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Premessa
Opportunamente, mi sono stati indicati i confini spazio-temporali. Si
tratta di pensarci come “religiosi” all’interno della “nuova” Europa,
che presto comprenderà tutti i cosiddetti Paesi dell’Est – eccetto forse
la Russia, – ma a partire da una data precisa e determinante: il
Concilio Vaticano II.
Che cosa
può comportare tutto questo?
Anzitutto credo che comporti un allargamento dei nostri orizzonti
spazio-temporali.
Ormai si
è concluso una volta per tutte il tempo in cui potevamo pensarci
unicamente all’interno della nostra piccola Italia. Siamo cittadini
europei, aperti inevitabilmente alla mondialità. Utilizziamo tutti
l’internet, il che significa che siamo continuamente “in rete”. Il
textus, cioè il tessuto della nostra vita è strettamente
connesso, legato a quello di tutti gli altri concittadini europei e –
direi – semplicemente con i cittadini del mondo.
La postmodernità
Se
poteva essere vero già dopo la seconda guerra mondiale che “nessun uomo
è un’isola”, lo è ancora di più oggi per tutti e per ciascuno, senza
distinzione.
L’affermazione appena fatta sembra scontata. E tuttavia le implicanze
sono di enorme portata. Perché? Perché questo allargamento enorme degli
orizzonti avviene in un contesto epocale definito da molti come
postmoderno.
La
post-modernità – viene chiamata così la nostra “epoca” successiva
alla “modernità” – sembra caratterizzarsi come un tempo in cui sono
crollati quasi del tutto alcuni valori che avevano caratterizzato la
modernità, mentre ne sono stati proposti di nuovi.
Per
capire di cosa si tratti mi permetto di ricordare in sintesi –
attingendo al dibattito che si è acceso nella nostra Congregazione
camaldolese nei due ultimi Capitoli Generali – alcune riflessioni che ci
hanno accompagnato in questi anni.
Durante
il Capitolo del ’99, Maria Ignazia Angelini, abbadessa di Viboldone
(MI), ci ricordava che la modernità nasce sotto il segno del disincanto
del mondo e dell’idea di emancipazione anzitutto dal passato. Tale
emancipazione è perseguita attraverso il principio della
soggettivizzazione e della razionalizzazione. I due principi
imperversano separatamente fino agli anni ’60 del novecento, creando
frammentazione senza arbitrato alcuno, essendo la libertà umana
concepita come cominciamento assoluto, al vertice del divenire del
mondo.
Originariamente la modernità è in conflitto con le grandi visioni
unitarie, universali dell’umano, siano esse filosofiche o religiose,
denunciandole come favole. Ma per legittimare le sue regole di gioco la
modernità costruisce un discorso di legittimazione che chiama
“filosofia”, cioè un metadiscorso che implica una filosofia della storia
prodotta con la «narrazione dell’illuminismo fino alle grandi ideologie
fiorite e sepolte nel XX secolo», che anche per questo viene definito
«secolo breve».
La
caduta di queste “grandi visioni” ha prodotto incredulità verso ogni
genere di ideologia, trascinando con sé la filosofia metafisica e le
certezze dell’istituzione universitaria.
Questa
vera e propria rottura dell’universalità del sapere, con la crisi della
cultura occidentale, apre la porta al dialogo tra le culture, acuisce la
sensibilità e la tolleranza rispetto alle differenze, ma non riesce più
a proporre un misura comune, non arbitraria né basata sull’accordo, di
fronte a cui confrontarsi nel dialogo. Rimane aperta la porta ad ogni
arbitrio. Si dialoga, si apprezza rispettosamente la diversità
dell’altro, ma poi ognuno ritorna, con sottile malinconia, miope
presunzione, o patetico narcisismo, nel suo piccolo mondo1.
Alcune megatendenze
In
quella stessa occasione venivano sottolineate anche tre “megatendenze”
presenti nella società attuale e cioè:
1. Il mutamento del modello
economico, che ha generato, grazie ad una straordinaria rivoluzione
tecnologica, il predominio dell’aspetto finanziario su quello più
strettamente produttivo.
2. La diffusione di una cultura
di massa di tipo programmatico funzionale, grazie al cumulo di
informazioni massmediali di cui possono fruire tutti, in qualsiasi parte
del mondo, con conseguente riduzione dell’approfondimento delle
conoscenze stesse.
3. La marginalità o addirittura
la fine dell’incidenza politica dei singoli o dei piccoli gruppi ai
quali si offrono solo delle supplenze consolatorie e ingannevoli, perché
prive di qualsiasi apporto davvero efficace sul reale. Le decisioni
vere, quelle che contano, vengono prese infatti sistematicamente
“altrove”, cioè in quel mondo complesso, anonimo e tecnologicamente
avanzato, che si perde nell’indifferenziato degli interessi del potere
“finanziario” internazionale.
Conseguenze
nello stile di vita
Le
conseguenze di queste megatendenze sono sotto gli occhi di tutti. Mi
permetto di richiamarne alcune:
a.
L’idolatria del denaro, con sottomissione cieca da parte di
tutti, ricchi o poveri che siano, al demone della cupidigia. Chi non ha,
desidera con tutte le sue forze di avere; e chi ha, desidera,
altrettanto fortemente, di avere di più.
La
cupidigia comporta poi inevitabilmente una continua
destabilizzazione con conseguenze macroscopiche come quelle
dell’assalto delle nostre coste da parte dei meno fortunati della terra;
dell’inurbamento caotico che fa lievitare enormemente città già al
limite della loro capacità di accoglienza e di servizi; del degrado
ecologico, soprattutto delle periferie in cui crescono a dismisura
baraccopoli assolutamente disumane sotto tutte le latitudini della
terra; dell’ingigantirsi della criminalità organizzata; dell’istinto
necrofilo del consumismo che lacera le strutture elementari della vita.
(E. Fromm)
b. La perdita dell’interiorità,
dovuta all’opinione diffusa che quel che serve è salvare la faccia,
impressionare, in positivo o in negativo poco importa: stupire
o atterrire si equivalgono e comunque quel che conta è apparire,
facendo di tutto per essere “a la page” e comunque non perdere il
treno annuale o stagionale della moda. Si è disposti a “mettere in
piazza” anche la propria anima e, secondo le occasioni, a venderla al
primo offerente, o addirittura a “perderla”, pur di “fare spettacolo” o
meglio fare audience, secondo il gergo comune dei mass media.
