A chiunque di noi può
facilmente capitare, navigando in internet, facendo dello zapping
davanti allo schermo televisivo o sfogliando una qualsiasi rivista,
d’imbattersi in un susseguirsi d’immagini dominate dalla violenza o
dal sesso o, molto più spesso, da un cocktail esplosivo,
fantascientifico e senza significato di violenza e sesso. Un susseguirsi
frenetico d’immagini senza parola e senza senso. Gran parte di queste
immagini, per una legge del mercato globalizzato, è di produzione
nord-americana. Esse dominano soprattutto il mercato dei poveri che le
recepiscono passivamente senza possibilità di scelta e di capacità
critica. Ad esse, al massimo, si alternano interminabili sequenze di
avvenimenti sportivi, in grande prevalenza partite di calcio e corse
automobilistiche.
I giovani, soprattutto,
restano incollati per ore davanti ai differenti mezzi di comunicazione e
ripetono acriticamente le immagini immagazzinate, assorbendo i
comportamenti che da essi sono veicolati.
Questa passività
davanti al “senza parola” e al “senza senso” invita a
riflettere.
La parola e il senso
Senso e parola sono i
due significati del termine greco logos con il quale comincia il Vangelo
di san Giovanni: «In principio era il Logos»1.
Annunziare il messaggio
evangelico, o anche solo limitarsi a testimoniarlo, laddove si
costruisce un mondo senza parola e senza senso: questa è l’autentica
sfida della missione nel nostro tempo.
In un suo famoso
articolo, Pier Paolo Pasolini parlava già negli anni ’70 del fenomeno
della omologazione della gioventù. Al fondo non v’era differenza
sostanziale tra i giovani delle baraccopoli delle grandi metropoli del
Nord o del Sud del mondo. Eppure Pasolini scriveva prima che dilagasse
il fenomeno della globalizzazione.
Al di là di differenze
empiriche, il parlare a un giovane in Africa o America Latina o a un
giovane dei paesi postindustriali presenta le stesse difficoltà di
fondo. Se non ci si limita a un discorso di tipo assistenziale o
assecondante tutte le forme di rivendicazione, ci si trova di fronte a
un rifiuto di ascolto. Il problema è che parliamo a un mondo ove senso
e parola sono sempre più emarginati.
In queste condizioni si
cerca di muoversi (vecchia storia di sempre…) rincorrendo le ultime
mode in vigore, imitando la cultura dello show e facendo appello alle
star del momento. Si pensa, in tal maniera, di riuscire a veicolare il
messaggio cristiano, adattandolo al massimo alle situazioni del momento
e, tentazione sempre in agguato, di entrare in concorrenza con altre
forze mediatiche.
Tipica, in questo
senso, l’autentica irruzione del “fenomeno Padre Marcelo Rossi”
che con le sue celebrazioni-spettacolo in poche settimane ha conquistato
l’intero Brasile. Per noti teologi che lavorano in Brasile, P. Marcelo
Rossi rappresenta oggi «la perfetta inculturazione nella cultura urbana»2.
Il messaggio cristiano
ha però in sé un nucleo irriducibile che non permette nessuna
possibilità d’inserimento pacifico e senza rotture nelle differenti
culture.
V’è un punto ove non
esiste dialogo, ove il messaggio cristiano non è assimilabile senza un
passaggio che richiede passione e morte. La croce è piantata nel cuore
dell’annunzio cristiano ed è con questa croce che dobbiamo, prima o
poi, fare i nostri conti.
Fino a quando non si
affronta, nella desolazione della sua nudità, nel passaggio esodiale
del deserto e della solitudine, nella morte dei nostri sogni e dei
nostri progetti, questo nucleo irriducibile dell’annuncio cristiano,
noi restiamo sempre al di qua della riva. Possiamo aver fatto, detto,
scritto, vissuto magnifiche parole. Ma queste parole diventano vita,
diventano amore solo quando passano per il crogiolo della croce.
Una croce per la quale
si passa e che unica ci traghetta verso le rive della libertà e
dell’amore. Essa non è conciliabile con esperienze limitate nel tempo
o funzionali ai nostri progetti.
Essa, come la morte, ha
il carattere della totalità, della irrevocabilità, della finitudine
come apertura unica alla libertà e all’amore. Tutto nella vita è
rivestito del carattere di ambiguità. Solo la croce, come rottura dei
nostri piani e morte dei nostri progetti, rivela la profondità dei
nostri cuori e ci permette di vedere chi noi veramente siamo.
Fino a quel momento
tutto è ambiguo.
È lì, in
quell’accadimento non programmato, che le parole dette acquistano il
loro significato e cade il velo che oscurava anche a noi stessi la
profondità del nostro cuore.
Non esiste missione
autentica della Chiesa senza la croce, perché la Chiesa stessa nasce
dal costato trafitto del Signore Gesù.
Alla fine d’ogni anno
le agenzie missionarie ci comunicano gli elenchi dei missionari «morti
in nome di Dio per donare la vita. L’uccisione di questi martiri non
suscita scalpore. Ma essi sono come l’humus della terra: non lo si
nota, ma rende fecondo il campo per nuove semine e raccolti. Essi sono
il segno che l’amore è possibile»3.
