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Innanzitutto ringrazio
la Presidenza USMI dell’invito che mi è stato rivolto, ma vi dico
anche la mia gioia di esser qui in mezzo a voi. Nei confronti della vita
religiosa io sto vivendo sentimenti di partecipazione alla vostra ansia,
alla vostra fatica e in questo momento e in quest’ora non facile, sono
convinto che la Chiesa, soprattutto la nostra Chiesa che è in Italia,
sarà segnata da una maggior povertà se viene meno la vostra
testimonianza, se viene meno la vostra presenza anche solo attraverso
una grande riduzione di numero.
Ho sovente anche
l’impressione che i responsabili nella Chiesa non siano
sufficientemente consapevoli di che cosa significhi nel cattolicesimo
italiano la scomparsa o la riduzione, permettetemi la locuzione, della
presenza delle suore. Perché io stesso devo soprattutto a loro tutta la
mia formazione cristiana e il mio povero cammino di vita spirituale.
Nello stesso tempo però vorrei dirvi che sono convinto che si possa
applicare a voi quell’immagine che ritrovate nel profeta Isaia. Quando
Isaia ha la visione di un ceppo bruciacchiato, un ceppo divelto, un
ceppo che sembrerebbe significare soltanto la fine, ebbene la parola del
Signore su quel ceppo è “ma se è radice santa ne rinascerà un
albero nuovo”. Io sono convinto che la vita religiosa vostra, essendo
radice santa, rinascerà, anche se oggi magari queste spinte di
rinascita sembrano poche o addirittura estremamente deboli. Non temete
dunque: c’è speranza nel Signore e credo che è importante avere
questa consapevolezza.
La vita religiosa è
una testimonianza e un segno necessario alla Chiesa. Le forme di vita
possono anche mutare, alcune incarnazioni di questa testimonianza
possono anche finire, ma la vera preoccupazione è che, se la radice è
santa, i virgulti santi continueranno ad esserci e porteranno il loro
frutto. E’ con questa convinzione, e soprattutto sapendo che mi ha
preceduto mons. Luciano Monari, un Vescovo che conosco bene per il suo
insegnamento, io cercherò non di darvi un tracciato biblico e un
tracciato teologico, ma piuttosto vorrei fermarmi su alcuni elementi
estremamente pratici che riguardano il cammino, la crescita, nella vita
religiosa e che io reputo assolutamente urgenti nella nostra situazione.
Elemento fondante
della vita religiosa
Cristo ci ha lasciato
un esempio chiarissimo affinché seguiamo le sue tracce, le sue orme. Mi
spiego: noi che vogliamo essere i suoi seguaci, avendo assunto il nome
di cristiani, appartenenti a Cristo, dobbiamo seguirlo, dobbiamo vivere
in memoria di Lui la vita cristiana. Insisto in memoria di Lui, sapendo
che faccio riferimento all’Istituzione eucaristica, ma convinto che
nell’Istituzione eucaristica, ciò che Gesù vuole istituire è la
vita cristiana che noi viviamo in memoria di Lui, con la forma che Lui
ci ha lasciato e di cui ci ha lasciato segno nell’Eucaristia. Questo
è il cristianesimo, nient’altro.
E la vita religiosa non
è altro che la vita cristiana. Vita in cui tentiamo di vivere la
radicalità del Vangelo; ma questa vita deve essere compresa come vita
di discepolato, vita con Gesù, esistenza umana coinvolta con Gesù,
vita come l’ha vissuta Gesù Cristo. Consapevoli della distanza
abissale tra Gesù Cristo e qualsiasi suo discepolo, tuttavia noi
dobbiamo assolutamente credere a questa possibilità di vivere come Gesù
ha vissuto. Questo non è né utopia né retorica, perché il cristiano
che segue il Signore è un uomo che è stato creato secondo
l’immagine, cioè è stato plasmato secondo il modello del Figlio di
Dio, Gesù Cristo. Così ci ricorda Paolo in Colossesi 1,16-17. Un uomo
che è attirato da Cristo, dunque, ed è dotato di quella grazia, che è
lo Spirito Santo, per vivere come Gesù ha vissuto e per giungere allo
stesso telos, la vita eterna, la vita filiale in Dio.
Vivere l’esistenza
umana di Gesù è la vocazione del cristiano e dunque del religioso,
della religiosa che segue le orme di Cristo anche nell’assumere la sua
forma di vita e segnata, non dimentichiamolo, da celibato e vita comune.
Ma vivere un’esistenza umana e cristiana comporta una crescita.
L’apostolo Paolo più
volte ritorna sul tema della crescita, della maturazione, sempre
evidenziando che il compimento è la carità. Lo dice nella Prima
Lettera ai Corinti, capitoli 12 e 13. Il cristiano è chiamato alla
pienezza della carità attraverso una ricerca, un cammino, una crescita
umana e spirituale che lo deve condurre all’uomo perfetto e maturo,
alla misura della statura della pienezza di Cristo. Si tratta cioè di
crescere sotto ogni aspetto “sino all’uomo perfetto, a quello
sviluppo che realizza la pienezza del Cristo” (cf Ef 4,14).