Si è
stabilita una sconcertante alleanza cultuale profana tra bellezza,
benessere e gioventù che fa dimenticare dove risiede la vera dignità
dell’uomo. Da qui la marginalizzazione dell’anziano, dell’handicappato e
del malato che invece sono di fatto rivelazione veritiera dell’uomo
concreto e dei suoi limiti2.
Se tutto
questo lo si fa sulla propria persona, a fortiori poi si pensa di
poterlo fare sugli altri, insistendo smodatamente sul diritto
all’informazione fino a imporre la presenza del microfono o della
telecamera negli angoli più remoti della casa e dell’anima altrui. Si è
esagerato al punto, in queste cose, da dovere inventare istituzioni
appropriate a difendere la privacy contro invadenze inopportune e
indesiderate. Carpire i segreti degli altri è divenuto un must
soprattutto da parte di intervistatori di ogni tipo. E da questo
desiderio-dovere di messa in scena di tutto e di tutti non riescono a
scampare né gli aspetti più intimi dell’amicizia né, tanto meno, le
manifestazioni religiose più sacre o più personali. Basti osservare con
quanta curiosità, oserei dire “malizia”, gli zoom dei teleobiettivi o
delle telecamere insistono nei particolari di un uomo, “pubblico” a
qualunque titolo, sia egli presidente di una qualsiasi istituzione più o
meno importante, “attore”, “atleta”, o qualunque altra cosa, non
escluso, anzi qualche volta con particolare insistenza e “golosità”,
l’uomo “religioso”. Il dentro è fuori e la stessa libertà della
persona, così tanto sbandierata da tutti, in realtà corre gravissimi
rischi di essere platealmente tradita e conculcata.
c.
Disgusto dell’essere e dell’esserci, causato soprattutto dal senso di
impotenza e della in-incidenza sulle cose, sugli avvenimenti, sugli
uomini. Ci si sente “sperduti nell’universo”, pilotati da altri
dai quali dipendiamo in tutto e per tutto, ma questi “altri”, che
decidono per noi e al nostro posto, sono calcolatori freddi e
disinteressati, che agiscono soltanto in base alle possibilità
strettamente tecniche e all’interesse economico.
La
persona è un numero o una lettera dell’alfabeto calcolati sulla
cifra mensile o annuale del suo reddito – si pensi all’espressione
corrente: “un uomo o una donna da un milione di dollari o di euro” –
valutata, promossa o retrocessa a partire dall’efficienza che, a
sua volta, deve produrre un interesse economico sufficientemente alto da
poter giustificare la sua permanenza in Ditta o nella Istituzione.
E’ ovvio
che chiunque si senta giudicato con simili parametri di riferimento si
consideri un nulla, disgustato di sé, disgustato degli
altri, disgustato del lavoro che compie, annoiato di tutto, impedito
persino nell’intimità della propria famiglia, di godere delle cose buone
della vita e di gioire con gli altri.
Come può
essere capace di sorridere un uomo ridotto a pura merce di scambio
valutata in base a parametri puramente tecnici o di tornaconto
finanziario? E noi sappiamo che se all’uomo viene tolto il sorriso che,
unico, lo definisce, distinguendolo dagli altri esseri creaturali, non
gli resta altro che detestarsi finendo inevitabilmente nei labirinti
indicibili che chiamiamo droga, alcoolismo, depravazione, asocialità, in
gente che si lascia andare nelle forme più varie popolando i
marciapiedi, i sagrati delle Chiese, le pensiline delle stazioni e
spesso addirittura i cunicoli delle nostre fognature. Si può immaginare
un degrado più umiliante e umiliato di questo? Eppure tutto questo cade
quotidianamente sotto i nostri occhi in questa “nuova” Europa.
d.
La fuga nel soggettivismo dovuta forse a una certa demoniaca
trasformazione del vizio in virtù. Dal momento che “è permesso tutto a
tutti”, l’unico valore che rimane è quello di affermare la
propria individualità soggettiva, la comprando gli altri o
vendendo se stessi poco importa, pur di essere ahead, come si
dice in America, cioè pur di essere i primi e “primeggiare” sugli altri
con battaglie e guerre estremamente aggressive giustificate come
“preventive”.
Il
concorrente va battuto sul tempo e bruciato prima possibile e in modo
che non si rialzi più. Il principio pedagogico di prevenire si è
trasformato in diritto a “fare guerre preventive” da parte di un
qualunque potere che intenda conservare a oltranza i propri diritti o
privilegi acquisiti e lo status quo, oppure che si senta investito di
una missione vagamente “messianica”, per garantire la democrazia e la
“salvezza” – qualche volta la chiamano proprio così – di tutti gli
altri.
e. Un’esperienza di angoscia,
che attraversa l’uomo fino dall’infanzia, insieme con una paura
permanente di tutti e di tutto, perfino di se stessi. Espropriati
dell’intimità, pressati dai mille volti del potere subdolo dei
mass-media, della moda, delle ideologie politiche – universaliste,
nazionaliste o regionaliste poco importa – e del fanatismo religioso, ma
soprattutto dal desiderio smodato del denaro e dall’imperativo
categorico ad essere comunque il primo, a qualunque costo, gli uomini e
le donne di questa nostra Europa contemporanea, esplodono in grida
incontenibili che sfociano, molto più frequentemente di quanto noi
pensiamo, in psicosi inguaribili e mortali.
L’angoscia è il frutto amaro del soggettivismo che lascia
irrimediabilmente soli di fronte al vacuum di un’esistenza in cui sono
stati feriti a morte i valori primari della relazione libera e
affettuosa con gli altri, del pudore dei propri sentimenti e segreti,
dell’apertura all’Altro con la A maiuscola, depositario delle nostre
gioie e delle nostre lacrime e fonte provvidenziale della nostra
speranza e della nostra vita, orientata alla felicità.
f. Rifugio nell’indifferenza,
percepita come scelta protettiva o come salvagente in un mare che non si
ha più il coraggio di attraversare. E’ stato smarrito il desiderio di
lottare e di appropriarsi responsabilmente della propria vita, ma è
svanito pure il gusto di un antagonismo sano che permetteva di porsi
sullo stesso livello dell’altro nell’atto stesso in cui si tentava di
contestarlo o di dialogare con lui da pari a pari. Vivi e lascia vivere
sembra costituire l’unico atteggiamento condiviso da tutti o dalla
maggioranza. Il cartello più in vista è non disturbare. I valori
sembrano tutti uguali senza più gerarchia fra valori essenziali,
vitali e secondari. La fedeltà per tutta la vita, per esempio, non
sembra essere di casa più da nessuna parte: né nella vita di coppia o di
famiglia, né nelle scelte operative legate al lavoro o a qualche
interesse, né nelle opzioni confessionali o religiose. Una scelta di
vita vale l’altra e tutto è vissuto nella più completa e mobilissima
precarietà. Ci si tuffa in mare con il salvagente e gli sports che
attraggono di più sono quelli che garantiscono emozioni anche forti, ma
con solide cinture di sicurezza, che permettono di far finta di aver
rischiato la vita senza averla esposta in fondo più di tanto.
g. Sperimentalismo ad oltranza.
