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Premessa
Nel suo bel volume sul
discepolo don Giovanni Moioli inizia dando questa definizione: “Il
discepolo è colui per il quale l’assoluto dell’uomo è il Regno”.
Poi spiega la definizione facendo riferimento a due testi evangelici. Il
primo, la chiamata del giovane ricco mostra che il vero discepolo è
chiamato a posporre i beni materiali al servizio del Regno: “Se vuoi
essere perfetto, vendi tutto ciò che hai e dallo ai poveri… poi vieni
e seguimi”. La vocazione di questo giovane abortisce proprio perché
egli rimane attaccato ai beni, non è in grado di percepire il Regno
come un assoluto. Lo considera certo come un valore, tanto che ha posto
a Gesù la domanda: “Che cosa devo fare per avere la vita eterna?”.
Dunque la vita eterna gl’interessa; per essa è disposto anche a
‘fare’ qualcosa. Ma non è disposto a vendere e donare tutto. Vuole
la vita eterna e qualcos’altro; dunque non la vita eterna come un
assoluto. Non riesce a essere discepolo.
Il secondo testo è Mt
19,12, un detto di Gesù sul celibato: “Vi sono eunuchi che sono nati
così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi
eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il
Regno dei Cieli. Chi può capire, capisca”. Secondo i commentatori, si
tratta di una risposta di Gesù alle critiche rivoltegli riguardo al suo
celibato. Il termine ‘eunuco’ è crudo, offensivo e designa la
persona castrata, impotente; si capisce che fosse usato come termine
dispregiativo. Probabilmente Gesù “fu ingiuriato come eunuco dai suoi
avversari per la sua vita celibe, allo stesso modo in cui lo si accusò
di essere un ‘magione e beone’, per i suoi banchetti con pubblicani,
prostitute e peccatori” (Gnilka, Gesù di Nazaret, 227). Egli risponde
contrapponendo a due casi di eunuchia che si presentano come disgrazia e
violenza un terzo caso che invece viene presentato come un valore, un
caso d’impotenza derivata dalla presenza dominante del Regno di Dio
nella vita delle persone. Anche in questo caso siamo di fronte a una
relativizzazione di un valore riconosciuto (il matrimonio) a motivo del
valore del Regno sperimentato come assoluto.
Moioli pone allora la
domanda: dov’è l’assoluto dell’uomo? Dove sta veramente e
assolutamente l’uomo? E cioè: quale valore è in grado di definire in
modo ultimo e assoluto l’identità della persona umana? E risponde: il
Regno, l’irruzione di Dio nella sua vita, la sovranità di Dio
percepita in tutta la sua densità; solo questo può esigere dall’uomo
una sottomissione assoluta. Tutto il resto si muove sulla linea del
relativo.
A questo punto si fa il
secondo passo: dove, in concreto, il Regno di Dio si fa presente
all’uomo? dove esso pone all’uomo tutte le sue esigenze? E la
risposta è: “il Regno è concretamente dato e presente in Gesù
Cristo. Il Regno è dove è Gesù. Il Regno viene dove viene Gesù. Il
discepolato nasce dove questa presenza del Regno in Gesù viene
percepita e quindi dove l’adesione a Gesù assume i caratteri di una
scelta totale e definitiva. C’è un discepolo dove qualcuno dice,
consapevolmente, a Gesù: “Tu sei la verità, Tu sei la salvezza, Tu
sei l’alleanza”. E dove, in conseguenza di questa professione di
fede, ogni altro valore viene relativizzato. Precisazione, sempre di
Moioli: “Relativizzare non vuol dire che le cose sono senza senso,
sono vuote, sono nulla… Non c’è svalutazione di nulla, ma soltanto
l’affermazione di una libertà: io sono più grande di tutte le cose,
perché non posso essere in nessuna di queste cose, perché posso essere
soltanto in Gesù”. Insomma: c’è discepolato quando si percepisce e
si vive il fatto che “l’assoluto dell’uomo è Gesù Cristo” [Il
discepolo, pp. 11-15].
Rapporto
di Gesù con i discepoli
Ho
preso questa presentazione di Moioli come una tesi da verificare coi
dati del Nuovo Testamento: è proprio così? Si può dire che secondo il
Nuovo Testamento l’assoluto dell’uomo è Gesù Cristo? E che il
discepolato nasce sempre e solo dove questo assoluto viene percepito in
quanto tale?
Parto dal racconto
della chiamata dei primi quattro discepoli: Mc 1,16-20. Vale la pena
notare la collocazione dell’episodio; siamo esattamente all’inizio
dell’attività pubblica di Gesù. Gesù ha appena iniziato a
proclamare il vangelo: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è
vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Parafrasi: “la lunga
attesa che le promesse dei profeti hanno suscitato in Israele si sta
compiendo; Dio si è fatto vicino agli uomini con la forza della sua
volontà regale. Accettate, dunque, la sovranità di Dio sulla vostra
vita e affidatevi alla forza del vangelo che vi viene annunciato”.