Anche l’Apostolo
Pietro chiede ai cristiani di desiderare il latte spirituale non
adulterato per crescere verso la salvezza (cf 1Pt 2,2). C’è un verbo,
il verbo augsano e derivati ed è un verbo molto significativo che
appare sovente nella parenesi neotestamentaria proprio per indicare la
crescita, la dinamica della vita spirituale di ogni discepolo. Crescere,
maturare è una necessità della vita e corrisponde alla volontà di
Dio, il quale ha rinunciato a esser tutto, perché l’uomo viva davanti
all’uomo e viva nell’irriducibile alterità, gli possa rispondere
crescendo nella libertà e nell’amore che sono le due condizioni
essenziali all’alleanza.
Crescere:
la prima vocazione umana e spirituale
Il primo gesto di Dio
creatore è stata la benedizione sulla crescita dell’uomo (cf Gn 1,28)
e Ireneo di Lione commenterà che Dio ha creato l’uomo bambino,
infante, perché cresca e come uomo vivente sia la sua gloria. Crescere
è dunque la prima vocazione umana e spirituale e certo comporta dire sì,
un vero Amen a Dio nell’obbedienza filiale, acconsentendo alla
crescita, alla vita e beneficiando delle energie dello Spirito Santo
presente come dinamis della vita cristiana a partire dal Battesimo. Io
amo la comprensione della vita religiosa come vita del battezzato, come
sviluppo di quel germe cristico di vita immesso nel cristiano con il
Battesimo e quindi come risposta al dono specifico del celibato per il
regno, in una dinamica che ha come protagonista lo Spirito Santo che
sempre più conforma a Cristo chi ha voluto seguirlo. Certamente questa
crescita, questa maturazione non è esente da problemi perché non
avviene in modo automatico; ci sono molti ostacoli e contraddizioni
poste dalle vicende della vita. Sicché crescere in statura, in sapienza
e in grazia davanti a Dio e agli uomini è un itinerario per tutti
faticoso, sovente a caro prezzo; un itinerario in cui sono necessarie
indicazioni, regole, maestri che facciano segno, ma nel senso proprio
del verbo semain (fare segno).
Dunque è necessaria
anche la formazione, perché rari sono gli uomini e le donne, se mai
sono esistiti, veramente teodidatti, istruiti, formati da Dio stesso.
L’itinerario di crescita di formazione – non dovremmo mai
dimenticarlo – è un cammino pasquale, associato alla vita, alla
passione, alla morte, resurrezione di Gesù Cristo; un cammino chiamato
sovente lotta spirituale, battaglia invisibile. Se Paolo amava leggere
la vita cristiana come lotta spirituale, soprattutto la vita religiosa
ha ricercato e meditato a lungo su questo aspetto della sequela,
trasmettendo di generazione in generazione una sapienza esperienziale
raffinatissima. E’ necessaria una formazione che sia veramente un
camino di maturità e di pienezza.
Mi si consenta ancora
un’annotazione in questa premessa: questo processo di formazione non
deve essere qualcosa che viene arrestato con la professione religiosa o
con una tappa che appartiene ai primi anni; questo processo deve durare
tutta la vita. Se la crescita umana e spirituale si arrestasse, allora
sarebbe davvero difficile poter affermare che c’è una reale continuità
nella sequela del Signore. Se non si arresta questa crescita umana e
spirituale non si arresterà neppure la formazione, perché questo è un
processo per il quale uno è trasformato a immagine di Cristo, sotto
l’azione dello Spirito Santo, durante tutta la sua vita. Non dice
forse l’Apostolo che noi siamo chiamati a essere trasformati a
immagine di Cristo (cf 2Cor 3,18), in un processo che deve davvero
coprire tutta la nostra vita? Guai a chi sente la formazione permanente
come un ripasso o come un recyclage o come un aggiornamento. So che,
purtroppo, è ancora così nella vita religiosa. No: è semplicemente
una necessità per crescere in epignosis, in sovraconoscenza di Cristo,
per crescere umanamente fino a fare della propria vita umana e
spirituale un capolavoro, un’opera d’arte, cioè fino a riprodurre
nella nostra vita la vita di Gesù.
Crescita umana e
crescita spirituale devono andare di pari passo e non possono fare a
meno di una sinergia reciproca nello svolgersi e nell’evolversi del
tempo; se una manca l’altra resta fragilissima e in questi casi ci si
prepara soltanto a una vita segnata da contraddizioni, aforie, crisi con
esiti incerti. Perché, mi si permetta di dirlo, errori di spiritualità
diventano prima o poi degli errori, delle mancanze nella vita umana fino
a essere patologie psichiche, financo somatiche.
