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La crisi della modernità nei suoi sistemi e modi
di pensare
In questi ultimi anni si è scritto
moltissimo sulla crisi della modernità. Non è nostro compito in questo
luogo addentrarsi su tutto il panorama di questo fenomeno. Nondimeno
siamo tuttavia obbligati a richiamare l’attenzione su alcuni punti
cardine di questa crisi, quelli che riteniamo avere un nesso profondo
con il titolo dell’intervento.
A.
La crisi della razionalità. - La modernità è una visione, un
sistema di pensare, un modo di essere fondamentalmente caratterizzato
dall’importanza della razionalità. Ma una razionalità che le critiche
della modernità rivelano piuttosto come un riduzionismo. Dall’intera
sfera dell’intelligenza si estrapola il raziocinio come capacità
analitica e deduttiva e lo si pone come orizzonte prioritario, primario,
per non dire totale. Tale razionalità è diventata l’asse portante di
interi sistemi filosofici e metodologici. Si vantava di avere una certa
oggettività e infallibilità, ma un’epoca con questi presupposti ha
suscitato una reazione così violenta che difatti è finita in un
soggettivismo sentimentalista. Al posto del primato della razionalità
troviamo oggi quasi un’affermazione dell’assenza della razionalità,
dell’estrema debolezza della razionalità. Evidentemente dare sfogo al
sentimento e ai sensi che la razionalità prima non considerava non
significa automaticamente un recupero, un’evoluzione. Si tratta
piuttosto di essere in grado di riportare la razionalità all’ambito che
le è proprio, cioè all’interno di una visione globale e integra
dell’uomo e delle sue capacità conoscitive.
B.
La crisi della scienza. - Un pilastro della modernità era la
scienza, con la sua certezza e il dominio culturale che ne deriva. Ciò
che è scientifico ha credibilità e il metodo scientifico è la via regale
per giungere alla certezza. La crisi della modernità rivela nel campo
delle scienze una reazione molto simile a quella che si è vista per la
razionalità in genere. Come una razionalità intesa in modo così parziale
non è più in grado di addentrarsi nei contenuti della vita, del mistero
dell’uomo o, ancora di più, in contenuti superiori, lo stesso accade
alla scienza: diventa esclusivamente descrittiva, anzi persino si
difende, annunciando che non vuole parlare dei contenuti della vita,
perché non è un oggetto di sua pertinenza. Ed evidentemente i suoi
metodi non riescono a condurla a queste conoscenze. Così la scienza è
diventata una realtà isolata dal contesto antropologico e, ancor di più,
da quello spirituale. Una razionalità sganciata dal principio
dell’amore, dal principio agapico, spirituale, e una scienza che fa la
sua ricerca indipendentemente dalla visione integra della persona e
della vita inevitabilmente si rivelano persino pericolose per l’uomo.
L’atomizzazione e la settorialità delle scienze da un lato favoriscono
le condizioni della vita umana, agevolando il benessere dell’uomo, ma
dall’altro costituiscono una minaccia. La crisi della razionalità
moderna e dei suoi sistemi ha messo in crisi anche un tale approccio
scientifico.
C.
Delusione delle promesse della modernità. - La modernità faceva
leva sulla promessa della felicità individuale basata sullo standard
economico. Stranamente, più l’uomo raggiungeva un benessere economico,
più aumentavano le crisi dell’interiorità umana. Il benessere è stato
prospettato come frutto di lavoro, di impegno, di studio, di successo.
Ma siccome così non è avvenuto, la crisi della modernità cominciava a
prospettare la felicità individuale non più all’interno di un sistema di
lavoro sullo stile di quello della modernità, ma come un evento ludico,
come un gioco del piacere, un divertimento. E tutte le caratteristiche
dell’impegno, di fatica nell’affrancamento dai propri limiti, elaborate
nella modernità come mezzo per giungere alla felicità individuale, hanno
cominciato a saltare. La modernità si esaurisce in una insoddisfazione
di fondo dell’uomo moderno desideroso di altre vie, più semplici, di
soddisfazione.
D.
Illusione dell’antropocentrismo radicale. - La modernità come
società basata sul “progetto uomo” è in gran parte anche una reazione al
teocentrismo delle epoche precedenti. Non si può parlare della modernità
senza menzionare una certa ribellione dell’uomo a Dio, o meglio alla
religione, soprattutto quella giudeo-cristiana. La modernità come epoca
delle autonomie di fronte a Dio e di fronte alla Chiesa è
un’affermazione di antropocentrismo. Questo antropocentrismo arriva via
via a forme così radicali che l’intero orizzonte culturale e
intellettuale viene rinchiuso all’interno delle coordinate dell’uomo.
L’uomo soggetto assoluto, l’uomo protagonista, è il fine di se stesso,
del suo destino. Questo antropocentrismo radicale carica l’uomo di
responsabilità così gravi che questo non riesce a reggere la pressione e
la sua psiche esplode. L’uomo moderno finisce il suo percorso immerso in
moltissime umiliazioni: la più grave è certamente il fatto che le idee,
le ideologie, i sistemi con etichette e titoli persino umanistici sono
più importanti della stessa persona umana. E la modernità testimonia che
in nome di grandi proclami, di astratti altari ideologici, sono stati
sacrificati milioni di persone.
E.
