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"Stare
con Gesù" per ridestarsi alla missione
Nel
numero precedente di Consacrazione
e Servizio concludevo dicendo che è giunto il tempo di
riqualificarsi nella fede. Ma quale fede? Non certamente una fede
generica, bensì la fides catholica quale, in modo sorprendente e gratuito, si riconosce
in Gesù Cristo e in Lui delinea tutto il suo volto: l’abbandono al
Padre cui diventa dolce obbedire. Non una fede che soggettivizza se
stessa fino a sfigurarsi in una dimensione semplicemente umana. La
radicalità della fede in Cristo, per sua natura, è realtà che prende
forma, cioè occupa lo spazio stesso della persona, diventa il proprium
personale. In questo senso la fede sfocia nella sequela, nella forma
radicale del seguire Cristo Gesù. Essa non si comprende semplicemente
nel far propri alcuni atteggiamenti o nell’imitare lo stile di vita di
Gesù, nell’accogliere i valori da Lui proposti, nell’aderire alle
verità che Egli ha insegnato. Tutto intero l’esistere personale viene
coinvolto. Appropriarsi della cattolicità
del cammino della fede,
significa diventare discepoli di Cristo, significa portare l’esistere
personale nel mistero di Cristo che per lo Spirito, in rationabile
obsequium al Padre, si è
impegnato per l’uomo: ogni uomo e tutto l’uomo. Significa vivere
l’esperienza che Paolo racconta in Galati
1,15-16:
«Colui che mi ha scelto fin dal seno di mia madre e mi ha chiamato con la
sua grazia si compiacque di rivelare in me suo Figlio perché lo
annunziassi in mezzo ai pagani».
Il
Padre Dio rivela suo Figlio nel cuore del discepolo perché egli lo
annunci al mondo. La missione sta al cuore della sequela, si concretizza
nella stessa persona del discepolo. Si può dire che è ratio
costitutiva del suo essere
come lo è stato per Paolo1.
La missione è un punto decisivo e irrinunciabile della sequela. Il
discepolo vive di questa forza senza mai esaurirla; la missione, per il
discepolo, appartiene al rapporto stesso con il suo Signore e Maestro.
Per cui occorre superare la tendenza a separare lo stare con Gesù da
una parte e il servizio, la missione dall’altra. Lo stare con Gesù, essere
dei suoi, non lo si può isolare a un fatto personale e la missione,
il servizio di carità, considerarlo un fatto irriducibile, esteriore ad
esso. Lo stare con Gesù è nell’orizzonte della missione in sinu
ecclesiae e la missione, con immediatezza e totalità, ha il suo
punto di partenza nello stare con Gesù. Essa è comunione teologale e
quindi comunione di fede, di speranza e di sapienza spirituale. Ha il
suo punto di attrazione nel Crocifisso (Gv 8,28 e 12,32).
…e
patire l’amore
La
missione ha bisogno dell’intimità con il Signore Gesù. Essa ha una
sua intrinseca dimensione contemplativa. Essa – infatti – è radicata nel profondo del
mistero di Dio, scaturisce dal silenzio pieno dell’Ineffabile, dalla
comunione con Colui del quale non si dice più perché solo si ama, non
si cerca ma si contempla. E’ là che si comprende il valore simbolico
(non allegorico) dell’amore come esperienza religiosa suprema,
fulgidamente attestata dal Cantico: «Il
mio amato è mio e io sono sua»
(2,16). E’ là che «si rimane
in Dio e Dio in noi» in
una intimità tale per cui è «Cristo
che vive in me»
e «Dio è tutto in tutti».
E’ là che la passio charitatis, l’amore folle del Crocifisso diviene radice e
principio di salvezza. E’ là che l’attrazione per il Maestro, la
devozione piena a Gesù passa dal «sentito
dire al vedere con i propri occhi»
(Gb 42,5-6). La contemplazione del Maestro non è per il discepolo un
fatto emozionale, ma un evento d’amore che trasforma il discepolo. La
contemplazione del Verbo di vita trasforma la vita del discepolo, ha una
forte incidenza sull’essere del discepolo, ne determina l’itinerario
ed è identificazione non arbitraria per la missione sempre più
conforme a quella dell’Inviato dal Padre, del Verbo che
«ha
risuonato nel mondo e la carne lo ha accolto prestando la prima
obbedienza e offrendo la prima riposta»2.
