n. 7/8
luglio/agosto 2002

 

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Il discepolato nel nuovo testamento
di Mons. Luciano Monari
 

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Premessa

Nel suo bel volume sul discepolo don Giovanni Moioli inizia dando questa definizione: “Il discepolo è colui per il quale l’assoluto dell’uomo è il Regno”. Poi spiega la definizione facendo riferimento a due testi evangelici. Il primo, la chiamata del giovane ricco mostra che il vero discepolo è chiamato a posporre i beni materiali al servizio del Regno: “Se vuoi essere perfetto, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri… poi vieni e seguimi”. La vocazione di questo giovane abortisce proprio perché egli rimane attaccato ai beni, non è in grado di percepire il Regno come un assoluto. Lo considera certo come un valore, tanto che ha posto a Gesù la domanda: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”. Dunque la vita eterna gl’interessa; per essa è disposto anche a ‘fare’ qualcosa. Ma non è disposto a vendere e donare tutto. Vuole la vita eterna e qualcos’altro; dunque non la vita eterna come un assoluto. Non riesce a essere discepolo.

Il secondo testo è Mt 19,12, un detto di Gesù sul celibato: “Vi sono eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il Regno dei Cieli. Chi può capire, capisca”. Secondo i commentatori, si tratta di una risposta di Gesù alle critiche rivoltegli riguardo al suo celibato. Il termine ‘eunuco’ è crudo, offensivo e designa la persona castrata, impotente; si capisce che fosse usato come termine dispregiativo. Probabilmente Gesù “fu ingiuriato come eunuco dai suoi avversari per la sua vita celibe, allo stesso modo in cui lo si accusò di essere un ‘magione e beone’, per i suoi banchetti con pubblicani, prostitute e peccatori” (Gnilka, Gesù di Nazaret, 227). Egli risponde contrapponendo a due casi di eunuchia che si presentano come disgrazia e violenza un terzo caso che invece viene presentato come un valore, un caso d’impotenza derivata dalla presenza dominante del Regno di Dio nella vita delle persone. Anche in questo caso siamo di fronte a una relativizzazione di un valore riconosciuto (il matrimonio) a motivo del valore del Regno sperimentato come assoluto.

Moioli pone allora la domanda: dov’è l’assoluto dell’uomo? Dove sta veramente e assolutamente l’uomo? E cioè: quale valore è in grado di definire in modo ultimo e assoluto l’identità della persona umana? E risponde: il Regno, l’irruzione di Dio nella sua vita, la sovranità di Dio percepita in tutta la sua densità; solo questo può esigere dall’uomo una sottomissione assoluta. Tutto il resto si muove sulla linea del relativo.

A questo punto si fa il secondo passo: dove, in concreto, il Regno di Dio si fa presente all’uomo? dove esso pone all’uomo tutte le sue esigenze? E la risposta è: “il Regno è concretamente dato e presente in Gesù Cristo. Il Regno è dove è Gesù. Il Regno viene dove viene Gesù. Il discepolato nasce dove questa presenza del Regno in Gesù viene percepita e quindi dove l’adesione a Gesù assume i caratteri di una scelta totale e definitiva. C’è un discepolo dove qualcuno dice, consapevolmente, a Gesù: “Tu sei la verità, Tu sei la salvezza, Tu sei l’alleanza”. E dove, in conseguenza di questa professione di fede, ogni altro valore viene relativizzato. Precisazione, sempre di Moioli: “Relativizzare non vuol dire che le cose sono senza senso, sono vuote, sono nulla… Non c’è svalutazione di nulla, ma soltanto l’affermazione di una libertà: io sono più grande di tutte le cose, perché non posso essere in nessuna di queste cose, perché posso essere soltanto in Gesù”. Insomma: c’è discepolato quando si percepisce e si vive il fatto che “l’assoluto dell’uomo è Gesù Cristo” [Il discepolo, pp. 11-15].

 Rapporto di Gesù con i discepoli

 Ho preso questa presentazione di Moioli come una tesi da verificare coi dati del Nuovo Testamento: è proprio così? Si può dire che secondo il Nuovo Testamento l’assoluto dell’uomo è Gesù Cristo? E che il discepolato nasce sempre e solo dove questo assoluto viene percepito in quanto tale?