Il ruolo del ponte Stati Uniti-Estremo Oriente e la cultura digitale,
virtuale. - La modernità è stata elaborata in Europa, ma è passata
negli Stati Uniti, un Paese giovane che dà impulsi così forti alla
modernità da prenderne in mano la gestione. Perciò pensa anche di
gestire la crisi della modernità. Il ponte economico-finanziario che
instaura con l’Estremo Oriente, in particolar modo con il Giappone,
sembra voler scavalcare l’Europa. Si tratta di una realtà
particolarmente delicata, in quanto la crisi della modernità viene
soprattutto gestita dalla finanza che ormai opera con la cultura
digitale e virtuale. I poteri del mondo si stanno spostando, ma anche i
modi di gestione dei poteri. E se alla modernità mancavano dei successi,
la new technology invece può cominciare a vantarsi di veri successi: il
computer è capace di autoprodursi, la clonazione di parti umane o
dell’uomo intero non è più solo una possibilità… e via dicendo. Ma gli
eventi del tragico 11 settembre 2001 non hanno scosso solo le fondamenta
della modernità. Anche la cosiddetta postmodernità è messa in
discussione, e i successi della new technology cominciano a perdere
brillantezza. La modernità, che ha proclamato la liberazione dell’uomo
dalle religioni e dai misteri, affermando un’autonomia e indipendenza
assoluta dell’uomo, non ha previsto, attraverso tutti i suoi secoli, che
sia possibile che nel tempio del moderno e del postmoderno arrivi uno
che, asserendosi mandato da un certo Dio, venga a punire questa gente
perché non credente. Un rappresentante di un popolo che la modernità
considerava non evoluto riesce a mettere a nudo la più grande difesa
militare basata sulla massima perfezione della new technology.
F.
Democrazia liberale economico-finanziaria imposta su tutto il pianeta. -
Sembra ormai evidente che il nuovo ordine del mondo si stia delineando
nel paradigma della democrazia liberale, economica e finanziaria che
praticamente verrà imposta sul mondo. Molte delle strutture e dei modi
di creare gli equilibri internazionali sembrano essere messi in
disparte. La legge sembra quasi rimpiazzata da accordi e alleanze. Si
mira all’eliminazione delle dittature, quando siano visibilmente troppo
cruente e di cattivo gusto, così che i soggetti che gestiscono gli
interessi economico-finanziari siano coperti da una immagine
promozionale che li fa paladini dei buoni valori, ma potrebbe anche
accadere che le religioni strutturate e organizzate, tipo la Chiesa
cattolica, siano un elemento scomodo e finiscano per avere una vita
difficile. Si intuisce anche che i valori morali subiranno diversi
scismi e che una visione organica e unitaria sarà assai difficile.
G.
La modernità implode nei suoi valori senza un principio unificante. - La
modernità tutto sommato deriva dall’impostazione cristiana, anzi, di
fatto si è sviluppata solo nell’ambito cristiano. Benché sia una
reazione più o meno esplicita contro l’impostazione religiosa, comunque
da essa deriva. I principali valori della modernità sono esplicitamente
derivati dal Vangelo e dall’evangelizzazione. Ma la crisi della
modernità rivela concretamente che questi valori, così alti e importanti
e tutti legati in qualche modo all’uomo, sono diventati una specie di
formalismo. Si vede che gli interessi più passionali, cioè quelli
puramente economici e finanziari, gli interessi del potere, scavalcano
facilmente i valori umanistici della modernità. Si potrebbe quasi dire
che questi valori diventano una specie di vestito che oggi si prende e
domani si lascia, per poi riprenderlo ancora. Una specie di valore di
convenienza o non convenienza. È ormai palese che i valori originati
dalla fede, cioè dal Vangelo, i valori radicalmente legati a Cristo, non
hanno, senza fede, senza relazione a Cristo, quella forza vitale
necessaria per muovere una cultura in modo esistenziale. Senza una
relazione a Cristo, senza fede e vita spirituale, è probabilmente
impossibile che questi valori siano vitali e non sfocino nell’eticismo e
nel moralismo.
In questa crisi generale della
modernità c’è un grosso rischio di critica spietata alla modernità, un
secco rifiuto di essa che faccia strada alla nostalgia delle epoche
precedenti. Invece, un rapporto spirituale verso la cultura ci porta ad
avere uno sguardo positivo e ci aiuta a vedere il positivo nel cammino
secolare dell’umanità. La realtà che forse appare ai nostri occhi come
la più positiva della modernità è proprio l’esplicitazione del bisogno
del principio religioso per salvaguardare l’umanesimo moderno.
La modernità dice con chiarezza che
un antropocentrismo radicale è miope e autonocivo e che tutto il grande
impianto filosofico, scientifico, tutto il cammino del progresso oggi
non va rigettato, ma piuttosto, nella sua umiliazione, chiede di essere
vivificato, chiede di ricevere linfa vitale. Tanto è vero che la
modernità, prosciugatasi nei suoi valori, da sola suggerisce e favorisce
una serie di neopaganesimi e semi-religiosità delle quali il punto
comune è una specie di vitalismo. La modernità nella sua crisi
testimonia il bisogno di vita, il bisogno di recupero della
relazionalità, dell’amore come ambito della vita. E a noi è chiaro chi è
il Signore che dà la vita e ci è chiaro che il vero principio religioso
non è una camicia di forza, non è un imperativo costringente, ma è la
libera adesione. Il principio religioso, inteso come libera adesione è
la vera via della vivificazione che non ha paura di suscitare reazioni
violente.