Quale
cammino di formazione
1. Le condizioni
Un primo aspetto che
voglio mettere in evidenza riguardo alla formazione è che essa deve
avvenire con uno scopo primario, ma che tuttavia deve essere già
acquisito potenzialmente da parte del religioso e della religiosa. La
formazione deve essere pensata riguardo a due condizioni assolutamente
necessarie per la vita cristiana e quindi per la vita religiosa.
Condizioni che sono anche scopo della vita: la libertà e l’amore. In
libertate et propter caritatem dicono i Padri della vita monastica. E io
credo che non si sottolinea a sufficienza questa necessità. Ma sono
certo che oggi queste condizioni della sequela sono assolutamente da
evidenziare, anche quale scopo della vita religiosa, perché noi siamo
in una cultura dominata dall’idea del caso e della necessità. Forse
molti di voi ricorderanno il famoso libro di Jacques Maunot Il caso e la
necessità, un libro apparso nel 1969 e che ha segnato tutta una
generazione, ma che è diventato una eredità trasmessa alle nuove
generazioni che fanno l’esperienza del primato della tecnica. Ciò che
domina la vita sarebbero il caso e la necessità. Ma nella vita
cristiana il primato è dato dalla libertà e dall’amore, due parole
significativamente al centro della memoria di Gesù Cristo, al centro
della vita cristiana.
Voi tutti conoscete il
Vangelo, e sapete come sia uno sforzo comune agli evangelisti dirci che
Gesù è andato verso la sua passione e morte nella libertà e per
amore; non perché lo attendeva una necessità, un destino e neppure
perché c’erano degli eventi che succedevano a caso. Ma direi di più,
in tutte le anamnesi di Cristo, presenti nelle anafore eucaristiche di
Oriente e di Occidente, si evidenzia che Gesù andò verso la passione e
la morte come era vissuto per la libertà e per amore. Nella libertà
della scelta, libertà nel compiere la volontà di Dio e per l’amore
di Dio e di noi uomini.
Vi do alcune citazioni:
“liberamente stese le braccia sulla croce”, “liberamente andò
verso la sua passione e morte, per amore nostro, per noi, per la nostra
salvezza”. Queste condizioni di libertà e amore che
contraddistinguono la vita, morte e resurrezione di Gesù, sono anche le
condizioni della vita cristiana e della sequela. Ogni sequela deve
avvenire nella libertà del chiamato, una libertà da accrescere ma che
deve essere presente in chi vuole entrare nel cammino della vita
religiosa e deve avere come motivazione determinante l’amore del
Signore. Nelle condizioni di libertà, di amore, l’obbedienza al
Signore può essere autentica; il fare la volontà di Dio può essere un
impegno assunto. Solo nella libertà e nell’amore si può accogliere
una forma vitae e di conseguenza una regola di vita. Solo così si può
perseguire un cammino che comporta innanzitutto la rinuncia totale
nell’amore.
Insisto su rinuncia,
perché mi sembra che qui ci sia uno dei più grandi tradimenti della
vita religiosa oggi: non si vuole più assolutamente mettere in evidenza
questa parola determinante per la sequela cristiana: rinuncia, rinuncia.
Solo nella libertà e nell’amore si può correre con il cuore dilatato
sperimentando l’inenarrabile dolcezza dell’amore sulla via dei
comandamenti. Certamente questa libertà del candidato non è piena né
è giunta a pienezza. Ma questa libertà e questo amore devono essere
presenti come un semen che ha la capacità di assecondare la crescita
fino a dare frutto.
Dal candidato alla vita
religiosa si deve attendere dunque una scelta libera, un atto libero che
sia vera risposta nell’amore a una chiamata del Signore. Il candidato
non conosce tutte le sue motivazioni che lo portano alla vita religiosa;
non sa che in lui abitano forze segrete che lo spingono a quel tipo di
scelta e che magari sono segnate da un’ombra; ma se è sincero, se
sente in sé l’amore del Signore, certamente potrà iniziare un
cammino che lo impegnerà per tutta la vita fino alla morte, nella
purificazione delle sue scelte, diventando sempre più libero a prezzo
di dovere assumere quell’ombra presente in lui e che magari ha avuto
un peso nella sua scelta iniziale.
Dio si serve anche
dell’ombra che è in noi e ogni ombra nasconde una luce. Quanto mi
piace questo commento di Agostino alla Lettera di Paolo ai Romani:
“Tutto concorre al bene di quelli che amano Dio, anche il peccato
commesso” osa dire audacemente Agostino. Ed è qui che vorrei solo
evidenziare questa necessità dell’Amore del Signore, cioè della
presenza di sentimenti, ricerca, desiderio di Dio, il Dio personale
vivente e vero a cui dare del tu, il Dio che Gesù Cristo ha raccontato,
Lui immagine del Dio invisibile. Non si segue Cristo per un’opera, per
una diaconia, lo si segue per amore di Lui e per amore suo si assume una
forma vitae, una diaconia, un ministero.
