al profondo del cuore, senza paura del buio. È
la notte del parto, del primo vagito alla vita. Ci sentiremo raccolti,
sollevati, in un abbraccio di madre… Questa è la fede, infatti: presenza
di Dio con volto e corpo di donna, con parole e carezze a desinenza
femminile.
«A Timoteo, figlio carissimo…» (2Tim 1,2)
Così inizia il canto dell’amore; appena un respiro, o un bacio, deposto
con immensa dolcezza sulle righe dei nostri giorni, di tutta la nostra
storia. Chiamati per nome, possiamo finalmente iniziare a riconoscere
ciò che veramente noi siamo, ancor oggi, in questo mondo: Timoteo è
colui che “onora, che ama, che dà gloria a Dio”, secondo i diversi
sinonimi del verbo
timào,
che compone il suo nome. Partorito per amore, Timoteo porta con sé il
peso della gloria di Dio, deposito e pegno di grazia, che
incessantemente egli consegna ad ogni fratello e sorella che, come lui,
si mette in cammino, in corsa, sulle vie del santo Evangelo.
Ma qual è, in verità, questo peso glorioso, luminoso?
Kavòd,
dice la Sacra Scrittura, scrivendo i segni dell’amore più tenace, più
vero: appena tre radicali -
kaf,
bet
e
dalet
- lettere traboccanti di vita divina, che possono essere lette come la
mano, il palmo aperto ad accogliere separazione, cioè intimità di un
amore personale, segreto, vissuto nell’intimo, nel profondo del cuore.
Questo, sì, è il nostro peso, eppure la nostra unica gloria. Solo così,
infatti, possiamo veramente scoprire chi siamo, tornare a seguire le
tracce del nostro percorso di vita: la partenza, il principio e la meta.
Paolo ci aiuta, ci prende per mano e ci racconta di noi: «La tua nonna
Loide, tua madre Eunice…» (2Tm 1,5). Ci accompagna a ritroso, lungo i
sentieri del nostro passato, ci fa tornare bambini, a casa solo sul
petto, fra le braccia di nostra madre. Non fuggiamo di qui, perché ci
sentiamo ormai grandi, non più bisognosi; non vergogniamoci, come dice
anche Paolo (2Tm 1,8.12).
«Amen, io vi dico…»
Del resto la prima parola della fede, quella più semplice, quasi
monosillabo di chi ancora non sa parlare, dichiara proprio così: chi
crede è come un bambino, stretto, sollevato fra le braccia di sua madre.
“Amen” significa questo: radice del verbo sollevare, sostenere,
architettura di un amore infallibile, grazie al quale è impossibile
cadere per sempre. Dalle colonne, dagli stipiti del tempio (2Re 18,16)
alle braccia del padre o della madre, il passo è breve, la forza non
muta; bellissima la Parola di Dio, che ci annuncia l’infinita dolcezza
della cura che Egli ha per noi, figli suoi! Il vocabolario del cielo non
ha trovato parola più luminosa, più forte, per dirci quanto Egli ci ami:
«Amen, io vi dico…».
Forse può esserci utile, a questo punto, raccogliere alcune immagini
dalla Sacra Scrittura, scorci di vita, anticipo di gioia, preparata
anche per noi.
Era orfana di padre e di madre, Ester; per questo Mardocheo l’aveva
allevata come una figlia (Est 2,7). Quando Rut partorì, sui campi di
Betlem, Casa del pane, Noemi prese il bambino, se lo pose in grembo e
gli fece da nutrice (Rut 4,16). Ancora un figlio era rimasto a Gionata,
tenuto nascosto dalla nutrice; fu lei a sottrarlo ai nemici del re,
stringendolo al seno per fuggire lontano (2Sam 4,4).
Davvero tutto questo compie ancora per noi la fede, come dice il profeta
Isaia: «Le tue figlie sono portate in braccio … sulle spalle i tuoi
figli» (Is 49,22; 60,4).
Però c’è ancora una cosa importante, un riflesso, un’eco preziosa
dell’Amen, respiro vitale di chi entra in contatto con Dio. La radice
del verbo, infatti, nella forma causativa non esprime più sostegno e
cura e custodia, ma diventa dichiarazione di amore già ricevuto, grido
di gioia di chi si sente sicuro, ed è certo e per questo può dire,
finalmente, con le labbra e col cuore: «Sì, io credo!».
Non per averne sentito parlare, né perché così è scritto nei libri o
nelle pagine sante della Parola di Dio.