Permettersi di assaggiare tutti i sapori possibili che può offrire la
vita, compresi quelli più mistici e spirituali, senza lasciarsi prendere
mai completamente da nessuno di essi; questa sembra la filosofia
dominante.
L’indifferenza si coniuga perciò con l’instabilità e l’impulso
irresistibile a conoscere e sperimentare cose nuove. Non è il valore che
conta. Ciò che conta è la novità. Ci si imbarca a ogni fine stagione in
viaggi e in crociere che permettano di provare emozioni peregrine di
ogni tipo, censurando o tacitando all’origine qualunque tipo di dubbio
sul valore culturale o sulla valutazione morale delle scelte fatte.
In
verità non interessa l’altro o la sua differenza o diversità;
interessa invece il bottino che riesco a fare delle cose dell’altro, un
bottino però che poi cesserà di essere ritenuto prezioso, e finirà
semplicemente in soffitta, quando, esaurita tutta la sua carica di
novità, farà posto inevitabilmente al nuovo viaggio già progettato per
il prossimo anno.
Dalle Riforme alla Rivoluzione
Riprendendo il discorso nel successivo Capitolo Generale del 2002,
avemmo l’occasione di approfondire ulteriormente le nostre letture della
postmodernità, nel tentativo di capire qualcosa di più sull’uomo di oggi
e sulla storia umana3.
Constatammo, a proposito della “novità” legata alla “modernità”, che
anche la Chiesa e i movimenti cristiani apparivano indubbiamente ai loro
inizi come “novità”. Uno degli sforzi più seri che dovettero fare i
Padri apologisti cristiani, per farsi accettare dalla cultura dominante
greco-romana, era stato infatti quello di dimostrare che ciò che
appariva come novum et inauditum di fatto coincideva col quod
semper, quod ubique, quod ab omnibus creditum est, se è lecito
citare fuori contesto questa formula utilizzata da Vincenzo di Lerins
nel V secolo.
Nel
Mediterraneo greco-romano il cristianesimo veniva dunque avvertito come
“modernità” che innovava sull’ “antichità” ereditata dalla cultura dei
Greci e dei Romani.
Le cose
si sono capovolte solo quando, dopo aver conquistato alla propria
visione del mondo gli uomini e le istituzioni del bacino del
Mediterraneo, il cristianesimo aveva ormai permeato di sé e dei propri
valori almeno un millennio della storia umana trasformando molti popoli
in nazioni definite “cristiane”.
Soprattutto a partire dalle nuove scoperte oltre-oceaniche e in
particolare dal XVII secolo in poi, il cristianesimo e i suoi valori
cominciarono ad essere ritenuti sinonimi di antichità, mentre valori
nuovi venivano proposti e fatti propri progressivamente dall’Europa e
dall’intero mondo occidentale, come sinonimi di modernità.
Gli
animi più sensibili avevano avvertito assai per tempo la presenza di uno
spirito nuovo che soffiava sopra il mondo cristiano e avevano tentato di
tenerne conto per “svecchiare” la Chiesa, proponendo riforme che si
caratterizzavano come un deciso e radicale ritorno alle fonti o alle
origini della Chiesa cristiana o della vita monastica.
Nel
passaggio dal primo al secondo millennio, riforme radicali di questo
tipo investirono sia le istituzioni ecclesiastiche – si pensi alla
cosiddetta Riforma gregoriana di Gregorio VII – sia le istituzioni
monastiche. Nomi di rilievo in questo campo furono Pier Damiani,
Romualdo di Ravenna, Giovanni Gualberto di Firenze e poi più tardi Bruno
della Grand Chartreuse e Bernardo di Chiaravalle in Francia. Appena un
secolo più tardi, nella stessa scia si posero, pur con un’accentuazione
assolutamente più forte e più decisa sulla novità, lo spagnolo Domenico
di Guzman e l’italiano Francesco d’Assisi, con tutta la carica
“rivoluzionaria” che li accompagnava. Una carica che divenne
prorompente, in altri tentativi di ritorno alle origini che ebbero luogo
dal XVI secolo in poi, sia con la Riforma dei Protestanti europei, sia
con la Controriforma della Chiesa cattolica uscita dal Concilio di
Trento.
«In
realtà», ci diceva Giorgio Bonaccorso, un monaco benedettino preside
dell’Istituto di Liturgia Pastorale a Padova, «l’epoca che definiamo
moderna ha prodotto una concezione della società che porta dalla
riforma alla rivoluzione.
L’idea
di novità, soprattutto a partire dalla rivoluzione francese, non si
qualificò più come un ritorno a fasi precedenti della storia, ma come
abbandono di tale passato anche in ciò che, per il suo valore normativo,
era chiamato tradizione: con la modernità si ha la novità senza
tradizione… Vi sono ovviamente molti altri aspetti della cultura
moderna; si pensi, per esempio, alla rilevanza assunta dalla sfera
individuale e dalla libertà soggettiva, come pure all’importanza della
razionalità… e dell’ autorità della scienza rispetto a qualsiasi altra
autorità… La questione centrale è costituita in ogni caso dalla
concezione del rinnovamento come rivoluzione, dove la novità non viene
più legittimata ricorrendo alle fonti, alle origini o alla tradizione4.
Domande aperte
«È
pensabile per un fenomeno culturale», compreso quello che caratterizza i
nostri Ordini religiosi, «esibire un’identità che non mutui almeno
alcune caratteristiche fondamentali dal passato?». D’altra parte, come
«integrare in quella identità anche ciò che non è mai esistito appunto
nel passato»?5. Sono gli interrogativi con cui apriva il dibattito del
nostro Capitolo 2002 lo stesso don Giorgio Bonaccorso, ma sono anche le
domande che interessano noi oggi qui, in questa nostra Assemblea.
Vediamo
di farcene carico, con l’aiuto di questo specialista e di alcune
riflessioni del cardinale Walter Kasper, abbozzando anche qualche
risposta.
I punti
nodali del postmoderno possono sostanzialmente essere riassunti, secondo
Giorgio Bonaccorso, in:
a. «Una nuova sensibilità
tanto verso l’ambiente naturale quanto verso i gruppi sociali»6.