Parto dal racconto della chiamata dei primi quattro discepoli: Mc 1,16-20. Vale la pena notare la collocazione dell’episodio; siamo esattamente all’inizio dell’attività pubblica di Gesù. Gesù ha appena iniziato a proclamare il vangelo: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Parafrasi: “la lunga attesa che le promesse dei profeti hanno suscitato in Israele si sta compiendo; Dio si è fatto vicino agli uomini con la forza della sua volontà regale. Accettate, dunque, la sovranità di Dio sulla vostra vita e affidatevi alla forza del vangelo che vi viene annunciato”. Dunque ora Dio è vicino, non lontano; è attivo e operante, non inerte o così lontano da non pesare sulla storia e sulla vita degli uomini. Ebbene, nella chiamata dei primi discepoli si manifesta esattamente la forza attiva del Regno di Dio, la sua attrazione irresistibile. E come si manifesta? Concretamente attraverso il passaggio di Gesù: “Passando lungo il mare di Galilea…”. Il fatto è di per sé banale; non un discorso affascinante, non un miracolo sbalorditivo; semplicemente Gesù passa vicino alla riva del lago. Eppure questo fatto normalissimo, siccome si tratta di Gesù, diventa capace di alterare tutto l’equilibrio dell’ambiente. Alcuni pescatori stanno gettando le reti in mare, altri stanno riassettando le reti: tutte azioni abituali. Ma il passaggio di Gesù opera una rivoluzione: reti, barca, famiglia, garzoni che fino a quel momento avevano costituito l’orizzonte di vita di questi pescatori vengono abbandonati e si impone, prepotente, un nuovo centro d’attrazione: “Venite dietro di me… e subito, lasciate le reti lo seguirono.” È il Regno di Dio in atto che attrae, che strappa alle abitudini del passato e offre un nuovo punto di riferimento. E questo punto di riferimento è la persona di Gesù.

Possiamo fare un confronto col racconto stupendo della vocazione di Abramo in Genesi 12,1-3. Anche là s’insiste sulla necessità di un abbandono esigente: “Vattene dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo padre”. Tre termini in progressione che dicono la radicalità del distacco; poi una triplice promessa che deve motivare il distacco: un popolo grande come discendenza, la benedizione, un nome grande. Tutto questo è una parola di Dio che viene posta davanti ad Abramo e che deve strappare Abramo alle sue sicurezze. La promessa ha così grande fascino che tutto il resto viene lasciato: “E Abram se ne partì come gli aveva detto il Signore”.

Nella chiamata dei discepoli l’ottica è diversa. I discepoli partono non per raggiungere una promessa collocata nel futuro, ma per ‘seguire Gesù’, cioè per sperimentare una condizione nuova di vita. Le parole: “vi farò diventare pescatori di uomini” non vanno intese precisamente come una promessa (cioè un obiettivo futuro che giustifica i distacchi attuali), ma come una descrizione dell’avventura che i discepoli iniziano e per la quale sono chiamati al seguito di Gesù. Gesù è un pescatore di uomini e i discepoli, seguendolo, diventano partecipi della sua condizione. È questo l’elemento determinante: stare con Gesù, seguire Gesù, condividere l’esperienza di Gesù. Si legge nel vangelo di Giovanni: “Chi mi vuole servire mi segua e dove sarò io là sarà anche il mio servo”. Dove? Nei luoghi deserti a pregare? Nella sinagoga a guarire un indemoniato, nel tempio a discutere coi farisei? Sulla via del Calvario? Nella gloria del Padre? Sì: in tutti questi luoghi perché l’essenziale non è essere qui o lì, ma l’essere con Gesù ovunque si sia. È così decisivo questo rapporto che addirittura nel libro dell’Apocalisse, quando vengono descritti i 144.000 redenti della terra si dice: “questi non si sono contaminati con donne, sono infatti vergini e seguono l’Agnello dovunque va”. Il discepolato ha una dimensione escatologica proprio nell’essere sequela di Gesù.

Il rapporto dei discepoli con Gesù è stato paragonato a quello che in fisica si chiama equilibrio dinamico. Esiste un equilibrio statico ed è quello dei corpi il cui centro di gravità cade entro l’area della base; in questo caso i corpi sono fermi e stabili proprio perché fermi. Ma esiste anche un equilibrio dinamico ed è quello che si realizza nei corpi in movimento. In questo caso il centro di gravità cade fuori dall’area di base, ma il corpo non cade perché si muove e, muovendosi, realizza equilibri sempre nuovi. Se per ipotesi il corpo smettesse di muoversi cadrebbe sull’istante proprio perché non ha in se stesso l’equilibrio. Così è il discepolo. Possiede qualità, doti, conoscenze, relazioni, riconoscimenti che costituiscono un suo patrimonio personale. Eppure il suo centro d’equilibrio non cade entro lo spazio costituito da tutte queste realtà; il discepolo è proiettato al di fuori di sé stesso, verso Gesù (venite dietro di me… lo seguirono) e trova il suo equilibrio solo camminando, correndo, in modo che il luogo di Gesù diventi la direzione del suo movimento.