L’illusione della
rimozione della morte
È in atto nella nostra
cultura un processo di rimozione o d’incorporazione indifferente della
morte nella vita.
La morte infastidisce e
disturba. Essa va al massimo anestetizzata ed espulsa dal vissuto
quotidiano. Tutto lo sforzo dell’uomo tende ad allontanare e
sterilizzare sofferenza e morte. Figurarsi se può essere accolto un
messaggio che si fonda su d’una morte liberamente accettata, su d’un
amore che arriva in piena libertà all’estreme conseguenze del suo
donarsi.
La cultura d’oggi, al
contrario di quella figlia o madre dei grandi miti del XIX secolo, è
una cultura che tende a espellere dal suo seno le grandi avventure che
comportano passione e morte.
Nel nostro tempo, il
cristianesimo non si trova a confrontarsi con “vite donate” per
cause a lui estranee o contrarie. Il confronto non avviene sul terreno
del per chi si dona la vita. Esso, oggi, è tra chi è pronto a perderla
perché pone in un “oltre la vita” la sua speranza e chi, non
ponendo nessun oltre, s’organizza per conservarla al massimo.
Ma questa
conservazione, questo installarsi oltre ogni ragionevolezza, viene
spezzato irrimediabilmente da avvenimenti improvvisi e non previsti. È
con questi fatti che prima o poi tutti dobbiamo fare i conti. Metterli
fuori dalla nostra visione vuol dire continuare a rifiutare la parola e
il senso che essi contengono in sé, seppur in maniera velata. E, come
abbiamo visto, senso e parola sono i due aspetti del Logos, della Parola
di Dio senza la quale ogni missione della Chiesa si riduce a viaggio
turistico o evasione dalle proprie responsabilità.
Esiste la necessità
d’un presupposto filosofico-culturale senza il quale ogni nostro
discorso risulta “vuoto che cade nel vuoto”.
Censurare la sofferenza
dalla nostra vita
È anche per questo
che, al di là di motivazioni di altro tipo, desta sensazione e richiama
l’attenzione di chi opera in missione o nell’animazione missionaria
la notizia che negli Stati Uniti hanno deciso di vietare ai minori di 17
anni, non accompagnati da un adulto, il film La stanza del figlio di
Nanni Moretti4.
Ha scritto Michele
Serra, commentando questa decisione: «Quale scandalo, quale choc, quale
sconvenienza in un film che racconta la morte senza mostrare nemmeno un
cadavere (solo una bara), e racconta il dolore umano senza esporre gli
organi interni? Si parla di una morte vicina, che azzera la distanza
stellare che il cinema ha saputo mettere tra lo spettacolo della morte e
la morte vera. Questo ci fa capire quanto la spettacolarità anestetizzi
il dolore e la paura, e quanto la gigantesca produzione hollywoodiana
(horror, noir, bellica) sia ben più facilmente metabolizzabile rispetto
all’indigeribilità del dolore morettiano. Nel cinema americano si
muore in massa, a raffica, e si muore atrocemente. Ma un film in cui
qualcuno muore ‘veramente’, muore come capita di morire fuori dai
cinema, disobbedendo al cinema, beh, un film così è inevitabilmente
sospettabile di poter impressionare i minorenni»5.
A dei minorenni cui è
negato un discorso sulla morte, la morte normale, la morte quotidiana,
la morte improvvisa che, come nel film di Nanni Moretti, pone il
protagonista di fronte alla necessità di un cambiamento radicale di
atteggiamento nei confronti della realtà, a questi giovani come dare
nella sua verità l’annunzio evangelico, l’annunzio della gioia
pasquale, gioia che non delude perché è risurrezione che passa per la
passione e la morte di croce? Come parlare della missione nel mezzo
della passione del mondo, nel cuore del popolo oppresso e crocifisso? È
possibile andare d’accordo con una cultura il cui programma è quello
di eliminare a qualsiasi prezzo la sofferenza dal mondo?
«La sofferenza – ha
ben a ragione scritto il Card. Ratzinger – fa parte della condizione
umana. E colui che vorrà realmente eliminare la sofferenza dovrà
inevitabilmente eliminare l’amore. Poiché non v’è amore senza
sofferenza, perché l’amore include sempre una parte di abnegazione.
Esso comporta sempre delle rinunce e delle sofferenze in ragione della
differenza di temperamenti e di situazioni drammatiche. Sapendo che il
cammino dell’amore, cammino dell’esodo al di fuori di sé, è il
vero cammino dell’umanizzazione dell’uomo, noi comprendiamo che la
sofferenza costituisce un processo di maturazione. Colui che ha
interiormente accettato la sofferenza si matura e diviene comprensivo
verso gli altri e più umano. Colui, invece, che ha sempre evitato la
sofferenza non comprende gli altri; egli diviene duro ed egoista»6.
Evangelicamente amore e
croce costituiscono la stessa realtà: amore e croce sono l’unica
possibilità data all’uomo per accedere alla pienezza della libertà.
Non v’è libertà
senza la verità dell’amore: un amore che non si tira indietro di
fronte alla sofferenza, sofferenza che supera e sconfigge
definitivamente la morte.
Tutto il resto è solo
gioco soffocante di parole.
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