H.
Ripercussioni della crisi della modernità sulla Chiesa. - L’impatto
della Chiesa con la modernità è stato assai doloroso, ma comunque pian
piano la modernità ha penetrato la Chiesa, e oggi che la modernità è in
crisi vediamo addirittura che in ambito ecclesiale sopravvivono realtà
che fuori della Chiesa sono già ormai sorpassate. Un ambito dove la
crisi si verifica fortemente è, per esempio, la teologia. La teologia
che ha scelto come base la filosofia e come metodo i metodi scientifici
delle diverse discipline universitarie si trova oggi in un certo
imbarazzo. Essendo in crisi la filosofia, sulla quale negli ultimi tempi
si è appoggiata, neanche la teologia riesce a essere veramente creativa
e propositiva. È piuttosto rivolta verso se stessa, imprigionata nelle
metodologie a tal punto che non è del tutto fuori luogo la domanda se
ancora serve alla fede, se ancora aiuta al credo, se ancora getta un
ponte tra la fede e la cultura. Si è arrivati a situazioni in cui la
teologia come scienza viene ormai sganciata dalla fede e, nei momenti
più drammatici, anche dalla Chiesa.
La spiritualità, appoggiandosi
sempre più su sociologia e psicologia, ha cominciato a perdere il
fascino e, soprattutto nella formazione, si è constatato che non si è
riusciti a giungere ad una visione organica tra psicologia e
spiritualità, ma in un antagonismo rivale si sono creati estremismi tra
psicologismo e spiritualismo e la psicologia in molti casi è diventata
una sorta di spiritualità secolarizzata.
La gestione delle nostre opere si è
sempre più radicalmente appoggiata sulla gestione che vige nel mondo
attraverso le scienze moderne dell’organizzazione del lavoro. Entrato in
crisi questo impianto aziendale gestionale tipicamente moderno, anche la
nostra gestione delle opere mette a dura prova la nostra vita religiosa,
perché il ragionamento intorno alla gestione delle opere è una priorità
forte che però non va di pari passo con le esigenze attuali del rinnovo
della vita religiosa. In questa tensione avviene assai facilmente che,
da un lato, le opere stiano perdendo la vera portata apostolica e
dall’altro la vita religiosa non riesca a ripartire proprio a causa
della pressione della gestione delle opere.
In questo modo si potrebbe ancora
vedere la crisi che riguarda il nostro modo di programmazione
apostolica, il governo delle comunità, l’obbedienza, la vita
comunitaria… Tutte realtà che, fuori dalla fede, perdono il loro
significato e diventano caricature nocive. Il problema si pone
praticamente in quanto le scienze, che sono un aiuto, sono diventate una
specie di fondamento. Si è fatta confusione tra scienze ausiliarie e il
fondamento che nessuna di queste scienza può pretendere di costituire.
I.
La globalizzazione planetaria. - Il fenomeno della
globalizzazione finanziaria e in un certo senso anche culturale sta
marcatamente cambiando anche la visione antropologica. La
globalizzazione poggiata sulla cultura digitale di una comunicazione
nuova e planetaria sta cambiando radicalmente gli orizzonti mentali. Sta
cambiando il concetto del mondo, della geografia, della lingua, della
tradizione e della stessa identità dell’uomo. In questa immaginaria rete
di relazioni si vive comunque senza un coinvolgimento personale, perciò
il soggetto sente il bisogno di una più circoscritta identità dove il
coinvolgimento può essere più esistenziale: ma comunque non troppo,
perché altrimenti non si può più appartenere a questa rete planetaria di
comunicazione. Inevitabilmente sta crescendo la tensione tra la
globalizzazione planetaria e un regionalismo o localismo di reazione.
Questa tensione rimane per ora irrisolta e particolarmente problematica
proprio per l’Europa. L’Europa ha una tradizione secolare delle culture
del luogo, ma anche una tradizione degli stati nazionali e delle culture
etniche. Tutte queste realtà si stanno oggi svegliando, alzando la voce
e chiedendo una nuova definizione. Questo movimento mette a dura prova i
governi degli stati, le leggi nazionali ed evidentemente quelle
internazionali. Un processo di unione è contrastato da molti processi di
frantumazione. Queste tensioni potrebbero diventare anche campi fertili
per conflitti e scontri ben più gravi di quelli cui si assiste oggi in
Europa. Anche questo scenario delle tensioni culturali chiama ad una
vivificazione che in primo luogo sarebbe una pacificazione.
Precisazioni riguardo alla tensione nell’Europa dei popoli e delle
nazioni
A.