C’è un testo di san Paolo che descrive nel modo più efficace questa condizione sorprendente del discepolo: Fil 3,4ss. Qui san Paolo enumera anzitutto una serie impressionante di privilegi che egli possiede, alcuni per nascita, altri per sua scelta e impegno. Poi, però, anziché vantarsi di tutto questo, cioè anziché porre in questo patrimonio impressionante di sicurezze la sua speranza egli scrive: “quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo” e descrive un’esistenza trasformata in corsa dove la meta è Gesù Cristo, dove le sicurezze mondane sono lasciate dietro le spalle, dove lo scopo è ‘essere trovato in Cristo’; questo (Cristo) è il luogo unico della sua sicurezza, la meta unica della sua corsa. “Questo perché io possa conoscere lui, la potenza della resurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla resurrezione dai morti”. All’origine di questo strano stile di vita ci sta un’esperienza che Paolo definisce come: ‘essere stato conquistato da Cristo’. Ecco, credo non ci sia un’immagine più bella dell’esperienza del discepolo secondo i vangeli.

Nel discepolato cristiano l’iniziativa appartiene a Gesù

C’è un altro elemento, già implicito in quanto abbiamo detto a proposito della vocazione dei discepoli, ma che m’interessa esplicitare. Si potrebbe pensare che il discepolato sia una scelta che la persona compie liberamente quando comprende di avere bisogno di un maestro. E così di fatto nascevano i discepoli dei rabbini in Israele. Quando uno studente, appassionato della Legge, desiderava approfondire le sue conoscenze si metteva al seguito di un maestro, di un Rabbi e cercava di imparare da lui tutta la ricchezza della tradizione interpretativa della Legge. Iniziava così un cammino che aveva come traguardo il raggiungimento del titolo (e soprattutto della conoscenza) di Rabbi da parte del discepolo.

Con Gesù le cose stanno in modo diverso. L’iniziativa appartiene a Gesù; è lui che passando chiama; e, a volte, respinge chi vorrebbe seguirlo (cf Mc 5,18-20). In ogni modo, la logica è detta esplicitamente nel vangelo secondo Giovanni: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). Non solo: il discepolo che si mette al seguito di Gesù non spera di potersi un giorno emancipare dal maestro e diventare maestro lui stesso. Al contrario il discepolato diventa una condizione permanente, la realizzazione piena del desiderio del discepolo. Vale la regola: “Il discepolo non è da più del suo maestro… E’ sufficiente al discepolo essere come il suo maestro” (Mt 10,24s).

Se ci chiediamo il perché di questa logica siamo rimandati a quello che ricordavamo sopra. Nel rapporto <discepolo-Rabbi-Legge> il valore assoluto è la Legge; il Rabbi vale se e in quanto esperto della legge e capace di trasmetterne la conoscenza; il discepolo cerca la conoscenza della legge e si fa ascoltatore del rabbi per questo. Nel rapporto <discepolo-Gesù-insegnamento> il valore assoluto è Gesù e l’insegnamento serve in quanto porta a conoscere e ubbidire a Gesù. Si pensi a un’espressione: “Se rimanete nella mia parola sarete miei discepoli, conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31s). La parola di Gesù diventa strumento per realizzare il rapporto personale con Gesù ed è nel vivere questo rapporto che il discepolo conosce la verità. Non dice, infatti: “Se rimanete nella mia parola conoscerete la verità”, ma “sarete miei discepoli e allora, in quanto miei discepoli, conoscerete la verità”. La verità non è in ciò che Gesù dice ma in ciò che egli è; il discepolo non cerca Gesù per le parole che dice, ma ascolta le parole che Gesù dice per incontrare Gesù.