Lo
smarrimento del nostro tempo non è dunque realtà da cui fuggire o alla
quale negarci, ma banco di prova di una fede davvero autentica e umana.
Un cammino nel quale procedere con Cristo, che assume
tutta la realtà umana, che guarda le folle e ne sente compassione, che
prega per coloro che il Padre gli ha affidato.
Mediante
la preghiera ciò che
«io
posso o non posso fare non si misura più su me stesso e sulle mie forze
ma su Cristo e sulla sua chiamata. Allora nascono i segni del Regno»3.
Questa
esperienza religiosa è incontro mistico aperto a tutti, non appannaggio
di alcuni privilegiati; è incontro che sbocca nell’eterno4.
Il discepolo che qui e ora ha fatto esperienza della comunione con il
divino sa che nulla lo potrà separare dall’amore del suo Dio. Dio è
in lui e lui è in Dio e su questa base Gesù Cristo viene riscoperto
quale solida roccia su cui il discepolo costruisce la propria vita. In
forma tale che la fede in Lui viene a integrarsi nella persona fino a
strutturare il suo stesso personale essere. Ciò significa che discepoli
si diventa quando si è in grado di dare risposta vitale alla
fondamentale questione posta da Cristo a Pietro a Cesarea di Filippi e
in lui a ognuno che voglia dirsi suo discepolo: «Mi ami tu?». Allora seguire Gesù è impossibile senza vivere Gesù, senza
vivere il Figlio. La fede nel Figlio di Dio non potrà mai essere
dimensione marginale dell’esistenza; essa ha bisogno di inverarsi
nell’esistere quotidiano, nell’esistere storico dei discepoli di «coloro che hanno zelo di piacere a Dio»5,
che cercano Gesù per Gesù, che si propongono cioè di vivere in modo
coerente e radicale il loro battesimo. Non si scappa dall’evidenza che
per comprendere il discepolo occorre partire dal Maestro. Il centro da
cui partire è il Maestro. Per comprendere l’uomo occorre ricorrere a
Dio6.
Il segreto dell’uomo non è chiuso nell’uomo stesso: non è l’uomo
fondamento a se stesso. Per balbettare qualcosa sul discepolo occorre
sostare presso il Maestro. Il fondamento radicale del discepolo va
cercato nella densità divina della grazia, del dono di Cristo. Non
consiste nel dare considerazione alle risorse umane o spirituali. Non
nasce da criteri ideologici, nasce dal cuore di Dio, dalla vita di
Cristo.
Nel vortice
della santità di Dio…
Per
approdare alla radicalità evangelica, occorre entrare nel cammino della
santità di Dio. L’esigenza profonda della santità di Dio, della vita
divina in noi connota la missione come offerta di sé, disponibilità
all’altro ed è espressione della profondità del proprio essere in
Cristo, cioè della propria fede. Soltanto se si assume la santità di
Dio come motore della missione si può rinnovare la missione secondo le
esigenze immutabili della fede e il primato della carità proclamato
alto nel Vangelo (Mt 25,31-46). La missione non è qualcosa di
periferico alla vita del discepolo, ma qualcosa che sta al suo centro.
Essa manifesta ciò che concretamente si pensa di Dio. Essa misura la
correttezza della fede in Cristo. Per porsi sul cammino della radicalità
evangelica occorre dare risposta alla questione posta da Gesù al
giovane che aveva molte ricchezze:
“Vuoi
essere perfetto?” ossia “vuoi diventare santo?”, “vuoi seguirmi
davvero?” «Sii perfetto come è perfetto il Padre tuo che è nel
cielo» (Mt 5,48).