Una maggiore disponibilità dunque a farsi ferire il cuore dalla
“compassione” verso tutte le creature e naturalmente anzitutto verso
l’uomo che non gode né di benessere, né di bellezza, né di gioventù.
La
differenza è una delle parole d’ordine della cultura postmoderna. Anche
il cristianesimo antico e il mondo moderno avevano il senso della
differenza… ma la postmodernità compie un passo decisivo verso
l’abbandono di ogni riferimento universale e necessario…, così facendo
relativizza tutto, promovendo una novità radicale…
Il sé
postmoderno si pensa come un’entità discontinua costantemente plasmata e
riplasmata in un tempo neutro… un pluralismo che spesso si trasforma in
vuoto ideologico, nell’assenza di ogni senso e di ogni orientamento.
Non vi è
alcuna formulazione che possa esaurire la verità, perché non vi è nessun
grande racconto che orienti in modo fondativo l’esistenza.
Il
pensiero risulta inevitabilmente debole, ossia «un infinito gioco
interpretativo che non raggiunge mai un referente forte»7.
b. Il cardinale Walter Kasper (in
una conferenza tenuta a Rovereto il 17 marzo 1997 nell’ambito del
convegno per il Bicentenario della nascita di Antonio Rosmini e
pubblicato dalla rivista Humanitas), dopo aver richiamato l’attenzione
sul fatto che «il concetto di postmoderno non è assolutamente unitario
neppure sotto il profilo filosofico»8, aveva tenuto a precisare, da
parte sua, che «non è ambiguo solo il concetto di postmoderno, ma anche
quello di modernità…». In realtà anche «le diagnosi sulla modernità»,
osservava il cardinale, «possono risultare antitetiche: la modernità può
essere concepita, da un lato, come pretesa esagerata di totalità del
pensiero; dall’altro come processo di progressiva differenziazione. A
seconda della “diagnosi” formulata, la “terapia” postmoderna si
configura infatti o come abbandono di ogni pretesa totalizzante, oppure,
– è il caso del movimento del New Age – come ricerca di una nuova
integralità»9.
E
concludeva: «Il problema dell’unità e della molteplicità si pone in
realtà come prima questione essenziale nell’ambito di discussione della
filosofia del postmoderno.
La
decostruzione postmoderna delle pretese totalizzanti della modernità
comporta, inoltre la necessità di un’indagine critica della pretesa di
totalità della ragione scientifica, cui dovrebbe far seguito la
rivalutazione di due altre modalità del pensiero: l’estetica e la
mistica10.
Il
cardinale concludeva ricordando che il postmoderno va preso sul serio e
aggiungendo che «la prima grande sfida è quella di trovare una giusta
via al di là del fondamentalismo e del relativismo, del rigorismo e del
lassismo, per operare una mediazione tra il senso della identità e
l’apertura al dialogo»11. La rivisitazione del modello trinitario – che
appartiene al cuore stesso della vita e della teologia della Chiesa –
potrebbe fornire, per esempio, contenuti essenziali, «col suo simultaneo
rispetto dell’unità e della pluralità, per rispondere a certe
provocazioni postmoderne»12.
A
proposito poi del carattere estetico del postmoderno, spinto fino alla
relativizzazione della ragione scientifica, il cardinale rilevava che
«dove le cose rimangono a tal punto indifferentemente l’una accanto
all’altra, vi è il grande pericolo che la professione di pluralità e
tolleranza si corrompa in indifferenza e disinteresse»13, fino a quell’abbandono
della “comunicabilità” che riduce la vita a puro “rapporto estetico” in
cui si permette che gli oggetti agiscano sull’uomo «in maniera più o
meno eclettica, imponendo una loro com-presenza nell’esperienza del
singolo anche quando sono chiaramente contraddittorie fra di loro»14.
Nella
“nuova religiosità” caratterizzata dall’eclettismo si riscontra
certamente in positivo, una rinnovata esigenza mistica fondamentale che
offre all’annuncio e alla pastorale cristiana notevoli possibilità; ma
si deve riconoscere anche che questa “religiosità” fluttua liberamente,
rifuggendo soprattutto le istituzioni. Infatti si pone in un rapporto
estetico con le altre religioni mondiali, desumendo elementi dalle
diverse tradizioni religiose, a seconda della felicità che se ne attende
e dell’aiuto che se ne spera… «E’ una religiosità che non si esprime
quasi mai in affermazioni dottrinali, ma è spesso imbrigliata da una
fede vaga e diffusa in una “forza superiore”; una religione tutto
sommato ampiamente senza Dio»15.
Di
conseguenza per un credente in Cristo l’incontro tra il cristianesimo e
le religioni non si può comprendere solo con categorie cognitive ed
estetiche, ma deve comportare anche la consapevolezza della dimensione
drammatica – sia pure all’interno di una sincera condivisione dialogica
– la presenza di concetti come quelli di conversione, scelta,
testimonianza, partecipazione, generosità. In concreto occorre rendere
tangibili il dialogo e l’annuncio come due aspetti di una stessa
missione16. Ed esige i suoi diritti anche la dimensione etica17.
Il tutto naturalmente perseguito con estremo rispetto delle scelte
dell’altro, ma anche con pazienza senza che venga mai meno la speranza
che prima o dopo, grazie al dono di Dio, si potrà realizzare un mondo in
cui sia possibile fruire dell’unità nella pluralità sperimentati
simultaneamente nella pace.
Con
l’incarnazione di Cristo, la sapienza di Dio – in cui tutto è stato
creato –, ha fatto il suo ingresso nella storia in tutta la sua
pienezza. Dio ha così rivelato se stesso in Gesù Cristo… alfa e omega,
asse e punto di convergenza dell’intera storia dell’umanità…
La
comprensione cristiana della storia non è un mito, e neppure una
“meta-narrazione” (un grande racconto), ma memoria passionis, ricordo
attuativo (paradosis) della morte e della risurrezione di Cristo…
Nella
forza della speranza, la comprensione cristiana della storia commemora
il ricordo del dolore altrui e prende sul serio l’esperienza della
sconfitta, come tiene irremovibilmente ferma la speranza nel compimento
definitivo18.
La vita religiosa nella “nuova” Europa
Credo
che si possa partire da queste ultime osservazioni del card. Kasper per
individuare alcuni elementi che potrebbero caratterizzare la vita
religiosa nella “nuova” Europa nel contesto della dialogicità alla quale
ha richiamato in tanti modi il Concilio Vaticano II19.
a. Fondamento di ogni possibile
incontro fra le proposte della vita religiosa e la realtà dell’Europa
contemporanea non può non essere anzitutto la memoria
passionis et resurrectionis Domini. E’ il Kerigma cristiano. E’ il
nostro Kerigma. La nostra stessa vita di consacrati, prima ancora che le
nostre parole, è chiamata a essere memoria vivente e attuativa del
memoriale della Pasqua.