Dunque ora Dio è vicino, non lontano; è attivo e operante, non inerte
o così lontano da non pesare sulla storia e sulla vita degli uomini.
Ebbene, nella chiamata dei primi discepoli si manifesta esattamente la
forza attiva del Regno di Dio, la sua attrazione irresistibile. E come
si manifesta? Concretamente attraverso il passaggio di Gesù:
“Passando lungo il mare di Galilea…”. Il fatto è di per sé
banale; non un discorso affascinante, non un miracolo sbalorditivo;
semplicemente Gesù passa vicino alla riva del lago. Eppure questo fatto
normalissimo, siccome si tratta di Gesù, diventa capace di alterare
tutto l’equilibrio dell’ambiente. Alcuni pescatori stanno gettando
le reti in mare, altri stanno riassettando le reti: tutte azioni
abituali. Ma il passaggio di Gesù opera una rivoluzione: reti, barca,
famiglia, garzoni che fino a quel momento avevano costituito
l’orizzonte di vita di questi pescatori vengono abbandonati e si
impone, prepotente, un nuovo centro d’attrazione: “Venite dietro di
me… e subito, lasciate le reti lo seguirono.” È il Regno di Dio in
atto che attrae, che strappa alle abitudini del passato e offre un nuovo
punto di riferimento. E questo punto di riferimento è la persona di Gesù.
Possiamo fare un
confronto col racconto stupendo della vocazione di Abramo in Genesi
12,1-3. Anche là s’insiste sulla necessità di un abbandono esigente:
“Vattene dalla tua terra, dalla tua patria, dalla casa di tuo
padre”. Tre termini in progressione che dicono la radicalità del
distacco; poi una triplice promessa che deve motivare il distacco: un
popolo grande come discendenza, la benedizione, un nome grande. Tutto
questo è una parola di Dio che viene posta davanti ad Abramo e che deve
strappare Abramo alle sue sicurezze. La promessa ha così grande fascino
che tutto il resto viene lasciato: “E Abram se ne partì come gli
aveva detto il Signore”.
Nella chiamata dei
discepoli l’ottica è diversa. I discepoli partono non per raggiungere
una promessa collocata nel futuro, ma per ‘seguire Gesù’, cioè per
sperimentare una condizione nuova di vita. Le parole: “vi farò
diventare pescatori di uomini” non vanno intese precisamente come una
promessa (cioè un obiettivo futuro che giustifica i distacchi attuali),
ma come una descrizione dell’avventura che i discepoli iniziano e per
la quale sono chiamati al seguito di Gesù. Gesù è un pescatore di
uomini e i discepoli, seguendolo, diventano partecipi della sua
condizione. È questo l’elemento determinante: stare con Gesù,
seguire Gesù, condividere l’esperienza di Gesù. Si legge nel vangelo
di Giovanni: “Chi mi vuole servire mi segua e dove sarò io là sarà
anche il mio servo”. Dove? Nei luoghi deserti a pregare? Nella
sinagoga a guarire un indemoniato, nel tempio a discutere coi farisei?
Sulla via del Calvario? Nella gloria del Padre? Sì: in tutti questi
luoghi perché l’essenziale non è essere qui o lì, ma l’essere con
Gesù ovunque si sia. È così decisivo questo rapporto che addirittura
nel libro dell’Apocalisse, quando vengono descritti i 144.000 redenti
della terra si dice: “questi non si sono contaminati con donne, sono
infatti vergini e seguono l’Agnello dovunque va”. Il discepolato ha
una dimensione escatologica proprio nell’essere sequela di Gesù.
Il rapporto dei
discepoli con Gesù è stato paragonato a quello che in fisica si chiama
equilibrio dinamico. Esiste un equilibrio statico ed è quello dei corpi
il cui centro di gravità cade entro l’area della base; in questo caso
i corpi sono fermi e stabili proprio perché fermi. Ma esiste anche un
equilibrio dinamico ed è quello che si realizza nei corpi in movimento.
In questo caso il centro di gravità cade fuori dall’area di base, ma
il corpo non cade perché si muove e, muovendosi, realizza equilibri
sempre nuovi. Se per ipotesi il corpo smettesse di muoversi cadrebbe
sull’istante proprio perché non ha in se stesso l’equilibrio. Così
è il discepolo. Possiede qualità, doti, conoscenze, relazioni,
riconoscimenti che costituiscono un suo patrimonio personale. Eppure il
suo centro d’equilibrio non cade entro lo spazio costituito da tutte
queste realtà; il discepolo è proiettato al di fuori di sé stesso,
verso Gesù (venite dietro di me… lo seguirono) e trova il suo
equilibrio solo camminando, correndo, in modo che il luogo di Gesù
diventi la direzione del suo movimento.