Esperienza del discepolo: sentirsi conosciuto e amato da Gesù

A questo si collega, mi sembra, un’esperienza tipica di colui che incontra Gesù: quella di sentirsi conosciuto, amato da Gesù. Il vangelo di Giovanni è particolarmente chiaro a questo proposito. Si pensi alla Samaritana, quando Gesù le manifesta la conoscenza che egli ha del suo passato: “Hai avuto cinque mariti e quello che hai non è tuo marito”. Ma si pensi soprattutto a Natanaele che Gesù, al primo incontro, qualifica come un vero Israelita in cui non c’è inganno. “Da dove mi conosci?” (Gv 1,48) chiede allora Natanaele per sentirsi rispondere che Gesù non ha bisogno d’informazioni da parte di nessuno; egli vede il cuore degli uomini, “sa quello che c’è nel cuore di ogni uomo” (Gv 2,25). Queste parole che il Papa ricorda così spesso, sono significative: lo sguardo di Gesù è capace di penetrare nel profondo dell’uomo e di illuminarlo a lui stesso.

Per comprendere questo bisogna partire ricordando che nessuno conosce fino in fondo se stesso. L’uomo è per se stesso un interrogativo, un problema: et factus sum mihimetispi magna quaestio dice sant’Agostino: chi sono? Da dove vengo? Dove vado? Che cosa sono chiamato a fare? Per comprendersi l’uomo non può che confrontarsi con la realtà che lo circonda, con le persone e le cose e le situazioni e le scelte e i risultati delle scelte. E tuttavia non si scioglie del tutto il suo mistero. Ma può succedere che, incontrando Gesù, l’uomo percepisca con una chiarezza unica il senso della sua vita, della sua persona, della sua vocazione e quindi di ciò che Dio si aspetta da lui. Quando questo avviene, l’uomo coglie nello stesso tempo la sua identità e il mistero di Gesù. Perché questa capacità di rendere l’uomo trasparente a se stesso è in ultima analisi una caratteristica divina. È di Dio che il salmo dice: “Signore tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando siedo e quando mi alzo”. Ora è molto significativo che l’incontro con l’uomo Gesù produca quell’effetto che di per sé è proprio dell’incontro col mistero trascendente di Dio. Posso ricordare qui le parole di don Moioli: “Questo rapporto fondamentale [quello con Gesù] è inglobante, è onnicomprensivo, capace di assumere e di interpretare tutti gli aspetti dell’esistenza… Nessuno e niente rimane fuori: perché Cristo è capace di comprendere e di interpretare tutto” (o.c., 15).

Scriveva Heschel nel suo bel saggio sull’antropologia che il vero problema dell’uomo è il martirio, sapere cioè se esista qualcosa per cui vale la pena morire. Solo se esiste qualcosa per cui vale la pena morire, continuava, esiste qualcosa per cui vale la pena vivere; e la vita acquista così un senso. A me sembra che l’incontro con Gesù doni all’uomo proprio questo: qualcosa, che diventa in realtà qualcuno con cui e per cui vivere. Leggerei in questo modo quello straordinario versetto che Paolo scrive ai Corinzi e nel quale egli ha riassunto la sua esperienza di vita: “Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2Cor 4,5). Insomma: sulla via di Damasco Paolo ha visto all’improvviso il volto di Cristo luminoso della gloria stessa di Dio; ha capito allora che Cristo è l’incarnazione dell’amore di Dio per noi; ha capito che per Cristo si può vivere e morire; ha capito in modo nuovo il senso della sua vita. Questo mi sembra essere il significato profondo dell’esperienza di ‘essere conosciuti’ da Gesù.

Costituzione del gruppo dei dodici

 Credo sia utile spendere una parola anche sulla costituzione del gruppo dei dodici. È vero che il gruppo dei discepoli è più ampio del collegio dei dodici, ma è altrettanto vero che, nella prospettiva di Gesù, i dodici costituiscono il nucleo centrale e il modello del discepolato. Perché? Naturalmente il numero dodici dice immediato riferimento alle dodici tribù d’Israele. Appare allora evidente, nella scelta di costituire questo gruppo, la volontà di Gesù di raccogliere attorno a sé il popolo di Dio disperso. Di fatto numero e nome delle dodici tribù erano ormai poco significativi al tempo di Gesù. Le vicende della storia avevano disperso le tribù storiche di Israele e rimaneva, in pratica solo la tribù di Giuda. Ma il valore ideale delle tribù rimaneva e da questo si può comprendere la scelta di Gesù. Attorno a lui, inviato degli ultimi tempi, si ricostituisce il popolo di Dio secondo le promesse profetiche.

Questo fatto è importante perché colloca la vocazione dei discepoli in una prospettiva ampia.