Da qui
una riappropriazione forte e determinante della nota eucaristica che
deve caratterizzare la vita di ogni nostra comunità religiosa. Se la
celebrazione eucaristica va ritenuta fons et culmen di ogni altra
manifestazione della Chiesa, a fortori essa deve essere riconosciuta
come fons et culmen di ogni manifestazione di vita consacrata.
E’
opportuno però ricordare che il Concilio parla di Eucaristia celebrata,
cioè di quell’evento celebrativo che realizza nell’oggi di Dio quella
comunione profonda dei diversi nell’unità che permette di testimoniare
efficacemente, di fronte alle negazioni della postmodernità, che è
possibile vivere le diversità non come dirompenti e inconciliabili fra
loro, ma come fattori della manifestazione multiforme dell’unità
comunionale.
L’Eucaristia celebrata è memoriale della passione-morte-resurrezione di
Gesù, proposto dentro una comunità che è l’immagine permanente del
mistero trinitario in mezzo alla storia e all’umanità.
Essere
comunità cristiana significa allora impostare tutti i rapporti interni
ed esterni alla comunità a partire dall’immagine eucaristica, in modo
tale che chiunque possa riconoscere, dallo stile di vita dei singoli e
dell’insieme, i lineamenti precisi di colui che, offrendo se stesso, si
è fatto sacerdote, altare, vittima e sacrificio per dare al mondo la
salvezza e la felicità, in rendimento continuo di grazie al Padre nello
Spirito Santo.
b. Il tesoro da custodire
gelosamente nel cuore, per arrivare ad essere ciò che abbiamo appena
delineato, potrebbe essere individuato a questo punto in ciò che
Giovanni Cassiano avrebbe chiamato Arca in cui sono custodite le tavole
della Legge, cioè le Scritture nelle quali abita e dalle quali alita lo
Spirito stesso di Dio. Infatti l’unica energia capace di realizzare il
simultaneo rispetto dell’identità personale di ciascuno e le esigenze
della comunione e dell’unità è quella garantita dalla quotidiana
frequentazione della Parola di Dio.
Quest’ultima
poi, lungi dal compiacere una tranquillitas ordinis che permetta
di vivere indisturbati nel disimpegnativo “credere di credere”, è
piuttosto spada a doppio taglio capace di immergersi fino nel midollo
delle ossa, discernendo e distinguendo drammaticamente fra ciò che
appartiene all’uomo vecchio, da strappare e da buttare nel fuoco, e ciò
che, unico, deve essere condotto alla luce e alla crescita, perché
fruttifichi negli spazi nuovi del Regno preparato dal Padre (cf Mt 25).
Ascolto
quotidiano della Parola significa insomma esposizione costante alla luce
tagliente e al fuoco esigente della conversione continua. Significa
assenza di ogni compromesso che dovesse comportare una svendita del dono
prezioso della fede e tanto meno abdicazioni, più o meno accomodanti, a
proporre e testimoniare con franchezza al mondo lo spettacolo tragico di
Cristo crocifisso.
c. Il dialogo, che siamo
chiamati a vivere da credenti che hanno fatto la scelta della radicalità
evangelica, non assumerà mai i contorni di un pacifismo ad oltranza che
possa essere anche solo minimamente proposto o costruito sulla
menomazione, l’indebolimento o tanto meno la negazione di quei valori
che, in quanto cristiani, abbiamo riconosciuto presenti nella sapienza
inaudita che accompagna l’altrettanto inaudito scandalo della croce di
Cristo.
Il mondo
nuovo che, in quanto credenti in Cristo crocifisso e risorto, intendiamo
proporre alla nuova Europa col nostro semplice “esserci”, prima ancora
che con le nostre opere e le nostre parole, sarà perciò un mondo abitato
in ogni angolo dalla speranza dei «cieli nuovi e della terra nuova» i
quali trovano proprio nella constatazione del vacuum e del non senso del
pensiero debole, in cui è venuto a trovarsi questo vecchio mondo, figlio
della modernità, il presupposto paradossalmente ideale in cui possa
essere gettato con gioiosa speranza il seme della bella notizia del
Vangelo con l’annunzio luminoso della Risurrezione di Cristo.
d. La bellezza che portiamo
nella nuova Europa, quella bellezza che certamente salverà il mondo, si
dovrebbe riflettere sui volti di ciascuno dei consacrati evangelici e
dovrebbe irradiare dalle nostre comunità, perché «vedano le vostre opere
buone o glorifichino il Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5,16). Ma noi
sappiamo anche che questa “visione” sarà possibile solo se la nostra
luce sarà luce autentica, simile a quella che, secondo il Vangelo,
«viene accesa non per essere nascosta sotto un tavolo, ma per essere
posta sopra il candeliere così che illumini l’intera abitazione» degli
uomini (cf Mt 5,15; Mc 4,21; Lc 8,16).
Siamo
stati chiamati, in quanto religiosi consacrati, a infrangere il nostro
vasetto di unguento prezioso sul capo del Signore (cf Mc 14,3), non
soltanto perché sia come «l’olio profumato versato sopra il capo di
Aronne e che finisce fino a intriderne la sua fluida barba» (Sl 132), o
come il nardo prezioso che Maria, la sorella di Lazzaro, utilizzò un
giorno per versarlo sui piedi di Gesù, asciugandoli poi con i suoi
capelli, ma perché sia anche «il profumo che si espande liberamente
nell’intera casa» (cf Gv 12,1-3).
Credo
che sia proprio questo il compito al quale ci sta chiamando il Signore
in questa nuova Europa: essere come «città posta sul monte» che doni
orientamento sicuro a tanti contemporanei che vagano, senza voglia né
meta, nella depressione delle nostre valli (cf Mt 5,14).
e. Il postmoderno ha forse fatto
toccare agli europei o agli occidentali il fondale di un abisso dal
quale soltanto un nuovo berashit della Parola di Dio potrà
definitivamente sollevarli.
Forse è
stato dato proprio a noi, che condividiamo questa stessa sorte, insieme
con le donne e gli uomini della nostra generazione, di annunziare con
franchezza, gioia, libertà, amore, la Parola che salva e riapre all’uomo
gli orizzonti nuovi di una vita nutrita di speranza.
Ma come
assolveremo un compito tanto difficile, deboli e limitati come siamo?