C’è un testo di san
Paolo che descrive nel modo più efficace questa condizione sorprendente
del discepolo: Fil 3,4ss. Qui san Paolo enumera anzitutto una serie
impressionante di privilegi che egli possiede, alcuni per nascita, altri
per sua scelta e impegno. Poi, però, anziché vantarsi di tutto questo,
cioè anziché porre in questo patrimonio impressionante di sicurezze la
sua speranza egli scrive: “quello che poteva essere per me un guadagno
l’ho considerato una perdita a motivo di Gesù Cristo” e descrive
un’esistenza trasformata in corsa dove la meta è Gesù Cristo, dove
le sicurezze mondane sono lasciate dietro le spalle, dove lo scopo è
‘essere trovato in Cristo’; questo (Cristo) è il luogo unico della
sua sicurezza, la meta unica della sua corsa. “Questo perché io possa
conoscere lui, la potenza della resurrezione, la partecipazione alle sue
sofferenze diventandogli conforme nella morte, con la speranza di
giungere alla resurrezione dai morti”. All’origine di questo strano
stile di vita ci sta un’esperienza che Paolo definisce come: ‘essere
stato conquistato da Cristo’. Ecco, credo non ci sia un’immagine più
bella dell’esperienza del discepolo secondo i vangeli.
Nel
discepolato cristiano l’iniziativa appartiene a Gesù
C’è un altro
elemento, già implicito in quanto abbiamo detto a proposito della
vocazione dei discepoli, ma che m’interessa esplicitare. Si potrebbe
pensare che il discepolato sia una scelta che la persona compie
liberamente quando comprende di avere bisogno di un maestro. E così di
fatto nascevano i discepoli dei rabbini in Israele. Quando uno studente,
appassionato della Legge, desiderava approfondire le sue conoscenze si
metteva al seguito di un maestro, di un Rabbi e cercava di imparare da
lui tutta la ricchezza della tradizione interpretativa della Legge.
Iniziava così un cammino che aveva come traguardo il raggiungimento del
titolo (e soprattutto della conoscenza) di Rabbi da parte del discepolo.
Con Gesù le cose
stanno in modo diverso. L’iniziativa appartiene a Gesù; è lui che
passando chiama; e, a volte, respinge chi vorrebbe seguirlo (cf Mc
5,18-20). In ogni modo, la logica è detta esplicitamente nel vangelo
secondo Giovanni: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi
ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto
rimanga” (Gv 15,16). Non solo: il discepolo che si mette al seguito di
Gesù non spera di potersi un giorno emancipare dal maestro e diventare
maestro lui stesso. Al contrario il discepolato diventa una condizione
permanente, la realizzazione piena del desiderio del discepolo. Vale la
regola: “Il discepolo non è da più del suo maestro… E’
sufficiente al discepolo essere come il suo maestro” (Mt 10,24s).
Se ci chiediamo il
perché di questa logica siamo rimandati a quello che ricordavamo sopra.
Nel rapporto <discepolo-Rabbi-Legge> il valore assoluto è la
Legge; il Rabbi vale se e in quanto esperto della legge e capace di
trasmetterne la conoscenza; il discepolo cerca la conoscenza della legge
e si fa ascoltatore del rabbi per questo. Nel rapporto <discepolo-Gesù-insegnamento>
il valore assoluto è Gesù e l’insegnamento serve in quanto porta a
conoscere e ubbidire a Gesù. Si pensi a un’espressione: “Se
rimanete nella mia parola sarete miei discepoli, conoscerete la verità
e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31s). La parola di Gesù diventa
strumento per realizzare il rapporto personale con Gesù ed è nel
vivere questo rapporto che il discepolo conosce la verità. Non dice,
infatti: “Se rimanete nella mia parola conoscerete la verità”, ma
“sarete miei discepoli e allora, in quanto miei discepoli, conoscerete
la verità”. La verità non è in ciò che Gesù dice ma in ciò che
egli è; il discepolo non cerca Gesù per le parole che dice, ma ascolta
le parole che Gesù dice per incontrare Gesù.