Abbiamo insistito finora sul ruolo centrale che ha la persona di Gesù nel gruppo dei discepoli e nell’esperienza di ciascun discepolo: essere conosciuto da lui, chiamato da lui, seguire lui, cercare di conquistare lui e così via. Ma sarebbe un errore pensare che il discepolato si compia nel solo rapporto di amicizia con Gesù. Gesù non è la persona privata Gesù di Nazaret che il discepolo impara a visitare e con cui intrattiene legami confortanti di affetto. Gesù è la presenza del Regno di Dio in mezzo agli uomini; è l’inviato di Dio che compie tutta la volontà del Padre; è il Messia che raccoglie il popolo di Dio; è il Salvatore che offre la salvezza a tutti gli uomini. Aderire a Lui significa accogliere e aderire a tutta questa realtà personale di Gesù; significa venire introdotti nel mistero stesso della sua missione. Certo, ciascun discepolo deve rispondere personalmente alla chiamata e deve vivere un rapporto personale con Gesù (amicizia); è significativo che dei dodici coi vengano detti i nomi. Vuol dire che ciascuno di loro è presente non come numero ma come identità personale. Eppure, nello stesso tempo, nel fare parte dei dodici si costruisce una realtà di popolo che per natura sua è aperta a tutti gli uomini. È il popolo d’Israele; è nello stesso tempo l’umanità intera dei credenti e redenti.

Nell’Apocalisse il popolo dei salvati è presentato in due modi: come un popolo di 144.000 persone, dodicimila per ciascuna delle dodici tribù di Israele; e ‘una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni tribù, lingua, popolo e nazione’. Le due descrizioni, che sembrano così diverse (una strettamente israelita e l’altra universale), in realtà si equivalgono e, messe insieme, danno la misura vera del discepolato: un piccolo gruppo ma che contiene dentro di sé il germe dell’umanità fatta nuova dalla presenza e dall’opera di Gesù.

La funzione dei discepoli nella storia

 Viene allora in gioco la funzione che i discepoli sono chiamati a svolgere nella storia. Il vangelo di Marco lo esprime nel modo più chiaro proprio in occasione della scelte dei dodici. Gesù, dice “ne costituì dodici perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di cacciare i demoni” (Mc 3,14s). Forse la cosa più interessante è notare che queste due dimensioni dell’esperienza del discepolo (stare con Gesù – andare a predicare e guarire) non sono separate tra loro ma, al contrario, si collegano e si motivano a vicenda. Gesù è la sua missione e i discepoli che sono con Gesù sono anche con la sua missione. L’azione apostolica non allontana i discepoli da Gesù – anche se fisicamente li disperde a tutti gli angoli del mondo – ma al contrario rende il rapporto con Gesù stabile e totalizzante.

Possiamo prendere, come traccia per la nostra riflessione il cap. 10 di Matteo che viene generalmente chiamato ‘discorso di missione’. In realtà, se si esamina attentamente il testo, ci si rende conto che alla fine del discorso i discepoli non vengono mandati in missione; è piuttosto Gesù stesso che “quando ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli partì di là per insegnare e predicare nelle loro città” (Mt 11,1). La loro missione sarà inaugurata, secondo Matteo, solo al termine del vangelo, nell’apparizione del risorto ai dodici (undici) in Galilea.

A che cosa serve allora il lungo discorso ai discepoli? Ci si avvicina alla risposta se si nota che il capitolo unisce esortazioni che possono valere solo per il periodo iniziale della Chiesa (come quelle che restringono la missione a Israele) ed esortazioni che si riferiscono chiaramente al periodo successivo; così troviamo parole che riguardano i missionari itineranti e parole che riguardano invece tutti i credenti, anche quelli che non predicano in giro. Per questo Ulrich Luz attribuisce al capitolo un significato fondamentale ecclesiologico. “In esso Matteo estende il ministero di Gesù nella Chiesa. In esso Matteo parla della Chiesa come la figura di Gesù. Per questo motivo lo chiamiamo ‘il discorso dei discepoli’ piuttosto che ‘discorso di missione’. Il concetto di ‘discepolo’ (mathetès) incornicia il discorso all’inizio (9,37; 10,1), nel mezzo (10,24-25) e alla fine (10,42; 11,1)” (Luz, 63). In questo modo il cap. 10 diventa il paradigma non tanto della missione storica dei dodici durante il ministero di Gesù, ma della missione della Chiesa durante la storia; e le istruzioni diventano indicazioni per vivere il discepolato nella sua radicalità. Vediamo allora le indicazioni più importanti.