Occorre
seguire l’itinerario dell’Inviato dal Padre, del Servo Crocifisso
che ha preso su di sé la fatica di essere uomo che ha
sentito compassione per le folle (Mt 9,36), ha avvertito un fuoco
interiore che lo spingeva a donarsi, si è mescolato ai peccatori fino a
essere accusato di complicità, ha pianto del pianto di una madre,
vedova, che accompagnava alla tomba l’unico figlio, s’è indignato
per l’ipocrisia dei capi religiosi, per l’astuzia dei politici, ha
preso per mano i rifiuti della società in un gesto di compassione e di
vibrante umanità, ha imparato l’obbedienza dal soffrire e il soffrire
gli venne dal suo appassionarsi agli uomini, dal suo lottare per loro.
«La
croce non è una sadica invenzione del Padre, è l’incontro
dell’amore con l’incredibile durezza del male e del peccato»7.
Non
basta un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento
per i mali di tante persone vicine e lontane (SrS 38). L’itinerario di
Gesù, il missionario del Padre implica una precisa, costante e ferma
decisione a impegnarsi per il bene dell’altro. Esso non è staccato
dalla coscienza della responsabilità che ognuno ha nei confronti di
tutti. Proprio su questo aspetto il discepolo è chiamato maggiormente
ad agire, a lottare contro la cultura della distrazione,
dell’indifferenza, smascherando tutti gli atteggiamenti di falsa
prossimità che credono di giustificarsi dietro un passivo e sterile
sentimento di compassione nei confronti degli altri. L’essere
discepoli in senso evangelico diviene impegno per l’altro, perdersi
a favore dell’altro, riconoscere in ogni altro il fratello che ci è
stato affidato. Un dinamismo di responsabilità che apre alla reciprocità
di ognuno nei confronti di tutti.
Alla luce della
fede in Cristo la responsabilità reciproca degli uni verso gli altri
sollecita a vedere l’altro come un aiuto datoci e da rendere partecipe
al banchetto della vita a cui tutti gli uomini sono invitati da Dio.
Essa riveste la dimensione della gratuità totale, della bontà e della
misericordia vincendo la logica della violenza, del conflitto, della
divisione e vivendo l’assunzione delle sofferenze e delle angosce
degli uomini del nostro tempo. Essere discepoli significa ritrovare
anzitutto in sé le ragioni della communio
per irradiare la vita in Cristo. Esattamente la comunione è la
vocazione più profonda dell’umanità e dunque il traguardo della
missione la cui forza costitutiva è la misericordia (DiM 6) che della
pietà divina è il volto. Comprenderla significa penetrare nel mistero
della croce, farsi coinvolgere dal miracolo di questo amore che prevale
sul male e sulla morte, perché al di sopra di tutto vi è la fedeltà
di Dio alla sua promessa, a se stesso.
La
comunione, ossia questa crescente unificazione dell’umanità, incide
sulla missione. Essa è sogno che viene da lontano, porta con sé le
vibrazioni del mistero trascendente, assume l’amore del Padre «che ha
tanto amato il mondo» e dialoga con le aspirazioni più profonde dei
popoli. In tal modo la missione diventa espressione suprema della carità,
consapevolezza di essere chiamata ad ascoltare culture, religioni,
espressioni della sapienza di tutti i popoli disseminati lungo la storia
dell’umanità, anche il cammino silenzioso e nascosto dei popoli
“minori”.
…in
ascolto della storia
L’universo
dei popoli che è abitato da molti volti e da molte voci e tutte con
uguale diritto di ascolto e di espressione8,
ha provocato la missione a riflessioni concrete, in una storia dove non
solo si è chiamati a parlare di Dio, a dire il mistero, ma ad
ascoltare, a contemplare Dio da altri raccontato, saperlo riconoscere
commensale al banchetto delle culture e delle religioni. E l’ascolto
di Dio è difficile sempre perché Egli «passeggia nel fondo degli abissi» (Gb 38,1) e nessuna sapienza lo
può conquistare, ma solo cercare, adorare e accogliere. Non si è mandati
come maestri, ma come discepoli bisognosi di imparare a leggere la
storia e il mistero9.