Io purtroppo non ho
sentito tutta la relazione di mons. Luciano Monari, però alla fine egli
ha detto con forza che la sequela è sequela personale di Gesù. Io vi
faccio notare una cosa straordinaria che c’è all’interno della
tradizione spirituale buddista. Viene detto al discepolo: “se tu
incontri il Budda uccidilo”, perché ciò che conta è
l’insegnamento morale del Budda. Nel cristianesimo, ciò che conta è
la persona di Gesù, perché Gesù quando ha parlato della sequela, ha
detto a causa mia e del Vangelo, non a causa di un insegnamento e di un
messaggio e ha osato dire parole che turbano chiunque si mette su una
via di spiritualità non cristiana: «se uno ama il padre e la madre più
di me non è degno di me». Nessun maestro ha mai chiesto di essere
amato lui più dei vincoli naturali o di altri vincoli che abbiamo. Gesù
invece l’ha chiesto, perché quello che sta al centro della sequela è
la sua persona. La sequela è esser coinvolti nella sua vita, fino a
seguire l’agnello dovunque egli va.
2. Fasi del cammino
di sequela
Permettetemi allora di
mettere in evidenza alcune fasi o stadi di quello che può essere il
cammino di sequela e letto anche come formazione. Il processo di
iniziazione alla vita religiosa conosce evidentemente diverse fasi o
stadi. E la formazione interviene soprattutto in quella tappa primaria
che è il postulantado.
Quale formazione
offrire in questo primo tempo che dovrebbe essere sufficientemente lungo
in modo che sia possibile trasmettere almeno un’informazione? Durante
il tempo del postulantado la prima preoccupazione dei formatori dovrebbe
essere quella di trasmettere un’informazione perché il candidato
possa conoscere in modo reale, semplice e anche rapido la forma vitae
che egli pensa possibile per sé nella realizzazione della chiamata del
Signore. Io sottolineerei che il postulantado non è un tempo tanto di
formazione ma soprattutto di informazione. La mia impressione è che
oggi non si presti abbastanza attenzione a questa tappa di vita e di
fatto sovente si è incapaci di fare differenza tra postulantado e
noviziato, oppure il postulantado è ridotto a un tempo in cui il
candidato è lasciato a vedere. Questa mia osservazione è avvalorata
dal fatto che oggi molte sono le partenze durante il noviziato, più del
50% normalmente negli istituti. E questo non è positivo; indica che non
c’è stato sufficiente discernimento in quella che dovrebbe essere la
prima tappa.
Il novizio è uno che
ha già deciso di assumere un cammino, non è più chiamato a osservare,
a conoscere. E’ colui che si appresta ad assumere un impegno anche se
soggetto a probazione. Ecco perché nel postulantado il grande impegno
della formazione deve stemperarsi nell’informazione. Da parte di chi
è incaricato, ma anche da parte di tutta la comunità, senza presumere
che questo avvenga automaticamente. Non basta essere presenti per dare o
ricevere informazione; certamente l’informazione costa, richiede
attenzione, impegno e fatica, ma è assolutamente necessaria. Oggi poi i
candidati alla vita religiosa poco conoscono delle differenti forme in
cui essa si concretizza e vive. Non sempre sono in grado di discernere
quale forma di vita li attrae di più.
Certamente per entrare
nel postulantado devono avere chiara la vocazione al celibato. Ma
sappiamo tutti che la vita comunitaria può assumere forme molto
diverse, dalla residenza della Societas Jesu, alla comunità apostolica
e alla comunità cenobitica. E’ durante il postulantado che questa
informazione deve avvenire perché il candidato possa davvero
riconoscersi in quella forma vitae in cui è impegnata la sua ricerca.
Perché tanti giovani, tra i pochi che oggi entrano nella vita
religiosa, nel corso della formazione se ne vanno e sovente troppi, mi
permetto di dire, bussano alla porta di altri istituti? Perché questa
migrazione?
3. Discernimento
Accanto
all’informazione nel postulantado è anche necessario il
discernimento. Questa operazione è diventata oggi più difficile e più
lenta. La verità, l’autenticità della vocazione emerge oggi più
lentamente e sovente più tardi. Occorre per questo discernimento anche
un apporto non solo da parte di un incaricato, ma anche di altri membri
che conoscono il postulante e lo conoscono nel lavoro, nello svolgere
lavori e incarichi comunitari, della casa.
Questo discernimento
deve puntare soprattutto alla conoscenza del postulante e a verificare
l’autenticità della vocazione almeno su alcuni punti:
Rapporto con la
famiglia. La sequela del Signore, narrata e proposta nei Vangeli mette
sempre in evidenza l’abbandono della casa e della famiglia. So di
toccare un tema nel quale negli ultimi decenni, secondo il mio giudizio,
si è sfiorata l’incoscienza all’interno della vita religiosa.