 a. Anzitutto la motivazione della missione dei dodici: 9,35-10,1. Si vede bene che la radice della missione apostolica è la compassione di Gesù. Davanti alla sfinitezza delle folle Gesù non rimane indifferente ma ‘sente compassione’. Nei capitoli precedenti (8 e 9) abbiamo visto una folla di persone accostare Gesù: erano ammalati, peccatori, indemoniati. Sembra che questo campionario delle miserie umane rappresenti, per Matteo, la realtà della condizione umana in quanto tale. Si può parlare dell’uomo astrattamente, mettendone in luce bellezza, intelligenza, capacità; ci avviciniamo così all’ideale greco di uomo kalòs ka’gathòs cioè integro fisicamente, formato intellettualmente, equilibrato spiritualmente. Ma se si guardano poi concretamente le persone, ci si rende conto che tutta questa ricchezza è accompagnata da una miseria profonda: malattia, errore, vecchiaia, morte sono dimensioni inevitabili dell’esistenza dell’uomo. Gesù lo vede e ‘prova compassione’. A dire il vero, la sua compassione sembra essere la traduzione in sentimenti umani di quella compassione che la Scrittura riconosce essere una qualità propria di Dio stesso; si pensi a Sl 103,8-13 ma a tanti brani del primo Testamento. Si pensi, in particolare, alla narrazione dell’Esodo dove viene descritta l’attenzione di Dio alla sorte del suo popolo, un’attenzione che diventa intervento salvatore potente. Gesù partecipa della compassione del Padre e, spinto da questa compassione, chiama i discepoli perché essi diventino partecipi della sua compassione.

Una affermazione simile si può fare prendendo l’immagine del pastore. Gesù vede che le folle sono ‘come pecore senza pastore’; per questo insegna e guarisce; per lo stesso motivo chiama dei discepoli e li manda. Nel cap. 34 di Ezechiele si legge la promessa che Dio stesso verrà a pascere il suo popolo e lo sottrarrà così ai pastori mercenari e indegni che, invece di preoccuparsi della salvezza del gregge, si sono occupati solo del vantaggio che potevano trarne. Ebbene, ora Gesù chiama dei discepoli a prolungare la sua opera di pastore, a rappresentare la sua figura di pastore.

Si vede bene, allora, che operare a favore del gregge di Gesù non è altra cosa dallo stabilire un rapporto autentico con Gesù. Proprio la profondità di questo rapporto conduce i discepoli a divenire ‘missionari’; sono missionari perché è missionario Gesù; provano compassione per le folle perché Gesù prova questa compassione; annunciano il Regno perché Gesù annuncia il regno; guariscono e perdonano perché Gesù guarisce e perdona. Insomma, la sintonia che si è creata tra loro e il maestro fa sì che essi continuino l’opera del maestro.

b. Dunque i discepoli continuano la missione di Gesù spinti dalla sua stessa compassione. Ma come? “Strada facendo, predicate che il regno dei Cieli è vicino. Guarite gl’infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni”. Non c’è bisogno di sottolineare che l’attività dei discepoli ha il suo modello nell’attività di Gesù e la deve continuare. I discepoli debbono predicare e operare guarigioni come Gesù ha predicato e ha guarito i malati. Le due dimensioni sono complementari e vanno insieme. Quando si annuncia il vangelo, infatti, non si tratta di dire parole o di insegnare idee; si tratta di far sì che la vicinanza del Regno – di Dio – si manifesti nella storia del mondo e venga sperimentata dagli uomini. Il Regno, come abbiamo detto, è Gesù; il Regno deve manifestarsi nell’attività dei discepoli; dunque Gesù deve farsi presente attraverso l’opera dei discepoli. Si capisce bene, quindi, che non si tratta solo di un’autorizzazione giuridicamente valida che pone i discepoli in possesso di un potere di salvezza. Si tratta, piuttosto, di rendere attuale l’evento-Gesù, la sua presenza nel mondo e nella storia.