La
storia! Ossia il passato e il presente che solca la carne del mondo e
rivela la visita di Dio. L’ascolto fa consapevoli di una metodologia
della missione nella quale la teologia è chiamata a compiere la
diaconia di testimone fedele di ciò che ha visto, udito e contemplato.
In tal modo la storia diviene la realtà in cui il dogma si svela, si
trasforma in esperienza viva della fede, in stile di vita che prepara il
futuro dell’umanità. L’ascolto di Dio corregge sistemi ideologici
di conquista che hanno troppo segnato la missione di sangue e allarga la
geografia oltre le spartizioni dettate dall’economia mondiale.
L’ascolto è l’ethos
alternativo a quello che i grandi processi storico-economici hanno
generato, è l’economia di recupero della Parola rivelata e disseminata nella
sofferenza delle genti. L’ascolto è l’atteggiamento di Dio, il
Santo che
«ode
il grido» (Es 3,7), «ascolta la
preghiera» (Sal 6,10), «conta i
passi del vagare umano» e «raccoglie nell’otre suo le lacrime» (Sal
40,3; 56,9).
…seduti
al pozzo dei popoli
La
missione deve entrare nel dialogo dei popoli con Dio. L’annuncio non
può essere separato dai suoi destinatari. E dunque non si può
disgiungere l’annuncio di Dio dalla condizione in cui i popoli lo
pensano e lo cercano. L’annuncio non può subire passivamente la
storia, ignorare la cultura quasi sempre determinata da chi detiene il
potere economico oltre che politico. Deve interpretare la storia e
provocare la cultura, farne luogo in cui la verità di Dio si rivela
provocando i popoli a un futuro diverso. Diverso perché capace di
delineare cammini nuovi e lasciar germogliare tempi nuovi.
Si
delinea così una nuova categoria di missione. Si tratta di vedere qual
è il concetto di missione che corrisponde alle nuove situazioni dei
popoli, quali sono i nuovi orizzonti. Ciò significa anche un
rinnovamento della ecclesiologia la quale deve essere segno ed
espressione di una chiesa in cammino, in missione,
dinamica dunque10!
Ciò significa anche una certa spiritualizzazione,
interiorizzazione della missione superando la visione del missionario
attivista sfrenato per restituirlo alla forza della santità: un uomo
delle beatitudini, un contemplativo sulle strade del mondo.
L’enfasi
sottolinea che si tratta di essere
missionari, prima che di fare
i missionari. Saper fare tante cose, essere specialisti non è
sufficiente per essere uomini della missione e neppure garantisce il
successo missionario.
Occorre
essere uomini dello Spirito perché è lo Spirito il vero protagonista
di tutta la missione ecclesiale (RM 21). Ciò che conta, dunque, è
lasciarsi condurre da Lui verso la pienezza della vita in Cristo,
disponibili ad ascoltare la sua voce (RM 30). Capaci di riconoscere la
sua presenza e la sua azione nel cuore degli uomini e nelle diverse
situazioni di vita, avendo rispetto per l’opera dello Spirito Santo11
nei popoli e nelle varie stagioni della storia.
La
vita religiosa è oggi provocata da questo sogno a passare da
consumatrice di religiosità a protagonista
della fede e della speranza, della
fame e sete di giustizia. La vita religiosa deve farsi ascolto del
gemito indescrivibile dei poveri, di coloro che sono ai margini della
storia, deve sedere al pozzo dei popoli e intrecciare possibilità di
vita per il futuro e non mandare perduta l’antica promessa di
liberazione coltivata nel tempo dai profeti e dai giusti:
«Costituirò
tuo sovrano la pace, tuo governatore la giustizia. Non si sentirà più
parlare di prepotenza nel tuo Paese, di devastazione o di distruzione
nei tuoi confini. Tu chiamerai salvezza le tue mura e gloria le tue
porte» (Is
60,17b-18).