Seguire Cristo nel celibato significa anche abbandonare la famiglia;
realmente fare questo abbandono. Bisogna verificare veramente se il
postulante sa amare più Cristo di suo padre, sua madre. La qualità e
l’autenticità del celibato per il regno dipende anche dal rapporto
che si sa vivere con la propria famiglia. Certo un rapporto nell’amore
e nella carità ma assolutamente sottomesso al primato dell’amore per
Cristo. Soprattutto oggi che nelle nuove generazioni la tendenza è a
prolungare l’adolescenza all’infinito, i sociologi parlano di
post-adolescenze interminabili e lo sapete tutti, non vogliono neanche
uscir di casa, arrivano addirittura a una vita da single, materialmente
coniugati ma continuano ad andare a casa dai propri genitori, quasi
incapaci di uscire da quel grembo. Proprio perché c’è questo tipo di
cultura occorre ricordarci che nel Nuovo Testamento la sequela di Cristo
richiede un abbandono reale della famiglia.
Molti giovani
potrebbero essere tentati di prendere la vita religiosa come esperienza
da farsi e a questo sono incoraggiati anche dal volontariato, sovente
predicato dalle nostre chiese senza mettere in evidenza la differenza
con la vita religiosa. Allora non si coglie più la verità di una
vocazione al celibato. La vocazione religiosa – seppur poi segnata
dalla fraternità e dall’affetto reciproco – è una forma che assume
sempre la dimensione di solitudine, che non si può e non si deve
assolutamente negare.
Altri potrebbero
servirsi della comunità religiosa come tappa per un’uscita dalla
famiglia verso il mondo, facendo della vita religiosa un luogo
intermedio tra la fuga dalla famiglia e prima di una vita autonoma nella
società. Questo è un aspetto importante: io so di istituti religiosi
(mi permetto di dirlo, non voglio darvi troppi esempi di episodi ma la
mia esperienza per la frequenza con cui partecipo o a consigli delle
forme di vita religiosa o predicando gli esercizi) in cui si arriva a
questo punto: nelle comunità soprattutto apostoliche, le suore giunte a
60-65 anni, quando vengono richiamate e devono cambiare la forma della
loro testimonianza, non restano in congregazione, sovente tornano a
casa. Questo è significativo, non hanno mai fatto un vero distacco
dalla famiglia e la famiglia è sempre restata per loro una possibilità
di esito. Questo in alcune congregazioni assume una percentuale molto
forte. Potrei anche darvi le cifre.
Legata a questa possibilità
che riguarda il rapporto con la famiglia sta la possibile ricerca di
sicurezza. Questa possibilità è sempre stata presente nella vita
religiosa, forse un tempo più di ora perché si andava in convento
anche per mangiare pane e avere una vita di qualità migliore che in
casa. Ma oggi è ancora possibile che uomini e donne segnati da
immaturità, da incertezza, da una certa ansia per una vita autonoma e
da protagonisti nella vita, pensino alla vita religiosa come luogo di
protezione. E qui spero di non ferire nessuno, ma devo dirvi che
soprattutto la vita religiosa segnata dalla clausura di fatto esercita
molta attrattiva su soggetti che hanno paura del mondo o che sentono
difficile la relazione e la comunicazione con l’altro. Entrando nella
vita claustrale trovano un ambiente protetto, un luogo di eventuale
nascondimento da ciò che potrebbe risultare per loro un handicap o una
sconfitta e assumono sovente un’immagine ideale per parenti e amici.
Essere protetti, nascondere
le proprie debolezze fisiche o psichiche, è una seduzione possibile nei
monasteri. Ma sovente significa poi una vita comune invivibile. Ve lo
dico per esperienza.
Orientamento sessuale.
Il ritardo nel processo di orientamento sessuale è un altro elemento
che rende oggi il discernimento più difficile. Eppure questo va fatto
perché non è possibile scegliere e assumere il celibato senza una
certa consapevolezza della propria dominante sessuale e del proprio
orientamento sessuale. In questo il postulante/la postulante vanno
certamente aiutati a porsi delle domande, a esercitarsi a dire in modo
trasparente e semplice il tessuto dei propri sentimenti, dei propri
affetti, delle proprie pulsioni. La castità, vissuta soltanto come
astinenza, non è garanzia di una chiamata al celibato. Ci può essere
una castità che è soltanto una condizione non ancora provata,
involuta. E in questo caso, in realtà, si è fortemente minacciati nel
cammino che si deve intraprendere.
Non sto qui ad
analizzare in profondità questo punto. Voglio solo sottolineare la
necessità del discernimento, su questa capacità a vivere del celibato.