Esperienza
del discepolo: sentirsi conosciuto e amato da Gesù
A questo si collega, mi
sembra, un’esperienza tipica di colui che incontra Gesù: quella di
sentirsi conosciuto, amato da Gesù. Il vangelo di Giovanni è
particolarmente chiaro a questo proposito. Si pensi alla Samaritana,
quando Gesù le manifesta la conoscenza che egli ha del suo passato:
“Hai avuto cinque mariti e quello che hai non è tuo marito”. Ma si
pensi soprattutto a Natanaele che Gesù, al primo incontro, qualifica
come un vero Israelita in cui non c’è inganno. “Da dove mi
conosci?” (Gv 1,48) chiede allora Natanaele per sentirsi rispondere
che Gesù non ha bisogno d’informazioni da parte di nessuno; egli vede
il cuore degli uomini, “sa quello che c’è nel cuore di ogni uomo”
(Gv 2,25). Queste parole che il Papa ricorda così spesso, sono
significative: lo sguardo di Gesù è capace di penetrare nel profondo
dell’uomo e di illuminarlo a lui stesso.
Per comprendere questo
bisogna partire ricordando che nessuno conosce fino in fondo se stesso.
L’uomo è per se stesso un interrogativo, un problema: et factus sum
mihimetispi magna quaestio dice sant’Agostino: chi sono? Da dove
vengo? Dove vado? Che cosa sono chiamato a fare? Per comprendersi
l’uomo non può che confrontarsi con la realtà che lo circonda, con
le persone e le cose e le situazioni e le scelte e i risultati delle
scelte. E tuttavia non si scioglie del tutto il suo mistero. Ma può
succedere che, incontrando Gesù, l’uomo percepisca con una chiarezza
unica il senso della sua vita, della sua persona, della sua vocazione e
quindi di ciò che Dio si aspetta da lui. Quando questo avviene,
l’uomo coglie nello stesso tempo la sua identità e il mistero di Gesù.
Perché questa capacità di rendere l’uomo trasparente a se stesso è
in ultima analisi una caratteristica divina. È di Dio che il salmo
dice: “Signore tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando siedo e quando
mi alzo”. Ora è molto significativo che l’incontro con l’uomo Gesù
produca quell’effetto che di per sé è proprio dell’incontro col
mistero trascendente di Dio. Posso ricordare qui le parole di don Moioli:
“Questo rapporto fondamentale [quello con Gesù] è inglobante, è
onnicomprensivo, capace di assumere e di interpretare tutti gli aspetti
dell’esistenza… Nessuno e niente rimane fuori: perché Cristo è
capace di comprendere e di interpretare tutto” (o.c., 15).
Scriveva Heschel nel
suo bel saggio sull’antropologia che il vero problema dell’uomo è
il martirio, sapere cioè se esista qualcosa per cui vale la pena
morire. Solo se esiste qualcosa per cui vale la pena morire, continuava,
esiste qualcosa per cui vale la pena vivere; e la vita acquista così un
senso. A me sembra che l’incontro con Gesù doni all’uomo proprio
questo: qualcosa, che diventa in realtà qualcuno con cui e per cui
vivere. Leggerei in questo modo quello straordinario versetto che Paolo
scrive ai Corinzi e nel quale egli ha riassunto la sua esperienza di
vita: “Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei
nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che
rifulge sul volto di Cristo” (2Cor 4,5). Insomma: sulla via di Damasco
Paolo ha visto all’improvviso il volto di Cristo luminoso della gloria
stessa di Dio; ha capito allora che Cristo è l’incarnazione
dell’amore di Dio per noi; ha capito che per Cristo si può vivere e
morire; ha capito in modo nuovo il senso della sua vita. Questo mi
sembra essere il significato profondo dell’esperienza di ‘essere
conosciuti’ da Gesù.
Costituzione
del gruppo dei dodici
Credo
sia utile spendere una parola anche sulla costituzione del gruppo dei
dodici. È vero che il gruppo dei discepoli è più ampio del collegio
dei dodici, ma è altrettanto vero che, nella prospettiva di Gesù, i
dodici costituiscono il nucleo centrale e il modello del discepolato.
Perché? Naturalmente il numero dodici dice immediato riferimento alle
dodici tribù d’Israele. Appare allora evidente, nella scelta di
costituire questo gruppo, la volontà di Gesù di raccogliere attorno a
sé il popolo di Dio disperso. Di fatto numero e nome delle dodici tribù
erano ormai poco significativi al tempo di Gesù. Le vicende della
storia avevano disperso le tribù storiche di Israele e rimaneva, in
pratica solo la tribù di Giuda. Ma il valore ideale delle tribù
rimaneva e da questo si può comprendere la scelta di Gesù. Attorno a
lui, inviato degli ultimi tempi, si ricostituisce il popolo di Dio
secondo le promesse profetiche.
Questo fatto è
importante perché colloca la vocazione dei discepoli in una prospettiva
ampia.