La
missione, in quest’ottica, si spinge dentro l’esigenza profonda
della vita di Dio in noi, emerge dalla novità della vita in Cristo e
alimenta la fede difficile della novità del dono di Dio. Al discepolo
è richiesto di accoglierlo, e svilupparlo per realizzarsi in conformità
a Cristo. Allora il perché della missione è tutto relativo all’aprirsi all’amore
di Cristo. Il perché della missione in tale luce torna a inquietare la
Chiesa, la comunità dei discepoli del Signore e non lascia tranquilla
la vita religiosa. L’essenza dell’essere discepolo espressa con le
parole bibliche essere con Lui,
stare con Gesù va di pari
passo con il prendere parte alla sua missione.
La
missio tocca ogni fibra
dell’essere discepolo e segna l’intero suo modo di vivere. Dice la
dimensione vitale della fede ossia il riflesso del rapporto vivo con
Cristo e che deve farsi visibile. Non il numero delle norme e delle
pratiche aiuterà la vita religiosa a essere segno rilevante nel mondo
di oggi, ma la qualità della vita di fede. Ossia le relazioni concrete
nelle quali manifestare l’amore e la pietà di Dio per il mondo
(castità); la novità cristiana dell’affermazione della giustizia e
dell’uguaglianza e dignità dei popoli (povertà); l’umile
superamento dei rapporti di potere convertendoli nella partecipazione,
nella condivisione e nella comune ricerca di ciò che a Dio piace
(obbedienza).
Camminare nella novità di Dio
La
vita religiosa è chiamata a uscire dai propri steccati non solo
geografici ma anche umani e teologali, per andare oltre e proporre in
modo radicale la missione. Essa è ponte tra “chiese”, popoli e
culture e va ristudiata e reimpostata in questo postmoderno che, mentre
si rivolge all’immediato, al frammento, esclude punti di riferimento,
direttive autorevoli, ideali totalizzanti, progetti di futuro.
«L’individuo
postmoderno prende gli eventi e le cose come vengono e le dimentica come
vanno, predilige il mondo dei diritti ma non quello dei doveri, vive la
sua vita come una successione di atti staccati dalle loro conseguenze,
milita contro qualsiasi piano o progetto, chiama “Dio” chiunque lo
faccia star bene per un minuto e incorona “santo” chi lo ha
improvvisamente miracolato, si oppone al sacrificio in nome dei beni
futuri, non ammette nessun ritardo alle sue gratificazioni»12.
D’altro
canto sperimenta grande incertezza e solitudine,
«senza
più orientamenti e bussole, si affida sempre più agli esperti, ai
cerca-sentieri, agli psicologi santoni dell’inconscio, a riti strani
ed esoterici che pregano con mantra inusuali di cui si è celato e
spesso perso il significato»13.
E
tuttavia sa apprezzare la non violenza, ama la tolleranza e il dialogo,
esige il rispetto della persona, onora il creato e le minoranze. La
missione è amoroso costante accompagnamento, un farsi tutto a tutti
nello spirito missionario di 1Cor 9,18-23. Le situazioni storiche
cambiano sempre più velocemente, la missione cammina, la vita religiosa
deve seguire Dio che cammina nella storia.
E’
vero che Dio lascia tracce del suo operare nella vita dei popoli, ma le
sue azioni non sono mai prevedibili. Egli va seguito nel suo
sorprenderci con la novità
che lo connota14.
Aprirsi alla missione comporta assumere una nuova teologia della vita
religiosa, un nuovo vocabolario. Si rende necessario re-inventare i voti in modo da dare allo Spirito la libertà di
agire in vista dell’unificazione dell’umanità e per fare in modo
che essi siano realmente segno notevole. Questo è quanto va maturando
una vita consacrata che si lascia definire e interpellare dal suo essere
discepola e di mettersi al servizio del suo Maestro e Signore. C’è
bisogno di parlare al mondo con la forza della vita e i voti che altro
sono se non sono espressione di vita, interpretazione dell’esistenza?
I valori evangelici che li inverano
«costituiscono
un modo particolarmente intimo e fecondo di partecipare alla missione di
Cristo» (VC 18).
Dunque
tutto è per rendere visibile la Vita che è in noi, ossia rendere
visibile Gesù Signore «Dio compassionevole e misericordioso» (Es
34,6), in forme sempre più alte e sempre più estese.
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