Credere dopo la notte
Mentre parla con Timoteo, Paolo segna la strada anche a noi, punto per
punto, passo dopo passo: è la strada del cuore, dell’incontro, della
relazione. La fede è fatta così: umanissima esperienza divina dentro di
noi. Più leggiamo le righe scritte da Paolo all’amico, al figlio, al
compagno, più il nostro cuore viene spogliato, dischiuso dalla dolcezza
dei sentimenti più veri, più quotidiani. Li troviamo descritti lì, sulla
carta del libro, ma nello stesso momento li riconosciamo parte di noi.
Senza paura dovremmo seguire la pista tracciata: il ricordo (2Tm
1,3.4.5), le lacrime, la nostalgia (v. 4), la preghiera (v. 3). Che cosa
sono, questi, se non i segni più chiari, più forti, dell’amore?
Dovremmo fermarci a gustare la bellezza di questo spettacolo,
contemplazione della vita di ogni uomo e ogni donna che viene in questo
mondo. E davvero, senza ombra di paura o di dubbio, ma con la certezza
di chi sa, e crede e perciò non vacilla, dovremmo avere il coraggio di
scendere ancora più a fondo, nel punto dell’anima nostra, dove sta
scritto, anche per noi che, sì, c’è dolore, ci sono lacrime, nostalgia,
ricordi, che forse bruciano ancora.
Dal carcere (1Tm 1,8), da oltre le sbarre, più in alto di qualsiasi
chiusura, Paolo ci guida laggiù. Perché è qui, solo qui, nella verità
più quotidiana, più umana di noi, che ci è dato di poter fare
esperienza, di conoscere, in questo mondo, che cosa significa aver fede,
credere ancora, dopo la notte.
«Ecco lo sposo! Andategli incontro!» (Mt 25,6)
«Custodisci il bene prezioso che ti è affidato» (2Tm 1,12), dice infine
il padre a suo figlio, il maestro al discepolo, l’amico all’amico.
Due volte (vv. 12 e 14) ritorna, nel brano, questa espressione, eco
raddoppiata dell’invito già espresso nella sua prima lettera: «O
Timoteo, custodisci ciò che ti è stato affidato!» (1Tim 6,20). C’è un
pegno, consegnato da Dio alla povera banca della nostra esistenza, forse
un talento, oppure anche dieci: è il gratuito, libero dono d’amore del
Padre, che si fida di noi, stringe alleanza, promette presenza fedele,
il suo sì di ogni giorno. Il primo a viver di fede è lui, il Signore del
mondo!
Così, nella sua pedagogia tanto sapiente, Paolo, il nostro gran rabbi (cf
At 22,3) di misericordia e di grazia, ci ha condotti alla meta, al luogo
segreto dell’appuntamento con Dio, dentro di noi. La figliolanza, la
storia che abbiamo vissuto, riletta a ritroso, poi i sentimenti, le
esperienze del cuore, le lacrime, la nostalgia, il dolore. E ora … il
dono, la perla preziosa, la vocazione: Paolo la chiama il bene prezioso
affidato. Vocabolo traboccante, tanto ricco da rompere gli argini di un
semplice, unico significato, eppure, allo stesso tempo, forza di
attrazione verso l’interno, nell’intimità più segreta, più cara e
inviolabile. “Ciò che è affidato”, alla lettera: “ciò che è posto
accanto o di fronte” -
paratithemi,
in greco, che rimanda al sostantivo “fodero” o “guaina”, come quella che
trattiene la spada (Gv 18,11), portata sul fianco, “contro il terrore
della notte”; così si legge nel Cantico (Ct 3,8).
E qui dovevamo arrivare, col cuore, con tutta la vita; al luogo fissato
per l’appuntamento, l’incontro. Gesù, lo Sposo e l’Amico, è già pronto;
già è sceso nel suo giardino (cf Ct 6,2.11; Gv 18,1) per celebrare le
nozze, lui, il Figlio del Re. Questo è il momento solenne, di festa o di
pianto. Tutti qui siamo attesi: con Gesù sono i discepoli e anche Giuda,
il traditore (Gv 18,2) e Pietro… A mezzanotte, ecco un grido: «Ecco lo
sposo! Andategli incontro!» (Mt 25,6). Dobbiamo solo rispondere, dire sì
o dire no. «Non conosco quest’uomo di cui parlate!» (Mc 14,71), oppure:
«Amen, io lo conosco! So in chi ho posto la mia fede» (2Tim 1,12).
Maria Anastasia di Gerusalemme ocarm
Monastero S. Stefano
Via Guaccimanni, 44 - 48121 Ravenna