Anche qui noi troppo spesso dimentichiamo, lo dimenticano i preti, i
presbiteri nei seminari, ma anche la vita religiosa, che il celibato,
secondo il Nuovo Testamento, è un dono, è un carisma. Non è qualcosa
che uno può assumere sempre e in ogni condizione. Gesù ha detto una
parola precisa: “Pochi capiscono questa parola, chi può fare spazio,
faccia spazio” (cf Mt 19). Non a tutti è data la possibilità di
vivere il celibato se non ne ha ricevuto il dono. Chi non ha ricevuto
questo dono o carisma non deve essere incoraggiato in una vita di
celibato e anche se ha dentro di sé dei desideri occorre fare un
discernimento se è un desiderio di seguire il Signore in una vita
estremamente impegnata o se è un desiderio di seguire il Signore nel
celibato, che è un’altra cosa.
Patologie psichiche.
Un’altra difficoltà oggi è rappresentata dalle malattie psichiche,
le quali il più delle volte si manifestano in modo più chiaro ed
evidente dopo i 30 anni. Quasi sempre però ci sono dei segni che
dovrebbero essere colti e osservati. Chi ha la responsabilità del
postulantado deve esercitarsi all’osservazione del candidato.
Soprattutto nel suo rapporto con il proprio corpo, con il cibo e con il
lavoro. Non dimenticate questo. Questi rapporti colti con un’attenta
osservazione possono fornire dei segni premonitori circa una difficoltà
di equilibrio e di maturità. La postura assunta, permettetemi di dire
soprattutto nella preghiera e nelle forme di vita comune; imparare a
guardare la postura del corpo, l’attenzione al proprio corpo, possono
rilevare patologie che in seguito si accresceranno e dunque bisogna fare
questa operazione in modo da arrivare prima a rendersi conto della
possibilità di una persona a una vita comune, visto che poi la vita
religiosa ha come fondamenti il celibato e la vita comune. Se sono
fragilità devono essere assolutamente tenute presenti nella formazione
umana e spirituale. Se sono patologie vanno al più presto misurate e
curate fino a essere letti come aspetti che possono anche richiedere al
candidato di non continuare quel cammino vocazionale. Anche perché
nella vita comune quasi tutte le patologie di tipo psichico aumentano
soltanto e diventano più difficili da essere vissute.
Ci sono fragilità che
impediscono la vita comune e che sono in contraddizione con essa. Se si
vuole vivere veramente una vita comune seria e di qualità occorre
misurare se uno è in grado di assumerla e poi di essere uno che vi
partecipa responsabilmente. Molte lamentele della vita comune sovente
dipendono da alcune persone che di fatto la impediscono, la paralizzano,
la svuotano, proprio perché incapaci di viverle. Tutto questo va
misurato perché uno possa partecipare ad un’avventura come quella
della vita religiosa.
4. L’evento del
lutto
Sempre in riferimento
del postulantado vorrei dire che è importante che intervenga l’evento
del lutto. Voi sapete che cosa è l’evento del lutto secondo le
scienze umane. C’è una rinuncia da fare, c’è un reale abbandono da
perseguire e questo ha un prezzo, ha un costo. Il candidato alla vita
religiosa deve prendere coscienza di ciò che ha lasciato, senza paura.
Oggi l’ansia e l’angoscia di poche vocazioni sono cattive
consigliere. Innanzitutto ci fanno perdere di vista i criteri per cui
certe persone non dovrebbero assolutamente entrare nel cammino
monastico, L’ansia ci chiede quasi di pigliare chiunque bussi alla
nostra porta; al contrario di quello che ci diceva Benedetto: “non si
conceda facilmente a uno di entrare”. Ma soprattutto qualche volta
impegna tutta la comunità a rendere queste persone a loro agio,
metterle in una condizione di protezione, sovente anche di calore
affettivo che non permette di patire il lutto verso ciò che si ha
lasciato.
L’evento del lutto
che deve arrivare nel postulantado significa una crisi, un momento in
cui ciò che si ha lasciato deve apparire nella sua cruda realtà, deve
esserci il momento in cui si esperimenta una spoliazione reale.
Altrimenti significa che quel candidato o prima o dopo non aveva davvero
degli elementi di vita reale e viveva più nell’immaginario.
L’abbandono della casa, della terra, della famiglia, degli amici e
della professione, nel linguaggio dei Vangeli – ricordate casa,
famiglia e campi? – deve essere un dato vissuto che rende degno di
seguire Gesù, non moralmente ma perché pone delle condizioni
autentiche alla scelta. “Chiunque non rinuncia a quanto ha non può
essere mio discepolo” (Lc 14,33).
Questa rinuncia e la
consapevolezza di essa attraverso il lutto permette di stare insieme al
figlio dell’uomo che non ha dove posare il capo, di metter mano
all’aratro senza volgersi indietro. Gesù non ha voluto catturare
seguaci, non ha reclutato militari, ha voluto dei discepoli che avessero
la coscienza espressa da Pietro: “Noi abbiamo lasciato tutto e ti
abbiamo seguito”. Detto non come rivendicazione per un merito, ma
coscienza che si ha davvero lasciato qualcosa per seguire Gesù. Ciò
che forma l’identità personale sono le relazioni con la famiglia, con
gli amici, le attività e il lavoro. Ora ciò che forma l’identità
personale, quando si entra nella vita religiosa, è perduto, deve essere
sentito come una perdita. E’ allora che il tempo di morte può davvero
diventare rinascita. Non si tratta di dimenticare il passato ma di
rileggerlo con lucidità, scoprirvi ciò che si è lasciato, leggere
l’azione di Dio, acconsentire a ciò che Dio ci promette davanti.