Storica. - Una prima precisazione riguardo alle tensioni
culturali va fatta ricordando due grandi tappe della storia d’Europa. La
prima fase giunge a una specie di globalizzazione religiosa, politica e
sociale degli imperi, una fase che promuove l’unità. Il Medioevo aveva
un forte sviluppo delle regioni e delle piccole entità che però sempre
più si sottomettevano a principi più globali dell’unità. Si potrebbe
forse parlare di una specie di unità “forzata” che alla fine sfocia
nelle reazioni di autoaffermazione. Questo coincide con lo sviluppo di
un concetto moderno di nazione e di creazione dei grandi stati nazionali
della seconda fase. Ma proprio questo oggi non tiene più. Ormai verso la
fine della modernità è avvenuta anche una dolorosa separazione
dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, con l’annientamento dell’Europa
centrale che era una delle realtà cattoliche più compatte. La coscienza
europea si è così dimezzata, ridotta, e oggi assistiamo a nuove forme
dei nazionalismi europei. Nell’Est si vuole ciò che è stato negato dal
comunismo che ha imposto una sorta di internazionalismo forzato;
nell’Ovest il nazionalismo si veste di xenofobia. Si è gelosi di ciò che
si è raggiunto, e lo straniero costituisce la minaccia al mio benessere.
Dopo queste due fasi, è evidente che, per evitare una situazione
conflittuale, è il momento di una terza fase dove i popoli e le nazioni
europee si uniranno sulla base di un principio libero.
B.
Terminologica. - Conviene anche un veloce sguardo terminologico
alla cultura per comprendere una possibile via di uscita dalle tensioni
culturali. Pavel Florenskij fa vedere come il termine cultura provenga
da culto. Culto inteso come radicale riconoscimento dell’Altro. Un
riconoscimento così radicale che si fisicizza nei gesti, in parole che
stanno diventando quel tessuto di significati e valori che è esattamente
la cultura. La cultura nasce dunque da una forza interiore che spinge
l’uomo a uscire da sé e a riconoscere l’altro, a comunicare e a
comunicarsi. Solov’ëv dice che l’unica forza capace di far uscire l’uomo
dal proprio guscio egoista e autoaffermativo è l’amore, perché solo
l’amore è una forza concreta quanto l’egoismo. Perciò solo l’amore può
sradicarlo. Arsen’ev, perciò sviluppa la visione della cultura come
frutto dell’amore. La vera forza motrice della cultura è l’amore perché
spinge l’uomo alla comunicazione, a creare la relazione con gli altri.
Solo le relazioni con gli altri sono l’ambito di sviluppo della cultura.
In forza dell’amore, l’uomo continuamente crea la cultura, creando un
organismo sempre più ricco di comunicazione. Se una cultura si innamora
di se stessa e si rivolge narcisisticamente a ciò che ha prodotto,
possiamo parlare di sclerosi culturale, in quanto non è più un organismo
di comunicazione, ma di chiusura, di isolamento e di scontro. Se invece
la cultura è viva, è capace persino di morire a ciò che ha creato per
affermare ancora il riconoscimento relazionale d’amore degli altri,
credendo che risusciteranno nuovi valori e nuovi significati. La cultura
è così una esplicitazione del principio religioso. Riconoscere l’Altro è
in sintesi il principio religioso. E anche teologicamente noi sappiamo
che riconoscere Dio come primo, affidarsi a lui, è un atto d’amore cui
l’uomo viene abilitato con la salvezza operata in Cristo. In questo
senso l’apertura culturale e il dialogo interculturale diventano una
verifica della autenticità della fede.
C.
Spirituale. - Una precisazione è necessaria sotto il profilo
spirituale. Penso che la pietra miliare al riguardo l’abbia posta
Giovanni Paolo II con la Slavorum Apostoli. Lì il Papa interviene
coraggiosamente sulla divisione d’Europa prospettando una nuova fase
dove l’Europa si unirà sui principi spirituali e religiosi. L’unità
dell’Europa è necessaria, perciò bisogna cominciare a conoscersi,
conoscere la ricchezza della tradizione spirituale e culturale e
favorire tutto ciò che giova all’adesione l’uno all’altro. Lo sforzo di
questo pontificato riguardo all’Europa è enorme e non va letto solo su
una superficiale affermazione delle radici cristiane dell’Europa. Per il
Papa le radici sono il motivo e la forza di una nuova fase religiosa
dell’Europa, quella di un’unità basata sui principi spirituali, non
escludendo tutte le altre dimensioni di questa unità.
La Terza
Fase dell’Europa: la missione dei cristiani
Stando a ciò che abbiamo detto
finora, si intravede che si prospetta una terza fase del divenire
europeo. Dopo un’epoca dell’affermazione dell’individualità si può
pensare e ormai constatare una tendenza all’unità in atto. L’unità ha
cominciato a realizzarsi su realtà come l’economia, la finanza, le
legislazioni, e questi passi non vanno disprezzati. È importante tener
bene in mente che tutto questo è ausiliario, ma il fondamento può essere
solo un’altra cosa, cioè una dimensione spirituale religiosa germogliata
dalle radici della prima evangelizzazione.
Una libera adesione dei popoli
all’unità del continente europeo, una libera adesione che è espressione
di quell’atteggiamento religioso che è il riconoscimento dell’altro.
Questa unità spirituale sarà di fatto realizzata tramite la fede dei
credenti d’Europa. Il principio che darà vita all’unità, che darà
contenuto a questo processo è la fede, la fede che crea questa forma
mentis del riconoscimento dell’altro nella sua oggettività. (Il
principio religioso è il riconoscimento dell’Altro, - con la maiuscola -
ma difatti diventa la relazione fondante verso l’altro - con la
minuscola -).
Il primo compito dei cristiani è
dunque chiaro: si tratta di ricollocare la fede al posto che le spetta.
È la riscoperta della vita spirituale nella sua dimensione autentica.