 c. Una grande importanza viene data alla gratuità con cui i discepoli debbono agire. Perché? “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Perché può dire: gratuitamente avete ricevuto? In fondo il discepolato costa, richiede una serie notevole di rinunce, richiede anche un impegno personale di vita. Eppure si dice: gratuitamente avete ricevuto. Il fatto è che l’essenza del discepolato, come abbiamo ricordato, sta nel dono che Gesù fa di se stesso al discepolo e questo dono è assolutamente gratuito. Certo, il discepolo deve pagare il prezzo del lasciarsi afferrare da Gesù; ma questo non è il fondamento del discepolato e non è la strada attraverso cui si conquista la posizione di discepolo. L’amicizia di Gesù rimane un dono immeritato e accolto con riconoscenza piena. Quando il discepolo ne prende coscienza coglie immediatamente la necessità della gratuità: non può far pagare agli altri quello che lui ha ricevuto gratis. Non può fare pagare un dono che consiste essenzialmente nel rapporto con Gesù: forse che questo rapporto è calcolabile in denaro?

In questo il discepolo di Gesù si distingue dai discepoli dei filosofi itineranti. Anche i sofisti avevano i loro discepoli; a loro insegnavano l’uso della parola. E il discepolo che aveva accolto l’insegnamento diventava a sua volta maestro. Tutte queste persone insegnavano a pagamento. E lo si capisce: avevano faticato per imparare un’arte; vendevano quest’arte a chi desiderava apprenderla; chiedevano un pagamento per la fatica che avevano fatto ad apprendere e a insegnare. Ma per il discepolo è diverso. Ciò che gli è stato consegnato è un tesoro che non gli appartiene e che lo fa vivere; predicando egli non fa che ammettere altre persone alla fruizione di un tesoro che, di per sé, ha un valore infinito. Insomma, la gratuità non è un precetto morale, quasi si cercasse in questo modo di esorcizzare la possibile avidità del predicatore. Piuttosto è un precetto che corrisponde alla natura del vangelo.

 d. Non procuratevi oro, né argento…. Uno degli atteggiamenti più importanti è dunque la povertà. Sarebbe certo superficiale il voler prendere le indicazioni di Gesù alla lettera (non si deve avere bisaccia da viaggio o simili); ma sarebbe altrettanto superficiale trascurare per principio queste prescrizioni considerandole superate, legate ai soli primi tempi della Chiesa. Quello che Gesù vuole ottenere è una testimonianza credibile al Regno. Come annunciare la vicinanza del Regno di Dio, che significa salvezza piena e attuale, rimanendo attaccati alle cose? Vale qui la parabola del tesoro nascosto nel campo: chi lo trova, spinto dalla gioia va, vende tutto quello che ha e compra il campo. Proprio il fatto che egli ha venduto tutto mostra il valore di quel tesoro che egli annuncia [parabola parallela del vangelo di Tommaso]. La povertà manifesta il valore che viene attribuito al Regno non a parole ma nella realtà. Non si tratta, naturalmente, di una povertà di stampo ‘ascetico’, che vuole mostrare e irrobustire la forza di carattere della persona; è piuttosto l’espressione di una libertà dalle cose che fiorisce necessariamente in chi abbia trovato qualcosa che vale più delle cose.

 A questo si aggiunge una motivazione ulteriore ed è la disponibilità totale al servizio del vangelo. Le preoccupazioni per le cose, per quanto in sé buone, rischiano di riempire l’attenzione del discepolo e di non lasciargli spazio sufficiente per l’impegno apostolico. L’esperienza dimostra chiaramente la verità di questa percezione. Se il discepolo vuole incominciare una vita itinerante insieme con Gesù non può portarsi dietro troppe cose; e non può seguire la situazione di troppi possedimenti. Le cose che possediamo, infatti, chiedono, poco o tanto, un’attenzione (a non perderle, a non esserne derubati, a custodirle dal degrado e così via).

e. L’annuncio del vangelo fa appello alla libertà delle persone e le pone di fronte a una responsabilità grande (vv. 12-15). Il discepolo porta la pace. Bisognerebbe sentire tutta la ricchezza di gioia, di libertà, di speranza che è contenuta in questa parola. È il riassunto di tutte le promesse di Dio. Dunque l’annuncio del vangelo produce l’esperienza della salvezza di Dio. Ma proprio perché è così grande il dono, diventa tremendamente serio il rifiuto. Troviamo qui ancora l’applicazione ai discepoli del dinamismo che accompagna il ministero di Gesù. Vengono in mente alcune parole impressionanti di Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato perché non crede nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio”. Detto in altri termini: l’intenzione di Dio e del vangelo è una sola: la salvezza dell’uomo attraverso la sua partecipazione alla vita di Dio. Attraverso il vangelo all’uomo viene donata la vita stessa di Dio. Ma proprio perché è in gioco questo, il rifiuto del vangelo significa privarsi volontariamente della salvezza.