Non ci afferra forse lo sgomento al punto a imporci di dire, senza falsa
umiltà, ma con piena consapevolezza e verità: «Signore non sono capace,
non sono in grado, non sono degno». Oppure, facendo nostre le obiezioni
di Mosè: «Non mi crederanno, non ascolteranno la mia voce, ma diranno:
Non ti è apparso il Signore!» (Es 4,1) «Non sono un buon parlatore; non
lo sono mai stato prima e neppure da quando hai cominciato a parlare col
tuo servo. Sono impacciato di bocca e più ancora di lingua» (Es 4,10).
Se siamo
ancora credenti, se abbiamo appena un po’ di fede, quanto un granellino
di senape, sappiamo però anche cosa rispose il Signore: «Chi ha dato una
bocca all’uomo? Chi lo rende muto o sordo, veggente o cieco? Non sono
forse Io, il Signore? Ora va! Sono Io con la tua bocca e ti insegnerò Io
quello che dovrai dire» (Es 4, 11).
Buon per
noi se, imitando Mosè, ci armeremo di estrema fiducia in Lui, nonostante
tutti i nostri travagli, i nostri dubbi, i nostri scetticismi e la
nostra angoscia, rispondendo sereni: «Perdonami, Signore mio, manda chi
vuoi mandare tu» (Es 4,13), e, se lo ritieni opportuno, eccoci, siamo
qua, puoi mandare anche noi.
Indicazioni conclusive
A
conclusione di queste riflessioni, mi permetto di sintetizzare nei punti
seguenti alcune indicazioni che aiutino tutti a ripensarsi come
“religiosi” nella nuova Europa:
Una contestazione visibile della cupidigia e dell’idolatria del denaro.
L’esempio di Madre Teresa di Calcutta.
Un recupero della stabilità nel senso proprio di mettere radici
solide in un determinato luogo, per stabilire legami veri e duraturi con
la gente condividendone gioie e dolori, fatiche e speranze. E dunque
attento discernimento nel decidere spostamenti o dislocazioni di opere e
di persone. L’esempio dei monaci trappisti di Tibhirine in Algeria e dei
numerosissimi missionari e missionarie che hanno scelto di condividere
la povertà, le malattie e la guerra presenti nei territori nei quali
sono stati inviati, fino al rischio del sacrificio supremo della vita,
hanno fatto riflettere molto non credenti e laici in questi ultimi anni.
Rinuncia all’efficienza ad oltranza, soprattutto quando certi
criteri di conduzione delle comunità e delle Congregazioni rispondono
più ad esigenze tecniche che non ai bisogni veri delle popolazioni in
mezzo alle quali si è stati inviati.
Essere per gli altri. Il primato dell’amore generoso verso gli altri può
comportare un “perdere la propria vita” aspettando di riceverla di nuovo
come “salvata” dalle mani del Signore e non dalle nostre tecniche
autodifensive dettate, in modi più o meno scoperti, dal primato dell’io
a scapito del primato del noi o della comunione.
Il modo
migliore di contestare l’egoismo individualista del postmoderno è
infatti dato da esempi concreti di spoliazione di sé e di abbandono
totale nelle mani di Dio, le quali si identificano con le mani di tutti
coloro nei quali si nasconde il volto misterioso del Figlio dell’uomo
che dirà: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei miei
fratelli più piccoli, le avete fatte a me» (Mt 25,40).
Da qui
il radicale negarsi, da parte dei religiosi di qualunque carisma, ad
ogni pur minimo tentativo di strumentalizzazione o di sfruttamento
dell’altro soprattutto quando l’altro non ha i mezzi fisici,
intellettuali, economici o istituzionali per difendersi dalla facile
sopraffazione dei più forti.
Perseguimento dell’interiorità con conseguente rinuncia ad
apparire, sviluppando un sano spirito critico, attinto al quotidiano
confronto col modo di essere, di insegnare e di operare di Gesù così
come ci viene proposto dal Vangelo e dalla riflessione di Paolo. Si
gioca forse soprattutto su questo punto la credibilità della proposta
“religiosa” nel contesto culturale del postmoderno che, come abbiamo
visto, pone nell’appariscenza, nella scenografia e nel fare audience a
tutti i costi la ragion d’essere stessa di una qualunque proposta
ritenuta valida.
La “vita
religiosa” – a differenza forse di alcune esigenze proprie della “Chiesa
istituzionale” – dovrebbe non dimenticare mai di essere stata voluta
dallo Spirito santo per essere nella Chiesa, e conseguentemente nel
mondo, l’immagine permanente del “Crocifisso” abbandonato da tutti e
lasciato solo perfino dal Padre, perché fosse chiaro al mondo intero che
non sono le opere dell’uomo, neppure dell’uomo religioso, quelle che
salvano l’umanità limitata e decaduta, ma è soltanto l’opera di Dio.
Annunziare al mondo l’efficacia dell’inefficiente, la potenza
dell’impotenza, e la sapienza della stoltezza, appartiene al cuore
stesso di ogni forma di vita religiosa. Non contestano forse tutti i
religiosi con la povertà, la fiducia nel denaro; con la castità
l’assoluto della fecondità umana a tutti i costi; e con l’obbedienza
l’espropriazione dell’ego e di ogni forma di auto affermazione
dell’uomo?
Ritorno
alle fonti della Scrittura e dei Padri. Il postmoderno, e lo abbiamo
visto, è pretesa di poter fare a meno del passato giudicato di fatto
soltanto come costrizione e peso di cui liberarsi prima possibile e nel
modo più radicale possibile. L’antidoto a simili pretese è certamente
una sana valorizzazione della Tradizione con la T maiuscola. Una
Tradizione che però, in ultima analisi, permette di ritornare a quell’unica
fonte originaria di ogni tradizione, che è costituita dalla Scrittura
ricevuta dalle mani degli Apostoli, criterio permanente di discernimento
critico di qualsivoglia forma di vita religiosa cristiana.
Il
ritorno alla comunità apostolica di Gerusalemme, così come viene
descritta da Luca nel suo libro degli Atti, è una costante dalla quale
nessuna realtà cristiana potrà mai prescindere.
L’archétipo della comunità monastica, creato e proposto durante
le prime generazioni cristiane, diviene a sua volta necessario punto di
riferimento e di confronto di ogni successiva forma con cui dovrà essere
vissuta la radicalità evangelica nella storia, fino alla fine dei
tempi20.