Abbiamo insistito
finora sul ruolo centrale che ha la persona di Gesù nel gruppo dei
discepoli e nell’esperienza di ciascun discepolo: essere conosciuto da
lui, chiamato da lui, seguire lui, cercare di conquistare lui e così
via. Ma sarebbe un errore pensare che il discepolato si compia nel solo
rapporto di amicizia con Gesù. Gesù non è la persona privata Gesù di
Nazaret che il discepolo impara a visitare e con cui intrattiene legami
confortanti di affetto. Gesù è la presenza del Regno di Dio in mezzo
agli uomini; è l’inviato di Dio che compie tutta la volontà del
Padre; è il Messia che raccoglie il popolo di Dio; è il Salvatore che
offre la salvezza a tutti gli uomini. Aderire a Lui significa accogliere
e aderire a tutta questa realtà personale di Gesù; significa venire
introdotti nel mistero stesso della sua missione. Certo, ciascun
discepolo deve rispondere personalmente alla chiamata e deve vivere un
rapporto personale con Gesù (amicizia); è significativo che dei dodici
coi vengano detti i nomi. Vuol dire che ciascuno di loro è presente non
come numero ma come identità personale. Eppure, nello stesso tempo, nel
fare parte dei dodici si costruisce una realtà di popolo che per natura
sua è aperta a tutti gli uomini. È il popolo d’Israele; è nello
stesso tempo l’umanità intera dei credenti e redenti.
Nell’Apocalisse il
popolo dei salvati è presentato in due modi: come un popolo di 144.000
persone, dodicimila per ciascuna delle dodici tribù di Israele; e
‘una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni tribù,
lingua, popolo e nazione’. Le due descrizioni, che sembrano così
diverse (una strettamente israelita e l’altra universale), in realtà
si equivalgono e, messe insieme, danno la misura vera del discepolato:
un piccolo gruppo ma che contiene dentro di sé il germe dell’umanità
fatta nuova dalla presenza e dall’opera di Gesù.
La
funzione dei discepoli nella storia
Viene
allora in gioco la funzione che i discepoli sono chiamati a svolgere
nella storia. Il vangelo di Marco lo esprime nel modo più chiaro
proprio in occasione della scelte dei dodici. Gesù, dice “ne costituì
dodici perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché
avessero il potere di cacciare i demoni” (Mc 3,14s). Forse la cosa più
interessante è notare che queste due dimensioni dell’esperienza del
discepolo (stare con Gesù – andare a predicare e guarire) non sono
separate tra loro ma, al contrario, si collegano e si motivano a
vicenda. Gesù è la sua missione e i discepoli che sono con Gesù sono
anche con la sua missione. L’azione apostolica non allontana i
discepoli da Gesù – anche se fisicamente li disperde a tutti gli
angoli del mondo – ma al contrario rende il rapporto con Gesù stabile
e totalizzante.
Possiamo prendere, come
traccia per la nostra riflessione il cap. 10 di Matteo che viene
generalmente chiamato ‘discorso di missione’. In realtà, se si
esamina attentamente il testo, ci si rende conto che alla fine del
discorso i discepoli non vengono mandati in missione; è piuttosto Gesù
stesso che “quando ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi
dodici discepoli partì di là per insegnare e predicare nelle loro città”
(Mt 11,1). La loro missione sarà inaugurata, secondo Matteo, solo al
termine del vangelo, nell’apparizione del risorto ai dodici (undici)
in Galilea.
A che cosa serve allora
il lungo discorso ai discepoli? Ci si avvicina alla risposta se si nota
che il capitolo unisce esortazioni che possono valere solo per il
periodo iniziale della Chiesa (come quelle che restringono la missione a
Israele) ed esortazioni che si riferiscono chiaramente al periodo
successivo; così troviamo parole che riguardano i missionari itineranti
e parole che riguardano invece tutti i credenti, anche quelli che non
predicano in giro. Per questo Ulrich Luz attribuisce al capitolo un
significato fondamentale ecclesiologico. “In esso Matteo estende il
ministero di Gesù nella Chiesa. In esso Matteo parla della Chiesa come
la figura di Gesù. Per questo motivo lo chiamiamo ‘il discorso dei
discepoli’ piuttosto che ‘discorso di missione’. Il concetto di
‘discepolo’ (mathetès) incornicia il discorso all’inizio (9,37;
10,1), nel mezzo (10,24-25) e alla fine (10,42; 11,1)” (Luz, 63). In
questo modo il cap. 10 diventa il paradigma non tanto della missione
storica dei dodici durante il ministero di Gesù, ma della missione
della Chiesa durante la storia; e le istruzioni diventano indicazioni
per vivere il discepolato nella sua radicalità. Vediamo allora le
indicazioni più importanti.
a.