La missione della vita
religiosa. - La vita religiosa è proprio la realizzazione del
principio religioso in senso integro e perciò profetico. Infatti la vita
comunitaria è la parte essenziale della vita religiosa. Questa forma
mentis di relazione viva e personale verso Dio, di riconoscerlo
radicalmente, nella vita religiosa trasuda in tutto il suo agire e
soprattutto nella sua mentalità. Perciò è evidentemente una vita
comunitaria. In questo senso, possiamo parlare di vita religiosa come
lievito e sale della fede, e dunque una testimonianza convincente e
affascinante della vita secondo il principio religioso. Se vogliamo che
l’Europa entri nella terza fase e dunque in una fede matura che esprima
relazioni libere, che sia capace di creare la comunione, noi religiosi
siamo chiamati a permeare tutto con un autentico atteggiamento da
credenti. Siamo evidentemente chiamati a dare la priorità a tutto ciò
che riguarda la fede e la vita spirituale, per diventare il motore di
questo movimento che dovrebbe attirare dietro a sé i popoli d’Europa.
Dovremmo essere un’immagine della profezia; nelle nostre comunità siamo
chiamati a far trasparire questa libera adesione e la comunione delle
culture. Più che creare e cercare nuove forme di azione e di presenza,
più che aumentare le opere delle istituzioni che si inseriscono
nell’attuale cammino d’Europa, siamo probabilmente chiamati a
vivificare, a dare l’anima a ciò che ha creato l’Europa. Dare l’anima
significa dare la vita, la vita redenta. La redenzione in senso
teologico antropologico significa unità. Ciò che è redento è strappato
alla divisione, all’isolamento. L’uomo redento è l’uomo reintegrato, è
l’uomo che si scopre abbracciato dall’amore e ricomposto. La nostra
vocazione nelle origini dei nostri carismi ha fatto sempre vedere questo
taglio della salvezza. Perciò diventa il principio del fascino,
dell’attrazione. Se la nostra vocazione coincide con la nostra salvezza
- e così dovrebbe essere - allora dobbiamo avere il coraggio di
esplicitare l’unità, perché questo è il mondo redento. L’unità basata
sulla libera adesione vuol dire salvare la comunione e l’individualità.
Sembra che questa sia la sfida davanti alla quale stiamo. Se cominciamo
a fecondare l’Europa con questo principio, allora il vecchio continente,
entrando in questa terza fase del proprio cammino di fede, si accinge ad
avere ancora qualcosa da offrire agli altri popoli, alle altre Chiese.
Da questo segue che la vita
religiosa già in se stessa è evangelizzazione, è una vita pastorale:
chiaro, quando dà priorità al religioso, spirituale e culturale (inteso
come sopra spiegato). Quello che Solov’ëv ascrive alla cosiddetta terza
forza penso che potrebbe essere una magna charta della vita religiosa
oggi in Europa. Applichiamo dunque la terza forza descritta da Solov’ëv
alla vita religiosa e di fronte a noi si spiega la nostra vocazione
oggi. Il principio agapico «deve dare all’evoluzione umana il suo
contenuto assoluto, può essere soltanto una rivelazione di quel mondo
divino e superiore e la gente e il popolo per cui questa forza dovrà
manifestarsi, deve essere soltanto mediatore tra l’umanità e la realtà
sovrumana, strumento libero e cosciente di quest’ultima. …Non deve avere
nessun compito speciale delimitato, non è chiamato a lavorare sulle
forme e gli elementi dell’esistenza umana, ma soltanto a comunicare
l’anima viva, a fornire il centro focale e l’integrità all’umanità
lacerata e morta, unendosi al principio divino unitotale. …Non ha
bisogno di nessuna superiorità particolare, di nessuna forza speciale e
di talenti esteriori, perché agisce non di per sé e realizza non il suo.
[Da lui]… si richiede soltanto libertà da ogni esclusivismo e
unilateralità, elevazione al di sopra degli angusti interessi
particolaristici, si richiede che non affermi se stesso con energia
esclusiva in qualche settore particolare inferiore della vita e
dell’azione, si richiede l’indifferenza per tutta questa vita con i suoi
interessi piccini, si richiede una fede integra nella realtà positiva
del mondo superiore e un rapporto passivo verso il medesimo».1
Ripensare alcuni atteggiamenti
Una tale visione della nostra
vocazione esige oggi il coraggio di ripensare alcuni nostri
atteggiamenti, e pure il coraggio di ripensare i contenuti della nostra
fede. Si parla spesso della tolleranza, ma non sembra un termine adatto.
La tolleranza ha certamente una portata positiva in quanto evita il
conflitto, ma certamente non ha la carica positiva capace di creare la
comunione e l’unità delle persone. Anzi, di per sé si tollera una certa
dose di veleno, dunque può avere anche un significato assai problematico
all’interno di una visione teologica e antropologica della convivenza
umana. Il termine che ci offre la Bibbia è accoglienza, ma accoglienza è
un atto d’amore e l’amore è dono dello Spirito Santo. Senza una vera
pneumatologia e senza una radicale fede nello Spirito Santo mi sembra
che ogni sforzo per la convivenza, ogni sforzo per l’unità e la
comunione è vano e i risultati sono di poca durata.
