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Era già iniziata la
quaresima, ma era liturgicamente festa; quindi si interrompeva la sequenza di
letture, salmodia, orazioni, proprie del tempo quaresimale. Si celebrava la
festa della Cattedra di S. Pietro. L’antifona d’ingresso ci poneva di primo
acchito di fronte a una frase assicurativa di Gesù: “(Simone, Simone)… Io
ho pregato per te, che non venga meno la tua fede, e tu, una volta ravveduto
(alcuni testi traducono: e tu, quando sarai tornato), conferma i tuoi
fratelli”. E’ una frase che esprime protezione, custodia, ma non
condizionamenti; non annulla il libero arbitro; non rinserra in vincoli
autolesivi. Infatti Pietro continuerà per la propria strada e davanti a una
serva rinnegherà il Maestro, colui al quale aveva detto di essere l’unico ad
avere parole di vita eterna. L’immaginazione – o la meditazione – va a un
Gesù, carico di tenerezza e di forza, accanto a un uomo, che lo ama, lo sta
seguendo con tutta la veemenza del suo carattere, e che – egli lo sa – tra
qualche ora, messo nella difficoltà, avvolto nella nebulosità propria
dell’orgoglio e della paura, sarà effettivamente un perdente.
Nelle parole di Gesù
abbiamo un aggancio tra passato, presente e futuro: egli ha già pregato per
quell’uomo del quale conosce la storia, glielo assicura ora, predice qualcosa
che avverrà – tu quando sarai tornato – e ammonisce o implora:
‘conferma’… Gesù lancia Pietro nell’avventura del testimone: da
fuggiasco e rinnegatore diventerà un ‘teste’ e comunicatore; si trasformerà
in un ‘risuscitato’ che lo Spirito porrà nell’umile e coraggioso compito
del servizio ‘ai servi di Dio’. Egli sarà il buon pastore che porrà la sua
vita a disposizione di Dio sino alla croce.
Ma la liturgia di questa
festa non si allontana di molto dalla liturgia quaresimale. Non sarà forse
perché tutto va verso la Pasqua? Le Letture dell’Ufficio delle Ore con la
narrazione della storia dell’Esodo, ossia del passaggio arduo e affaticante
dalla schiavitù alla libertà, attraverso un lento e prolungato processo di
liberazione, pongono davanti al lettore la certezza che Dio non abbandona.
Egli è sempre lì, in
dialogo con Mosè che fa da interprete e da mediatore: questi comunica, media,
veicola con parole adeguate alla capacità comprensiva del popolo, le promesse e
le minacce di Dio. “Dio disse a
Mosè… Poi disse… Dio aggiunse a Mosè: dirai agli israeliti… Va’!
Riunisci… e dì loro”. Sono espressioni che si trovano più volte anche
nella stessa pericope.
Gli ebrei, via via si
stancano; sono affamati; hanno sete; rimpiangono quello che non è più a loro
portata di mano e mormorano. I tempi sono cambiati anche per loro. Le situazioni
non saranno mai più come prima neppure per loro. Anch’essi di fronte alla
fatica della novità che incombe e che ha in sé sempre qualcosa di inedito e di
oscuro, diventano titubanti e timorosi e mormorano.
Ma Dio no! Dio non si
pente; non ritira la parola; non cambia versione.
Egli era, è e sarà.
Infatti, molto dopo, ancora
Lui, Dio, dirà a Samuele: “Fino a quando tu fai lutto per Saul, che io ho
rigettato…? Riempi il tuo corno d’olio e va’; ti mando da Iesse il
betlemita…”. Poi i profeti rassicureranno: “E tu, Betlemme, figlia di
Giuda…”. E giungerà la pienezza dei tempi: tutto quanto è stato promesso
si compie. Ma è ancora il Dio della storia che interviene. “Dio mandò
l’Angelo Gabriele…”. E il resto è nella memoria di tutti. Sino al: “Io
sarò con voi sino alla fine dei tempi”.
Dopo, conclusosi il tempo,
noi saremo con Lui nell’eterno vivere e godere, finalmente rappacificati,
appagati e inebriati.
E’ una presenza efficace
e salvifica, quella di Dio, che rispetta se stesso e perciò non si contraddice.
E’ una presenza che agisce, illumina, sostiene, ascolta, accoglie e risponde;
propone e invita: se vuoi…
Così per i nostri
istituti. Molti, in tutti i Continenti – così si evince dalle varie riviste
sulla vita consacrata – si domandano quale futuro possa avere la vita
religiosa. Alcuni addirittura si domandano se la vita religiosa ha un futuro.
Ma la storia è condotta da
una mano infallibile che ha voluto la sua Chiesa e, in essa, come presenza
facente parte della sua stessa identità, la vita consacrata.
Ciò che importa è che il
consacrato non tradisca la fiducia di Dio. Cammini per le strade di radicalità
tracciate da lui.
Beate/i
noi, allora, se riusciremo a vivere di lode e di gratitudine verso il Padre che
ha voluto i nostri Istituti. Li ha accompagnati nel loro sorgere e nel loro
andare attraverso gli anni o i secoli.
Beate/i
noi se sapremo immergerci in Dio, o, meglio, se sapremo lasciarci assorbire da
Lui, per essere con lui, via, verità e vita per l’umanità.
Beate/i
noi se, come il Figlio di Dio, sapremo fare della nostra vita un dono, se
sapremo impegnare a fondo tutte le nostre energie, pur di salvare, come
affermava san Paolo, almeno qualcuno.
Beate/i
noi se diventeremo donne di comunione, di riconciliazione e di pace.
Beate/i
noi se, superando le barriere dell’individualismo e dei ripiegamenti, sapremo
immergerci nella storia degli uomini, sino a condividerne gioie e speranze,
tristezze e angosce.
Beate/i
noi se, in profondo ascolto di Lui, sapremo porci a sua disposizione, come Mosè,
i profeti, gli apostoli, come tanti fratelli e sorelle delle nostre
congregazioni.
Beate/i…
certo.
Beate/i, perché
la storia condotta da Dio è sempre straordinariamente bella: Dio riversa la sua
tenerezza su di noi come ha fatto Gesù con Pietro rinnegatore, senza che noi ne
abbiamo alcun merito. Egli cerca con perseveranza, con pazienza, con un amore
senza limiti il nostro consenso. Su di noi ha posato il suo sguardo. Tutti siamo
coinvolti nella costruzione della stessa storia di Dio. Ma soltanto “uomini
nuovi – ha detto Giovanni Paolo II – possono rinnovare la storia”.
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