L’idolatria della novità a tutti i costi, che si traduce nel
giovanilismo, per cui è degno di attenzione soltanto il nuovo e chi
riesce a primeggiare, perché dotato di bellezza, gioventù, benessere, è
una delle tentazioni più subdole da affrontare. Tuttavia credo che la si
possa superare senza cadere nella demonizzazione di valori che
appartengono per definizione al progetto voluto e perseguito da Dio
lungo tutta la storia della salvezza umana.
Credo
invece che si possa affrontare e vincere questa tentazione relazionando
questi stessi valori con il resto della realtà creaturale. In quali modi
concreti? Per esempio educando se stessi, e conseguentemente gli altri,
a percepire la sete di bellezza che si cela in ogni essere creaturale al
di là della corrispondenza o meno delle intuizioni avute ai canoni
cosiddetti “convenzionali” della bellezza, che oltretutto mutano con
estrema celerità, perfino nelle nostre comunità religiose, sotto gli
imperativi dominanti della moda.
Le arti liberali sono il segno più evidente della diversità
dell’uomo rispetto ad ogni altro essere creaturale. Perché non dare più
spazio, all’interno dei nostri rispettivi carismi, alle capacità
artistiche che caratterizzano tanti nostri religiosi e suore, senza
piegarle necessariamente all’efficienza immediata richiesta dalle nostre
scelte pastorali? Quante depressioni e nevrosi insanabili si sarebbero
potute evitare nelle nostre famiglie religiose se non fossero state
negate, vilipese, ironizzate, segnate a dito come stravaganze o hobbies
inutili, le capacità artistiche, molte volte notevoli, di tanti loro
membri finiti nella vacuità! E naturalmente ciò che dico delle capacità
artistiche vale anche per ogni altro tipo di capacità, comprese quelle
fisiche e intellettuali.
I giovani possiedono evidentemente delle risorse che non vanno in
alcun modo sprecate bensì poste generosamente, senza invidie, senza
gelosie, a servizio non solo delle nostre piccole comunità o
Congregazioni, ma della Chiesa intera e dell’umanità. Sprecare forze
giovanili, che potrebbero essere meglio impiegate nel gioioso
allargamento del Regno di Dio, per garantire pigrizie più o meno
ammantate di necessità dovute a malattie vere o immaginarie, dovrebbe
essere considerato un non-senso da non ammettere in comunità. Dovremmo
infatti ricordare con timore e tremore, soprattutto in questi casi,
l’invettiva di Gesù in Mt 23,15: «percorrete il mare e la terra per fare
un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il
doppio di voi».
Tutto
questo ci permette di tenere presente la terza nota caratteristica della
postmodernità: il benessere perseguito ad oltranza. Siamo vittime tutti
– ed è inutile tentare di nasconderci dietro il dito – di questa
costante del mondo occidentale. Non ci vergogniamo affatto di
pretendere, difendere, proporre, e qualche volta imporre, il nostro
stile di vita, appunto occidentale, anche quando ci ritroviamo a
testimoniare i nostri rispettivi carismi nel secondo, nel terzo o nel
quarto mondo.
Certi
conforts conquistati a fatica, e assolutamente legittimi nella parte
occidentale del mondo, sono diventati a tal punto un’abitudine e una
necessità, da non riuscire più a farne a meno. Ma forse proprio in
questo ci giochiamo ineluttabilmente la nostra credibilità nei confronti
degli altri. Io stesso rimango in dubbio su cosa ammettere e cosa
evitare, e il dove e il quando e il come, a proposito di un ambito tanto
delicato, ma una cosa mi sembra in ogni caso evidente: dovremmo essere
più capaci di essenzialità, semplice sì, ma piena di calore e di
bellezza, sia nei nostri modi di essere personali, sia nei nostri
ambienti comunitari, nelle celebrazioni liturgiche e nei servizi vari
che offriamo. Virtù suprema, in questo caso, è certamente il sano
discernimento che dovrebbero avere non tanto i responsabili generali,
quanto le singole comunità locali.
Il rischio dell’eccentricità. Abbiamo visto che una delle note
caratteristiche del postmoderno consiste nell’impressionare, stupire,
urtare, atterrire la gente. Basta osservare come “abbelliscono” – si fa
per dire – il loro corpo con vestiti, amuleti, piercing, tatuaggi e cose
varie i giovani e non più giovani delle nostre piazze. Il desiderio di
attirare l’attenzione e di fare spettacolo può rasentare qualche volta
il ridicolo soprattutto se a fare tutto questo sono giovani religiosi
convinti che sia questa la strada da percorrere per far breccia nel
cuore dei loro coetanei. Anche in questo caso non credo sia giusto
ironizzare né tanto meno demonizzare nessuno. La tradizione francescana
ha, per esempio, una lunga storia positiva in questo ambito. San
Francesco, san Filippo Neri, san Giovanni Bosco e tanti altri sono
davanti a noi quasi come prototipi di una simile scelta pastorale. E dal
confronto con loro e con i loro metodi e contenuti di fondo credo che
potremo ricevere indicazioni utili per un sano discernimento in questo
campo. In tempi e luoghi appropriati, purché in tutto siano
salvaguardate la purezza della fede e le esigenze della carità, mi
sentirei felice di avere in comunità giovani e meno giovani creativi e
fecondi come i santi che ho appena citato, anche a costo di dover
accettare una certa quota di eccentricità.
La comunità religiosa immagine viva e permanente della
comunione trinitaria. Mi sembra, questa, la proposta per eccellenza
che nessuna comunità religiosa, quale che possa essere il suo carisma
specifico, dovrebbe assolutamente trascurare.
Abbiamo
notato che la fuga nell’individualismo soggettivo è una delle tendenze
permanenti della cultura postmoderna. Questo, che può apparire un
aspetto soltanto negativo della cultura contemporanea, nasconde però la
sete di un valore estremamente grande, che non possiamo ignorare: la
dignità della persona umana. E mi perdonerete se, su questo punto, mi
permetto di ricordare di fronte a voi l’insegnamento che ho ricevuto da
un nostro padre anziano, recentemente scomparso, che si chiamava don
Benedetto Calati del quale ho scritto ripetutamente nei miei tre
quaderni di Camaldoli intitolati Camaldolesi nella spiritualità italiana
del Novecento, pubblicati con le EDB di Bologna negli anni 2000-2002.
Per ciò che riguarda l’accentuazione, tipicamente postmoderna, delle
identità pluraliste e delle differenze direi che gli Ordini
religiosi, visti tutti insieme, ne sarebbero una prova lampante. Il
problema si pone invece, e diventa grave, quando una simile “identità
pluralista” viene affermata a livello della singola persona umana che
dice di sé: “io sono una e centomila”, aggiungendo che, appunto per
questo, non si può neppur lontanamente pensare di potersi legare a una
scelta definitiva per la vita, perché questo priverebbe la persona –
così si dice – della libertà di cambiare, mutandosi in una delle altre
novantanovemila identità nelle quali è contenuto l’intero!