Anche stamattina mons. Monari in fondo con quell’immagine della
parabola del Vangelo di Tommaso, il pesce grande e il pesciolino ha
detto la stessa cosa. Ecco bisogna dire sì al pesce grande ma sapere
che si buttano a mare i pesciolini, averne coscienza e sapere ciò che
si è perso.
5. Integrazione
Se il postulantado è
contrassegnato dall’informazione, dalla conoscenza, il tempo che segue
deve essere caratterizzato dall’integrazione. Soprattutto nel tempo
del noviziato, ma intendo per questo tempo tutto il tempo prima della
professione. Si tratta di passare dall’informazione
all’integrazione. Qui davvero c’è iniziazione alla vita religiosa,
adesione a una forma vitae particolare, partecipazione soprattutto a una
vita comune. E il noviziato è il tempo per eccellenza dell’epifania.
Il candidato vive l’epifania di se stesso.
E anche la comunità fa
la sua epifania per il candidato. Prima il candidato poteva ignorarsi,
non conoscersi. Ora sono gli altri con la loro presenza, la loro
comunicazione che lo obbligano a vedere, riconoscere le sue debolezze,
le sue fragilità, i suoi enigmi, le sue oscurità, i suoi punti anche
di peccati. Voi tutti sapete come è terribile questo momento perché
prima ci si era abituati a nascondere; con la scuola, eventualmente il
lavoro, avevamo fabbricato tanti elementi che erano una maschera. E
potevamo anche ignorare di essere quel che siamo. Ma messi nella vita
comune religiosa, scopriamo gelosie, invidie, scopriamo che siamo
cattivi, scopriamo molte debolezze, insufficienze che ci accompagnano.
Ebbene solo così in questa verità, in questa epifania, si opera
quell’incontro tra comunità e candidato che permette un cammino di
partecipazione di responsabilità e di affetto fraterno. E’ così che
il novizio deve passare dall’io ideale all’io reale.
Quelli che non fanno
questa operazione sono quelli che tutta la vita sognano di avere quella
dodicesima qualità che non hanno. Io credo che un bel libro per la vita
religiosa è il libro di Musil l’uomo senza qualità. Cioè un uomo il
quale ha undici caratteri, è sposato, ha un mestiere… ma lui dice: io
sono veramente me stesso, avrei veramente la vita sviluppata se avessi
la tredicesima qualità, quella che lui non ha. Nella vita religiosa
questo è una specie sempre presente, sono quelli che poi dicono: si io
sono qui ma se fossi in quella comunità, ma come sarebbe un’altra
cosa. Mi è stato dato questo servizio ma se io facessi l’altro… Ma
il problema è che nel noviziato l’io ideale deve morire e si tratta
di assumere l’io reale. Attenzione: non vi sto indicando dei cammini
di tipo psicologico, perché poi l’io reale si trova in Cristo, non si
trova in noi stessi. Si tratta di arrivare al “per me morire è un
guadagno”; fino al “non sono più io che vivo ma Cristo che vive in
me”. Questo processo dura tutta la vita, ma se non è innescato a
partire dal noviziato, noi in realtà creiamo dei religiosi con le
maschere. Costantemente intenti a fabbricarsi una maschera per non
essere colti nella loro verità all’interno della comunità. E così
dopo che il novizio ha cercato di smascherare l’io ideale e impara ad
accettare e assumere l’io reale, può passare dall’io al noi
comunitario.
Si dovrebbe quindi
puntare sulla formazione per far capire al novizio che lui entra in
un’alleanza di fratelli o di sorelle ed entrare in un all’alleanza
significa essere capaci di spoliazione, essere capaci della
semplificazione di sé, avere un impegno per una comunicazione in ciò
che è essenziale con gli altri e con la comunità. E soprattutto
imparare non solo la docilità su cui si insisteva una volta ma la
docibilità. Che vuol dire quella capacità a imparare ad essere
istruiti. Noi oggi, mi permetto di dire che non voglio ferire nessuno,
anche per quelli i quali vengono da formazioni molto intense come i
movimenti, si rischia a un certo punto che non hanno questa capacità di
docibilità. Hanno i loro schemi, hanno la loro visione della vita
religiosa. Invece bisogna assolutamente che si esercitino ad accettare
di essere istruiti dai fratelli, dalle sorelle, dalla comunità
altrimenti non passeranno mai al noi. E diranno alla comunità e
all’istituto: voi o all’istituto alla terza persona. Ma anche la
comunità deve assolutamente operare una spoliazione che permette al
novizio di incontrarla nella realtà e verità. E’ vero che il novizio
va iniziato alla regola di vita, alla comprensione del dono e del
ministero proprio, ma occorre che tutta la comunità sia consapevole di
questo incontro in cui accoglie un altro fratello, un’altra sorella.
