n. 4
aprile 2002

 

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di Biancarosa Magliano
 

“Soltanto uomini nuovi...”

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Era già iniziata la quaresima, ma era liturgicamente festa; quindi si interrompeva la sequenza di letture, salmodia, orazioni, proprie del tempo quaresimale. Si celebrava la festa della Cattedra di S. Pietro. L’antifona d’ingresso ci poneva di primo acchito di fronte a una frase assicurativa di Gesù: “(Simone, Simone)… Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede, e tu, una volta ravveduto (alcuni testi traducono: e tu, quando sarai tornato), conferma i tuoi fratelli”. E’ una frase che esprime protezione, custodia, ma non condizionamenti; non annulla il libero arbitro; non rinserra in vincoli autolesivi. Infatti Pietro continuerà per la propria strada e davanti a una serva rinnegherà il Maestro, colui al quale aveva detto di essere l’unico ad avere parole di vita eterna. L’immaginazione – o la meditazione – va a un Gesù, carico di tenerezza e di forza, accanto a un uomo, che lo ama, lo sta seguendo con tutta la veemenza del suo carattere, e che – egli lo sa – tra qualche ora, messo nella difficoltà, avvolto nella nebulosità propria dell’orgoglio e della paura, sarà effettivamente un perdente.

Nelle parole di Gesù abbiamo un aggancio tra passato, presente e futuro: egli ha già pregato per quell’uomo del quale conosce la storia, glielo assicura ora, predice qualcosa che avverrà – tu quando sarai tornato – e ammonisce o implora: ‘conferma’… Gesù lancia Pietro nell’avventura del testimone: da fuggiasco e rinnegatore diventerà un ‘teste’ e comunicatore; si trasformerà in un ‘risuscitato’ che lo Spirito porrà nell’umile e coraggioso compito del servizio ‘ai servi di Dio’. Egli sarà il buon pastore che porrà la sua vita a disposizione di Dio sino alla croce.

Ma la liturgia di questa festa non si allontana di molto dalla liturgia quaresimale. Non sarà forse perché tutto va verso la Pasqua? Le Letture dell’Ufficio delle Ore con la narrazione della storia dell’Esodo, ossia del passaggio arduo e affaticante dalla schiavitù alla libertà, attraverso un lento e prolungato processo di liberazione, pongono davanti al lettore la certezza che Dio non abbandona.

Egli è sempre lì, in dialogo con Mosè che fa da interprete e da mediatore: questi comunica, media, veicola con parole adeguate alla capacità comprensiva del popolo, le promesse e le minacce di Dio.  “Dio disse a Mosè… Poi disse… Dio aggiunse a Mosè: dirai agli israeliti… Va’! Riunisci… e dì loro”. Sono espressioni che si trovano più volte anche nella stessa pericope.

Gli ebrei, via via si stancano; sono affamati; hanno sete; rimpiangono quello che non è più a loro portata di mano e mormorano. I tempi sono cambiati anche per loro. Le situazioni non saranno mai più come prima neppure per loro. Anch’essi di fronte alla fatica della novità che incombe e che ha in sé sempre qualcosa di inedito e di oscuro, diventano titubanti e timorosi e mormorano.

Ma Dio no! Dio non si pente; non ritira la parola; non cambia versione.

Egli era, è e sarà.

Infatti, molto dopo, ancora Lui, Dio, dirà a Samuele: “Fino a quando tu fai lutto per Saul, che io ho rigettato…? Riempi il tuo corno d’olio e va’; ti mando da Iesse il betlemita…”. Poi i profeti rassicureranno: “E tu, Betlemme, figlia di Giuda…”. E giungerà la pienezza dei tempi: tutto quanto è stato promesso si compie. Ma è ancora il Dio della storia che interviene. “Dio mandò l’Angelo Gabriele…”. E il resto è nella memoria di tutti. Sino al: “Io sarò con voi sino alla fine dei tempi”.

Dopo, conclusosi il tempo, noi saremo con Lui nell’eterno vivere e godere, finalmente rappacificati, appagati e inebriati.

E’ una presenza efficace e salvifica, quella di Dio, che rispetta se stesso e perciò non si contraddice. E’ una presenza che agisce, illumina, sostiene, ascolta, accoglie e risponde; propone e invita: se vuoi…

Così per i nostri istituti. Molti, in tutti i Continenti – così si evince dalle varie riviste sulla vita consacrata – si domandano quale futuro possa avere la vita religiosa. Alcuni addirittura si domandano se la vita religiosa ha un futuro.

Ma la storia è condotta da una mano infallibile che ha voluto la sua Chiesa e, in essa, come presenza facente parte della sua stessa identità, la vita consacrata.

Ciò che importa è che il consacrato non tradisca la fiducia di Dio. Cammini per le strade di radicalità tracciate da lui.

Beate/i noi, allora, se riusciremo a vivere di lode e di gratitudine verso il Padre che ha voluto i nostri Istituti. Li ha accompagnati nel loro sorgere e nel loro andare attraverso gli anni o i secoli.

Beate/i noi se sapremo immergerci in Dio, o, meglio, se sapremo lasciarci assorbire da Lui, per essere con lui, via, verità e vita per l’umanità.

Beate/i noi se, come il Figlio di Dio, sapremo fare della nostra vita un dono, se sapremo impegnare a fondo tutte le nostre energie, pur di salvare, come affermava san Paolo, almeno qualcuno.

Beate/i noi se diventeremo donne di comunione, di riconciliazione e di pace.

Beate/i noi se, superando le barriere dell’individualismo e dei ripiegamenti, sapremo immergerci nella storia degli uomini, sino a condividerne gioie e speranze, tristezze e angosce.

Beate/i noi se, in profondo ascolto di Lui, sapremo porci a sua disposizione, come Mosè, i profeti, gli apostoli, come tanti fratelli e sorelle delle nostre congregazioni.

Beate/i… certo.

Beate/i, perché la storia condotta da Dio è sempre straordinariamente bella: Dio riversa la sua tenerezza su di noi come ha fatto Gesù con Pietro rinnegatore, senza che noi ne abbiamo alcun merito. Egli cerca con perseveranza, con pazienza, con un amore senza limiti il nostro consenso. Su di noi ha posato il suo sguardo. Tutti siamo coinvolti nella costruzione della stessa storia di Dio. Ma soltanto “uomini nuovi – ha detto Giovanni Paolo II – possono rinnovare la storia”.

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