Anzitutto la motivazione della missione dei dodici: 9,35-10,1. Si
vede bene che la radice della missione apostolica è la compassione di
Gesù. Davanti alla sfinitezza delle folle Gesù non rimane indifferente
ma ‘sente compassione’. Nei capitoli precedenti (8 e 9) abbiamo
visto una folla di persone accostare Gesù: erano ammalati, peccatori,
indemoniati. Sembra che questo campionario delle miserie umane
rappresenti, per Matteo, la realtà della condizione umana in quanto
tale. Si può parlare dell’uomo astrattamente, mettendone in luce
bellezza, intelligenza, capacità; ci avviciniamo così all’ideale
greco di uomo kalòs ka’gathòs cioè integro fisicamente, formato
intellettualmente, equilibrato spiritualmente. Ma se si guardano poi
concretamente le persone, ci si rende conto che tutta questa ricchezza
è accompagnata da una miseria profonda: malattia, errore, vecchiaia,
morte sono dimensioni inevitabili dell’esistenza dell’uomo. Gesù lo
vede e ‘prova compassione’. A dire il vero, la sua compassione
sembra essere la traduzione in sentimenti umani di quella compassione
che la Scrittura riconosce essere una qualità propria di Dio stesso; si
pensi a Sl 103,8-13 ma a tanti brani del primo Testamento. Si pensi, in
particolare, alla narrazione dell’Esodo dove viene descritta
l’attenzione di Dio alla sorte del suo popolo, un’attenzione che
diventa intervento salvatore potente. Gesù partecipa della compassione
del Padre e, spinto da questa compassione, chiama i discepoli perché
essi diventino partecipi della sua compassione.
Una affermazione simile
si può fare prendendo l’immagine del pastore. Gesù vede che le folle
sono ‘come pecore senza pastore’; per questo insegna e guarisce; per
lo stesso motivo chiama dei discepoli e li manda. Nel cap. 34 di
Ezechiele si legge la promessa che Dio stesso verrà a pascere il suo
popolo e lo sottrarrà così ai pastori mercenari e indegni che, invece
di preoccuparsi della salvezza del gregge, si sono occupati solo del
vantaggio che potevano trarne. Ebbene, ora Gesù chiama dei discepoli a
prolungare la sua opera di pastore, a rappresentare la sua figura di
pastore.
Si vede bene, allora,
che operare a favore del gregge di Gesù non è altra cosa dallo
stabilire un rapporto autentico con Gesù. Proprio la profondità di
questo rapporto conduce i discepoli a divenire ‘missionari’; sono
missionari perché è missionario Gesù; provano compassione per le
folle perché Gesù prova questa compassione; annunciano il Regno perché
Gesù annuncia il regno; guariscono e perdonano perché Gesù guarisce e
perdona. Insomma, la sintonia che si è creata tra loro e il maestro fa
sì che essi continuino l’opera del maestro.
b. Dunque i
discepoli continuano la missione di Gesù spinti dalla sua stessa
compassione. Ma come? “Strada facendo, predicate che il regno dei
Cieli è vicino. Guarite gl’infermi, risuscitate i morti, sanate i
lebbrosi, cacciate i demoni”. Non c’è bisogno di sottolineare che
l’attività dei discepoli ha il suo modello nell’attività di Gesù
e la deve continuare. I discepoli debbono predicare e operare guarigioni
come Gesù ha predicato e ha guarito i malati. Le due dimensioni sono
complementari e vanno insieme. Quando si annuncia il vangelo, infatti,
non si tratta di dire parole o di insegnare idee; si tratta di far sì
che la vicinanza del Regno – di Dio – si manifesti nella storia del
mondo e venga sperimentata dagli uomini. Il Regno, come abbiamo detto,
è Gesù; il Regno deve manifestarsi nell’attività dei discepoli;
dunque Gesù deve farsi presente attraverso l’opera dei discepoli. Si
capisce bene, quindi, che non si tratta solo di un’autorizzazione
giuridicamente valida che pone i discepoli in possesso di un potere di
salvezza. Si tratta, piuttosto, di rendere attuale l’evento-Gesù, la
sua presenza nel mondo e nella storia.
c.