Nel noviziato è
indispensabile, infine, accrescere la conoscenza di Dio del mistero
cristiano, abbandonare immagini di Dio che non derivano dal Vangelo ma
da altre tradizioni. Qui c’è un compito di render Dio buona notizia,
di evangelizzare Dio, abbattendo tutte le immagini degli dei perversi.
Questo cammino – si abbia il coraggio di dirlo con chiarezza – è un
cammino di obbedienza e l’obbedienza va vista veramente come il
Vangelo la delinea, l’obbedienza a Dio, l’obbedienza alla sua volontà,
obbedienza che è possibile se c’è un continuo accrescimento dell’epignosis,
della sovraconoscenza di Cristo.
Quanto agli strumenti
della formazione del noviziato voglio dirvi brevemente quali sono. Il
primo: la lettura. Non dico solo la lectio divina ma lettura. Questo
significa che occorre dare nella formazione tempo per leggere, silenzio
per la lettura, solitudine per la lettura, insegnando l’atto della
lettura. Perché nella tradizione cristiana nella vita religiosa i libri
sacri occupano un posto importante. Leggere assicura elementi per una
formazione permanente, permette di rompere la monotonia dei giorni, è
una lotta contro il logorio del tempo.
Guardate: una vita
religiosa in cui non si legge è votata alla decadenza. Voglio dire
innanzitutto lettura della tradizione cristiana, lettura dei Padri,
lettura dei maestri spirituali, ma anche lettura di ciò che gli uomini
hanno saputo dire nella loro ricerca di senso. Insomma, si tratta di un
tempo di crescita in cui si impara davvero a conoscere. Ed è
all’interno di questo elemento che bisogna trovate tempo per pensare,
tempo per restare con se stessi, l’habitare secum, tempo per favorire
la vita interiore. Un problema delle nuove generazioni è che non sanno
né pensare né leggere e hanno una scarsa vita interiore. E’ il vero
problema delle nuove generazioni. Alla lettura non sono più abituati
perché i mass media portano altri segni. Il pensare, perché la vita è
diventata vertiginosa, non lo sanno più.
Una delle cose più
belle che ha fatto l’Episcopato francese due mesi fa è mandare una
lettera ai cattolici di Francia sulla lettura. Io spero che la leggiate
perché sarà pubblicata, spero dal Regno. Ma è una lettura in cui i
Vescovi dicono come è essenziale la lettura per la vita cristiana.
Tanto di più mi permetto di dirlo per la vita religiosa.
Molta importanza
inoltre devono avere la preghiera e la liturgia. Se il novizio deve
essere condotto a relazione profonda e personale con Dio occorre che
impari anche a pregare, a vivere liturgicamente quella relazione, che è
l’alleanza vitale e salvifica che avviene nella liturgia. Purtroppo
oggi nella vita religiosa c’è talmente una mistica dell’opera,
dell’azione, del servizio della carità, della diaconia per cui la
vita religiosa oggi di fatto vive uno scollamento con la liturgia.
Vedrete nei prossimi
decenni cosa significherà questo impoverimento e questo allentamento
del rapporto con la liturgia che difficilmente è davvero centrale nella
vita del religioso. E allora, o noi riportiamo la liturgia al centro
della vita, intendo dire al centro della giornata o altrimenti noi
stemperiamo la vita religiosa in un’opera filantropica, un
volontariato di persone consacrate.
6. Lotta spirituale
L’altro strumento che
deve essere assolutamente acquisito è la lotta spirituale questa
capacità di resistenza e di lotta verso le tentazioni idolatriche che
accompagnano ogni uomo ovunque e in qualunque situazione si trovi. La
vita religiosa ha elaborato una vera e propria sapienza della lotta
spirituale. La si insegna ancora la lotta spirituale nel noviziato o
nella formazione? Io ho l’impressione di no.
Conclusione
Ho voluto tratteggiarvi
il cammino di crescita di maturità e formazione che porta a quella
professione religiosa che indica un’assunzione dell’alleanza con la
consapevolezza di essere stato troppo veloce nel percorrere questo
cammino e le sue tappe, ma credo di potere contare sulla vostra pazienza
e sulla vostra comprensione, il tempo che mi era indicato, era anche
molto breve. Ho scelto questi cammini; presto uscirà un mio libro sulla
vita religiosa, molto ampio, che vuol essere una lettura di tutti i suoi
aspetti. Il titolo è significativo Non siamo migliori e troverete in
quel libro in maniera più estesa quello che vi ho detto qui.
Perdonatemi se ho ferito qualcuno tra di voi.
Grazie dell’ascolto.*
* La relazione non è
stata rivista dall’autore, per impossibilità di tempo disponibile.
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