Il
rispetto delle differenze è divenuto per tanti anelito a diversificarsi
cambiando identità ad ogni stagione della vita come i serpenti cambiano
pelle col mutarsi delle stagioni annuali.
E’ ormai una realtà, in tante congregazioni e monasteri maschili e
femminili, la presenza di quarantenni e oltre nei noviziati, che
una volta ospitavano solo dei teenagers o al massimo di giovani
dai venticinque ai trent'anni.
Sono le
vocazioni dell’era postmoderna con le quali occorre fare i conti
nell’Europa del prossimo futuro. Presto l’organizzazione del
tradizionale periodo formativo dei candidati alla vita religiosa dovrà
affrontare dunque problemi del tutto inediti nei quali sarà necessario
verificare anzitutto se si è di fronte a conversioni autentiche o
semplicemente a uno dei tanti assaggi di esperienze nuove ed exciting,
come si dice in inglese, che darebbero un sapore momentaneamente diverso
al palato desideroso di non perdere nessuna occasione della vita, sempre
pronti ad assaporarne un’altra.
L’apertura al dialogo col diverso trova in questo contesto il suo
humus più fertile, ma corre anche il rischio più pericoloso. Queste
nuove vocazioni possono appartenere infatti indifferentemente sia alla
fascia dei quarantenni disgustati della vita precedente, contro la quale
intendono reagire con durezza e determinazione fondamentalista; sia alla
fascia di coloro che, avendo cavalcato tutte le esperienze, religiose e
non, intendono proseguire imperterriti sulla stessa linea, coinvolgendo,
ove possibile, le comunità che li hanno accolti, pronti a gridare allo
scandalo della chiusura mentale o confessionalista, di fronte a un
rifiuto a seguirli per la stessa strada.
Potrebbe
essere opportuno allora prepararsi per tempo a rispondere, in questi
casi, richiamando l’estrema serietà che comporta ogni vero dialogo, così
come abbiamo sentito nelle precisazioni del Cardinale Kasper.
Il
senso di impotenza può trovare un antidoto, testimoniato con forza e
con chiarezza, dalla riscoperta del perenne valore monastico del
nascondimento e dell’insignificanza o inutilità, secondo i criteri del
mondo, dell’essere «absconditus cum Christo in Deo» (Col 3,3). Da cui il
valore di sentirsi frumentum Christi, secondo l’espressione di
sant’Ignazio di Antiochia, il quale proseguiva: «dentibus bestiarum
molar ut panis purus inveniar» (sarò triturato dai denti delle belve
per essere riconosciuto pane puro [del Signore]).
L’inutilità
riscoperta alla luce della richiesta evangelica: «Quando avrete
fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili.
Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10), potrebbe essere un
valore importante da riproporre proprio a quelle realtà religiose che
abitualmente si autodefiniscono di “vita attiva”. Non sembri una
provocazione. Si tratta infatti di accogliere con maggiore serenità la
fine di alcuni servizi di supplenza che, proprio grazie alla
sensibilizzazione perseguita per decenni, e in alcuni casi per secoli,
sono diventati parti integranti della politica sociale in moltissimi
paesi della nostra Europa, rendendo obsolete o comunque superate dallo
sviluppo sociale, servizi e prestazioni di ogni tipo che avevano giocato
un ruolo molto importante nella crescita, anche numerica, di tanta parte
delle Congregazioni religiose qui rappresentate. Ricordiamo ancora le
parole di Gesù registrate nel Vangelo di Giovanni: «In verità, in verità
vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo;
se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Dopo
tutto ciò che ci siamo venuti dicendo, mi permetto di chiudere
ricordando a tutte voi e a tutti noi che ogni forma di vita religiosa
cristiana, sia “attiva” che “contemplativa” o “mista”, non potrà mai
prescindere da quel vero e proprio archetipo della vita consacrata che
viene proposto negli straordinari testi di Luca in Atti 2, 37-38.42-47 e
Atti 4,32-35; fondamentali testi nei quali ogni consacrato ritrova gli
elementi portanti di quella apostolica vivendi forma che lo
distingue e lo immette nel cuore stesso della Chiesa.
1.
Maria Ignazia Angelini, «Non mi vergogno del Vangelo» (Rm 1,16).
La lettura delle Scritture, anima della spiritualità monastica di fronte
alle sfide del postmoderno, in Emanuele Bargellini, Camaldolesi ieri e
oggi. L’identità camaldolese nel nuovo millennio, Edizioni Camaldoli,
2000, pp. 88-90.
2.
2. E. Shockenoff, Etica della vita. Un compendio teologico,
Queriniana, Brescia 1997.
3.
3. Cf Ivan Nicoletto (a cura di) Monachesimo arrischiato. Per una
fede ospitale, Edizioni Camaldoli 2003.
4. Giorgio Bonaccorso, Sfidati dal presente, possiamo
essere una presenza sfidante?, in Ivan Nicoletto (a cura di),
Monachesimo arrischiato, Edizioni Camaldoli 2003, p. 12.
5. Ibidem, p. 12.
6. Ibidem, p. 13.
7. Così il Bonaccorso, o.c., pp. 13-14, con riferimento,
spesso letterale a G. Chiurazzi, Il postmoderno. Il pensiero nella
società della comunicazione, Mondadori, Milano 2002; K. Kumar, Le nuove
teorie del mondo contemporaneo. Dalla società post-industriale alla
società postmoderna, Einaudi, Torino, 2000; J.F. Lyotard, La condizione
postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1991; G. Vattimo,
Ricostruzione della razionalità, in Filosofia ’91, Laterza, Bari 1992.
8. Walter Kasper, La Chiesa di fronte alle sfide del
postmoderno in Humanitas n. 2, 1997, p. 173.
9. Ibidem, p. 174.
10. Ibidem.
11. Ibidem.
12. Ibidem.
13. Ibidem, p. 181.
14. Ibidem.
15. Ibidem.
16. Ibidem, p. 183,
17. Ibidem.
18. Ibidem, pp. 188-189, passim
19. Si ricordino soprattutto la Costituzione Gaudium et
Spes e le Dichiarazioni Dignitatis humanae, Nostra Aetate e Unitatis
Redintegratio.
20. Cf il mio articolo: Spiritualità monastica oggi, in
Gianfranco Brunelli (a cura di), Monachesimo, laicità e vita religiosa,
EDB, Bologna 1995, pp. 19-37.
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