Ma l’accoglienza è un dramma, un
dramma che esige la rinuncia, la morte a se stessi, esige il digiuno, la
pazienza, coinvolge una serie di virtù. L’accoglienza difatti in senso
biblico comporta la conversione. Si realizza nelle coordinate del
mistero pasquale, della passione, morte e risurrezione. Chi accoglie,
dopo l’accoglienza non sarà più come era prima, e chi è accolto non sarà
a sua volta più come prima. L’altro è dunque inteso come un’occasione di
vivere Cristo, di realizzare il principio agapico nella storia della
Chiesa, in ogni tempo e in ogni luogo. L’accoglienza esige dunque un
lavoro di ascesi motivata da un amore concreto, cioè da una salvezza
sperimentata.
È necessario rinunciare a tutti i
pregiudizi, etnici, etnocentrici, culturali e storici. Bisogna
promuovere una formazione per essere in grado di amare culturalmente.
Nella formazione bisogna tenere conto che la nazione, la nazionalità,
l’etnia, la propria identità culturale sono realtà che di fatto devono
ancora essere evangelizzate, perché troppo facilmente prevalgono sul
Vangelo e sulla Chiesa.
Sulla formazione non sarebbe male
pensare di farla più europea, come fu un tempo quando era facile trovare
belgi, francesi, tedeschi, italiani del nord che studiavano non solo a
Vienna, ma anche a Olomouc, a Zagabria, a Praga, a Cracovia… persino a
Leopoli. La convinzione che bisogna ad ogni costo portare tutte le
novizie in Italia e formarle qui potrebbe essere semplicemente una forma
di narcisismo culturale e, dunque, indice di una qualche patologia nella
vita spirituale. Nella formazione sarebbe molto utile essere in grado di
rispondere a che cosa vuole dire Cristo a noi con le vocazioni, cioè con
le sorelle che provengono da altre culture. Dove bussa lo Spirito
attraverso la loro presenza? Avere una dinamica che ci aiuti
continuamente a domandarci che cosa possiamo imparare dagli altri, dove
possiamo allargare la nostra visione, perché insieme agli altri, in modo
che concretamente si formi una mentalità credente, costruendo quell’intelligenza
della fede.
Sarebbe, forse, opportuno
cominciare a importare nel nostro orizzonte anche i testi dei popoli
europei da cui provengono le sorelle; testi, letteratura, poesia di
popoli che normalmente non si leggono, cioè del centro ed est Europa.
Altrimenti ci si impoverisce già in principio, riducendo l’orizzonte,
impedendo di giungere ai tesori nascosti che oggi possono aiutarci a
vivere la fede.
Perché non verificare anche il
rapporto che si ha verso le suore straniere che lavorano in Italia, che
sono in missione in Italia? Sarebbe molto bello se la loro presenza non
fosse semplicemente supplenza alla nostra mancanza di vocazioni; sarebbe
importante che diventassero occasione della nostra conversione nella
nostra attività pastorale, che fossero motivo di approfondimento. Già il
semplice fatto di considerarle, di sentirle, di permettere loro di fare
a loro modo, di inserirle nella pastorale a loro modo, già questo
semplice fatto di considerarle aiuterebbe noi a vivere quel principio
religioso di cui si parlava prima. E così le nostre comunità
diventerebbero più purificate e più convincenti. Chissà se si è mai
chiesto loro che cosa pensano del nostro lavoro pastorale, che cosa
farebbero loro, semplicemente per permettere allo Spirito di parlarci,
perché forse davvero con la loro presenza Cristo vuole dire una parola.
Conclusione
Concludendo ci possiamo concentrare
su questa relazione Est Ovest dell’Europa e in un certo modo riassumere
tutto ciò che si diceva fin qui.
L’Est sotto il comunismo ha vissuto
dei doni straordinari dello Spirito Santo proprio per la vita religiosa.
Le persecuzioni hanno favorito il fiorire di diverse forme di
inserimento della vita religiosa nella pastorale e sono accaduti veri e
propri miracoli spirituali. Lo stesso si potrebbe dire anche per
l’Occidente, dove, alle prese con la modernità, non sono mancati grandi
esempi di santità e di grande profitto pastorale. Ora si rischia che le
generazioni future siano estremamente critiche con noi dicendo che
abbiamo avuto la straordinaria occasione di vivere il decennio di
liberazione dell’Europa e forse abbiamo fatto poco, o fatto persino i
passi sbagliati. Dall’Occidente ci si è precipitati all’Est non poche
volte con il desiderio di trovare le vocazioni, e arrivando là e agendo
pastoralmente come se lavorassimo a casa nostra. Dall’est si correva
all’Occidente per aggiornarsi e riprendere lo stile di vita delle
congregazioni di qua. Dimenticando così di riflettere, di pensare, di
studiare, di incontrarsi per pensare, riflettere e pregare.
Si è fatta una riflessione critica
sulla nostra esperienza della modernità, sul nostro andamento delle
opere, della formazione e delle vocazioni in questi decenni per essere
in grado di comunicare alle sorelle dell’Est non tutto indistintamente,
ma il frutto di una selezione fatta con un discernimento acuto, con una
elaborata riflessione teologica, in modo che le sorelle dell’Est possano
apprendere la sapienza delle sorelle dell’Ovest per affrontare loro oggi
la contemporaneità? Si aiuta alle sorelle dell’Est a fare la riflessione
sugli anni della clandestinità, a ricavare una teologia del martirio e
tirare le somme che dovrebbero essere la base della loro attuale
impostazione, il che potrebbe essere il dono ricco e prezioso che loro
offrono all’Occidente?