Una grande importanza viene data alla gratuità con cui i discepoli
debbono agire. Perché? “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente
date”. Perché può dire: gratuitamente avete ricevuto? In fondo il
discepolato costa, richiede una serie notevole di rinunce, richiede
anche un impegno personale di vita. Eppure si dice: gratuitamente avete
ricevuto. Il fatto è che l’essenza del discepolato, come abbiamo
ricordato, sta nel dono che Gesù fa di se stesso al discepolo e questo
dono è assolutamente gratuito. Certo, il discepolo deve pagare il
prezzo del lasciarsi afferrare da Gesù; ma questo non è il fondamento
del discepolato e non è la strada attraverso cui si conquista la
posizione di discepolo. L’amicizia di Gesù rimane un dono immeritato
e accolto con riconoscenza piena. Quando il discepolo ne prende
coscienza coglie immediatamente la necessità della gratuità: non può
far pagare agli altri quello che lui ha ricevuto gratis. Non può fare
pagare un dono che consiste essenzialmente nel rapporto con Gesù: forse
che questo rapporto è calcolabile in denaro?
In questo il discepolo
di Gesù si distingue dai discepoli dei filosofi itineranti. Anche i
sofisti avevano i loro discepoli; a loro insegnavano l’uso della
parola. E il discepolo che aveva accolto l’insegnamento diventava a
sua volta maestro. Tutte queste persone insegnavano a pagamento. E lo si
capisce: avevano faticato per imparare un’arte; vendevano quest’arte
a chi desiderava apprenderla; chiedevano un pagamento per la fatica che
avevano fatto ad apprendere e a insegnare. Ma per il discepolo è
diverso. Ciò che gli è stato consegnato è un tesoro che non gli
appartiene e che lo fa vivere; predicando egli non fa che ammettere
altre persone alla fruizione di un tesoro che, di per sé, ha un valore
infinito. Insomma, la gratuità non è un precetto morale, quasi si
cercasse in questo modo di esorcizzare la possibile avidità del
predicatore. Piuttosto è un precetto che corrisponde alla natura del
vangelo.
d.
Non procuratevi oro, né argento…. Uno degli atteggiamenti più
importanti è dunque la povertà. Sarebbe certo superficiale il voler
prendere le indicazioni di Gesù alla lettera (non si deve avere
bisaccia da viaggio o simili); ma sarebbe altrettanto superficiale
trascurare per principio queste prescrizioni considerandole superate,
legate ai soli primi tempi della Chiesa. Quello che Gesù vuole ottenere
è una testimonianza credibile al Regno. Come annunciare la vicinanza
del Regno di Dio, che significa salvezza piena e attuale, rimanendo
attaccati alle cose? Vale qui la parabola del tesoro nascosto nel campo:
chi lo trova, spinto dalla gioia va, vende tutto quello che ha e compra
il campo. Proprio il fatto che egli ha venduto tutto mostra il valore di
quel tesoro che egli annuncia [parabola parallela del vangelo di
Tommaso]. La povertà manifesta il valore che viene attribuito al Regno
non a parole ma nella realtà. Non si tratta, naturalmente, di una
povertà di stampo ‘ascetico’, che vuole mostrare e irrobustire la
forza di carattere della persona; è piuttosto l’espressione di una
libertà dalle cose che fiorisce necessariamente in chi abbia trovato
qualcosa che vale più delle cose.
A
questo si aggiunge una motivazione ulteriore ed è la disponibilità
totale al servizio del vangelo. Le preoccupazioni per le cose, per
quanto in sé buone, rischiano di riempire l’attenzione del discepolo
e di non lasciargli spazio sufficiente per l’impegno apostolico.
L’esperienza dimostra chiaramente la verità di questa percezione. Se
il discepolo vuole incominciare una vita itinerante insieme con Gesù
non può portarsi dietro troppe cose; e non può seguire la situazione
di troppi possedimenti. Le cose che possediamo, infatti, chiedono, poco
o tanto, un’attenzione (a non perderle, a non esserne derubati, a
custodirle dal degrado e così via).
e. L’annuncio
del vangelo fa appello alla libertà delle persone e le pone di fronte a
una responsabilità grande (vv. 12-15). Il discepolo porta la pace.
Bisognerebbe sentire tutta la ricchezza di gioia, di libertà, di
speranza che è contenuta in questa parola. È il riassunto di tutte le
promesse di Dio. Dunque l’annuncio del vangelo produce l’esperienza
della salvezza di Dio. Ma proprio perché è così grande il dono,
diventa tremendamente serio il rifiuto. Troviamo qui ancora
l’applicazione ai discepoli del dinamismo che accompagna il ministero
di Gesù. Vengono in mente alcune parole impressionanti di Giovanni:
“Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito perché
chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha
mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo
si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato, ma chi
non crede è già stato condannato perché non crede nel nome
dell’Unigenito Figlio di Dio”. Detto in altri termini:
l’intenzione di Dio e del vangelo è una sola: la salvezza dell’uomo
attraverso la sua partecipazione alla vita di Dio. Attraverso il vangelo
all’uomo viene donata la vita stessa di Dio. Ma proprio perché è in
gioco questo, il rifiuto del vangelo significa privarsi volontariamente
della salvezza.