Il discepolo deve essere consapevole di questo dinamismo che la sua attività mette in movimento. Deve avere la passione di Paolo quando supplicava i Corinzi ad accogliere la riconciliazione di Dio; e deve avere l’umiltà di Paolo quando scriveva dei suoi fratelli ebrei: “Ho nel cuore un grande doloro e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” (Rm 9,2-3).

 Condizione essenziale: partecipare alle sofferenze di Gesù

 C’è un punto particolare nell’esistenza del discepolo che non possiamo dimenticare ed è la sua partecipazione alle sofferenze di Gesù. “Un discepolo non è più del suo maestro, né un servo più del suo padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone di casa, quanto più i suoi familiari!”. Dunque il discepolo non può pensarsi esonerato dal subire quelle persecuzioni che ha subito Gesù. Di fatto una grande parte del discorso di Mt 10 è dedicata a sviluppare questo tema. L’incarico di predicare il vangelo porta con sé anche il rischio della vita. Lo si vede in quattro detti di Gesù che hanno al centro il tema del timore (vv. 26-27; 28; 29-31; 32-33). È il timore che afferra il testimone cristiano quando deve professare la sua fede; la tentazione è quella di tenere nascoste quelle cose che debbono assolutamente essere portate a conoscenza di tutti gli uomini. Il discepolo non può pretendere per sé un destino diverso da quello del suo maestro; quindi la paura – in sé comprensibile – non deve bloccare la testimonianza. Di fatto Dio solo decide il destino della persona e quindi lui solo è realmente da temere.

D’altra parte il discepolo deve sapere che Dio non è assente dalla sua vita e dalla sua sofferenza. Se gli capiterà di soffrire, non gli capiterà per caso; Dio conosce e controlla tutti gli avvenimenti e anche la sofferenza diventerà un modo provvidenziale di rendere testimonianza. In questa linea il discepolo deve mettere in conto anche la possibilità del martirio. Anzi, è proprio qui, nel martirio, che l’esistenza del discepolo ha il suo compimento. Per diversi motivi. Anzitutto perché proprio nel martirio la somiglianza con Gesù diventa piena e definitiva. Ascoltiamo dal vangelo secondo Marco: “Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,34s). Era ben nota agli antichi l’usanza romana di costringere i condannati alla crocifissione a prendere e portare la croce fino al luogo del supplizio.

È a questa usanza che si riferisce Gesù quando esige dal discepolo la disponibilità a percorrere tutto il cammino del discepolato con la croce in spalla, come se fosse già condannato.

Certo, il discepolo non cerca direttamente la sofferenza e la persecuzione (“Quando vi perseguiteranno in una città fuggite in un’altra” Mt 10,23); e tuttavia il discepolo le incontra inevitabilmente a motivo di Gesù. Il soffrire fa parte della sequela; anzi diventa il luogo della pienezza della testimonianza. Anche qui possiamo richiamare l’Apocalisse dove dei redenti si dice che “hanno vinto (Satana) per mezzo dell’Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio poiché hanno disprezzato la vita fino a morire” (Ap 12, 11).

 Conclusione

 Possiamo concludere. Eravamo partiti da una provocazione di Moioli che presenta il discepolo come colui per il quale Gesù è l’assoluto. Credo che la rilettura dei vangeli ci abbia aiutato a vedere come effettivamente la figura del discepolo cristiano sia specificata dal rapporto con Gesù del quale il cristiano assume la forma. Il discepolo trova in Gesù il centro della sua vita; risponde a una sua chiamata; trova davanti a Gesù il senso della sua vita; condivide la missione di Gesù nelle sue motivazioni e nel suo stile; assume anche la sofferenza di Gesù e il martirio nelle possibilità concrete della sua vita. Tutto il resto ha la sua misura in questo rapporto con Gesù compreso come la Verità e quindi la misura assoluta delle cose. Ancora con le parole di don Moioli: “La figura caratteristica del credente cristiano, sullo sfondo del cosiddetto religioso, è specificata dal suo riferimento a un personaggio riconosciuto come la verità, come l’assoluto, l’unico. E questo personaggio, questo riferimento è Gesù Cristo, da cui prende contorno la vita, prendono contorno i criteri, i giudizi del comportamento”.

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