Dall’incontro della vita religiosa
dell’Est e dell’Ovest probabilmente dipende molto del futuro
dell’Europa, perché in questo incontro si potrebbe in modo esplicito
realizzare quel principio religioso di cui l’Europa oggi ha bisogno per
vivificare se stessa. Nell’Est ci sono anche delle Chiese della
tradizione apostolica d’Oriente, sia cattoliche che ortodosse: sarebbe
per noi una grande occasione di aprirsi a un dialogo tra le Chiese della
tradizione apostolica per cercare insieme nei propri tesori le cose che
oggi ci aiutano a sostenere la nostra missione. Sarebbe anche utile, per
svincolarsi da questo ormai così chiuso modo di ragionare nostro: noi -
protestanti - il mondo. Che cosa potrebbe essere per queste Chiese la
nostra testimonianza, ormai riflettuta ed elaborata, dell’impatto con la
modernità e che cosa sarebbe per noi ad esempio la loro tradizione della
vita spirituale e della liturgia?
Il ventesimo secolo è il secolo tra
i più forti della nostra fede. L’Europa ha avuto un grande numero di
testimoni e martiri, di santi. Scopriamo la comunione di questi santi
dai quali apprenderemo anche il cammino per noi. Studiando i santi in
modo spirituale non rischieremo di perderci nelle teorie e nelle
discussioni sterili, ma approfondiremo una spiritualità e una teologia
sempre legata alla vita del nostro continente.
Dibattito
D.:
P. Marco, da bravo filosofo, ha fatto una bellissima epochè nelle ultime
battute, ricollegandosi con quanto aveva comunicato nel primo intervento
dell’assemblea del 1999: «Morire - rinascere dall’alto».
Giustamente afferma che una
comunità di cinque persone, di 75 o 80 anni, può ancora avere la forza
di fare esplodere vita ed energia. Una bellissima epochè: ha iniziato il
dialogo con l’assemblea generale nei termini di una rinascita nella fede
e nello spirito e, ovviamente, non poteva mancare questo collegamento
nel contesto odierno.
Se non rubo la parola
all’Assemblea, vorrei esporre un’impressione che mi sta provocando non
poco. P. Marco parlava delle nuove missionarie in Italia. Ecco, noi
siamo preoccupate da un verso di non fare, di non portare persone come
supplenza alla mancanza di vocazioni, però mi pare che quest’ottica
possa anche aprirsi a una nuova prospettiva. Non so se padre Marco vuole
spendere una parola per suggerirci in che termine noi possiamo fare
questo salto culturale e religioso, perché non è sufficiente per noi
cambiare terminologia, almeno come religiose in Italia.
R.:
Io distinguerei: una cosa è la formazione tipo della Congregazione, per
esempio il noviziato in Italia: Porto le sorelle che trovo in giro nel
mondo a fare la loro formazione in Italia.
Da un lato è chiaro che quanto
prima si può avere il noviziato sul posto, tanto meglio è, a motivo
anche dell’inculturazione, ma so che a volte non si può. Allora
bisognerebbe avere tanta spiritualità e tanta fede da organizzare i
noviziati che sono in Italia in un modo tale che la novizia non sia
troppo estrapolata dall’ambiente, dalla cultura, dalle tradizioni da cui
proviene, perché altrimenti creeremo una silenziosa contestazione che
prima o poi esploderà. Se sono africane esploderà prima, se sono sud
africane esploderà subito, e se sono asiatiche, forse, tra dieci anni,
però esploderà, perché l’Asia è più silenziosa, ma ciò non vuol dire che
è d’accordo sui nostri metodi.... Come sappiamo, è facile che l’asiatico
ti dica sì, sì, però il giorno dopo non viene, anche se, gentilmente, ha
detto sì, sì.
Penso che bisogna tenere conto che
nella formazione ci sia questa apertura culturale, il che non vuol dire
fare cose strane, o per gioco… Una volta ho visto una cappella con un
leone sull’altare, stavo per dire elefante, ma era un leone. Quando l’ho
visto ho detto: insomma lo potevano pure mettere in qualche altra parte.
Mi hanno detto: no, è per la sensibilità culturale, perché c’è gente che
viene non so da quale Paese, dove il leone è una bestia importante. Non
facciamo queste stupidaggini se si può, però cerchiamo di avere un vero
approccio di riconoscimento culturale, impariamo qualche cosa dalle
altre culture e domandiamoci continuamente che cosa Dio vuol dirci
attraverso questa persona nuova, questa ragazzina, che è venuta da un
Paese lontano dal nostro… Mi ricordo quando sono entrato in noviziato,
il maestro dei novizi ogni tanto mi chiedeva se c’era qualche cosa di
strano che io notavo. Io avevo una lista ogni settimana. Mi sembrava un
po’ strano tutto. Alla fine gli dissi: perché mi chiedi continuamente
queste cose? Perché il Padre Provinciale, che vive ancora ed è un uomo
saggio, che è stato in prigione sette anni, mi chiede continuamente
quali cose sembrano strane ai novizi, perché dobbiamo discernere: forse
sono cose che dobbiamo cambiare, oppure sono essenzialmente ignaziane,
nel qual caso dobbiamo aiutare il novizio perché le inglobi, le
digerisca, le faccia proprie, altrimenti il novizio con il suo gusto,
prima o poi ci spinge a cambiare.