Il discepolo deve
essere consapevole di questo dinamismo che la sua attività mette in
movimento. Deve avere la passione di Paolo quando supplicava i Corinzi
ad accogliere la riconciliazione di Dio; e deve avere l’umiltà di
Paolo quando scriveva dei suoi fratelli ebrei: “Ho nel cuore un grande
doloro e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso
anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli” (Rm 9,2-3).
Condizione
essenziale: partecipare alle sofferenze di Gesù
C’è
un punto particolare nell’esistenza del discepolo che non possiamo
dimenticare ed è la sua partecipazione alle sofferenze di Gesù. “Un
discepolo non è più del suo maestro, né un servo più del suo
padrone; è sufficiente per il discepolo essere come il suo maestro e
per il servo come il suo padrone. Se hanno chiamato Beelzebul il padrone
di casa, quanto più i suoi familiari!”. Dunque il discepolo non può
pensarsi esonerato dal subire quelle persecuzioni che ha subito Gesù.
Di fatto una grande parte del discorso di Mt 10 è dedicata a sviluppare
questo tema. L’incarico di predicare il vangelo porta con sé anche il
rischio della vita. Lo si vede in quattro detti di Gesù che hanno al
centro il tema del timore (vv. 26-27; 28; 29-31; 32-33). È il timore
che afferra il testimone cristiano quando deve professare la sua fede;
la tentazione è quella di tenere nascoste quelle cose che debbono
assolutamente essere portate a conoscenza di tutti gli uomini. Il
discepolo non può pretendere per sé un destino diverso da quello del
suo maestro; quindi la paura – in sé comprensibile – non deve
bloccare la testimonianza. Di fatto Dio solo decide il destino della
persona e quindi lui solo è realmente da temere.
D’altra parte il
discepolo deve sapere che Dio non è assente dalla sua vita e dalla sua
sofferenza. Se gli capiterà di soffrire, non gli capiterà per caso;
Dio conosce e controlla tutti gli avvenimenti e anche la sofferenza
diventerà un modo provvidenziale di rendere testimonianza. In questa
linea il discepolo deve mettere in conto anche la possibilità del
martirio. Anzi, è proprio qui, nel martirio, che l’esistenza del
discepolo ha il suo compimento. Per diversi motivi. Anzitutto perché
proprio nel martirio la somiglianza con Gesù diventa piena e
definitiva. Ascoltiamo dal vangelo secondo Marco: “Se qualcuno vuol
venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà
la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà” (Mc 8,34s).
Era ben nota agli antichi l’usanza romana di costringere i condannati
alla crocifissione a prendere e portare la croce fino al luogo del
supplizio.
È a questa usanza che
si riferisce Gesù quando esige dal discepolo la disponibilità a
percorrere tutto il cammino del discepolato con la croce in spalla, come
se fosse già condannato.
Certo, il discepolo non
cerca direttamente la sofferenza e la persecuzione (“Quando vi
perseguiteranno in una città fuggite in un’altra” Mt 10,23); e
tuttavia il discepolo le incontra inevitabilmente a motivo di Gesù. Il
soffrire fa parte della sequela; anzi diventa il luogo della pienezza
della testimonianza. Anche qui possiamo richiamare l’Apocalisse dove
dei redenti si dice che “hanno vinto (Satana) per mezzo dell’Agnello
e grazie alla testimonianza del loro martirio poiché hanno disprezzato
la vita fino a morire” (Ap 12, 11).
Conclusione
Possiamo
concludere. Eravamo partiti da una provocazione di Moioli che presenta
il discepolo come colui per il quale Gesù è l’assoluto. Credo che la
rilettura dei vangeli ci abbia aiutato a vedere come effettivamente la
figura del discepolo cristiano sia specificata dal rapporto con Gesù
del quale il cristiano assume la forma. Il discepolo trova in Gesù il
centro della sua vita; risponde a una sua chiamata; trova davanti a Gesù
il senso della sua vita; condivide la missione di Gesù nelle sue
motivazioni e nel suo stile; assume anche la sofferenza di Gesù e il
martirio nelle possibilità concrete della sua vita. Tutto il resto ha
la sua misura in questo rapporto con Gesù compreso come la Verità e
quindi la misura assoluta delle cose. Ancora con le parole di don Moioli:
“La figura caratteristica del credente cristiano, sullo sfondo del
cosiddetto religioso, è specificata dal suo riferimento a un
personaggio riconosciuto come la verità, come l’assoluto, l’unico.
E questo personaggio, questo riferimento è Gesù Cristo, da cui prende
contorno la vita, prendono contorno i criteri, i giudizi del
comportamento”.
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