Noi dobbiamo continuamente avere un
po’ di questa sapienza per vedere che cosa le nuove generazioni portano
alle nostre comunità. E’ chiaro che ciò non significa che domani andiamo
a fare discoteca, se parliamo della fede, però questo bisognerebbe fare
a mio parere. Poi, se si parla di Europa, penso che sia importante che
nelle comunità dove si formano le persone che vengono dai Paesi dell’Est
siano autorevolmente rappresentate anche altre culture, cioè che anche
la maestra si vada a leggere un po’ di letteratura polacca, rumena,
croata o non so che cosa e che non citi continuamente… il Petrarca! Che
possa citare non solo Piero Coda e Bruno Forte (?) ma anche teologi,
pensatori e padri spirituali di quelle terre. Questo è certamente un
piccolo inizio di come formare, ma bisogna anche convincerci che noi non
siamo migliori degli altri, perché si cade spesso su tremendi
pregiudizi…
Per quanto riguarda le suore che
invece lavorano in Italia, se è una suora formata che è venuta in Italia
a lavorare, o se si è formata qui e poi l’hanno impiegata in una
missione in Italia, io penso che sia triste (siccome insegno cultura sto
sempre attento), vedere, per esempio, questa sorella filippina, così
carina, che è diversa anche fisicamente - la donna asiatica è diversa
dalla nostra - che adesso si muove ugualmente come tutte le altre, quasi
fossero tutte sarde o tutte lombarde…, e lei fa gli stessi passi, dice e
fa le stesse cose, accende le candele sull’altare allo stesso modo… Mi
domando: ma è possibile che questa donna non senta dentro di sé qualche
ribellione che un giorno esploderà?… Forse si potrebbe fare scuola
diversamente, forse se le lasciassimo libere, queste sorelle sarebbero
diverse, forse nella nostra pastorale giovanile, o con i nostri studenti
al liceo, agirebbero e si comporterebbero diversamente, se noi non
indicassimo loro come fare. Ecco, bisognerebbe rischiare di più… più che
sbagliare non possono… L’abbiamo fatto anche noi, dunque stiamo
tranquille. Un po’ di rischio penso che sia urgente, in questo senso.
D.:
Riprendo l’affermazione che oggi c’è crisi di razionalità e,
conseguentemente, anche crisi della teologia, la teologia tomista non ci
aiuta più su certi piani, con le categorie chiare e distinte che ci
hanno formato, che ci hanno aiutato. Ho la percezione che, comunque,
vada dilagando così un senso dell’esperienzialità. Cosa molto buona
vista anche dall’angolatura, per esempio, di questa creatività. Però ho
l’impressione che ci faccia sfociare in quel soggettivismo di cui questa
mattina si vedeva anche il rischio, il pericolo. Allora la mia domanda è
questa: se da una parte stiamo perdendo un patrimonio che ci ha aiutato,
anche se oggi è obsoleto e non ci aiuta più, dall’altra parte sta
imperando questa forma di verità soggettiva. E’ vero che dobbiamo
dialogare per poter fare interagire queste due realtà, ma il dialogo
basta? E che cos’altro dovrebbe sostenerci in questo passaggio, in
questo snodo, perché quel patrimonio di pensiero, di idee e di linee
formative che noi di una certa età abbiamo avuto, non vada perduto del
tutto, ma venga rinnovato? Quale è l’arma culturale da assumere? Io
direi che è ancora la razionalità che ci deve aiutare, ma come
esprimerla? Ci sono ancora delle regole?
R.:
Provo a far vedere come si potrebbe ragionare spiritualmente su certe
cose, perché un’affermazione categorica sembra una presunzione
illecita...
La razionalità moderna, ossia, come
la modernità ha inteso la razionalità, ha prodotto il soggettivismo
sentimentalista di oggi. Il che vuol dire che intendere la razionalità
come l’abbiamo intesa negli ultimi quattro secoli non conviene, perché
produce una reazione esattamente opposta. Perché questa razionalità,
razionalismo, positivismo, tutte queste cose che noi abbiamo avuto, che
cosa hanno prodotto? Un sentimentalismo lacrimogeno, un soggettivismo
all’ultimo estremo. Questo è un fatto. Noi oggi navighiamo nella nebbia,
nel soggettivo, perché lo slogan, il motto del post-moderno è: «Penso
come mi sento, decido come mi sento, reagisco come mi sento e faccio
come mi sento». E’ chiaro, che pensando così, uno, quando non si sente
in sintonia con la moglie la lascia: sento un’altra cosa, non sento più
niente, mi sono innamorato di un’altra... Questo non è da sottovalutare:
questa è la verità, no? Ora io penso che la modernità ha ridotto, con un
riduzionismo abbastanza pesante, l’intelligenza, prendendo come
intelligenza solamente la “ratio”, ossia il raziocinio analitico, quello
che è capace delle specializzazioni, ma non ha più inteso l’intelligenza
nel suo senso globale, dove invece fanno parte dell’intelligenza: il
sentimento, l’intuizione, la sintesi e la capacità di pensare insieme,
di analizzare, frantumare, sezionare e via dicendo. Allora noi abbiamo
perduto l’intelligenza, ma non oggi, a mio parere, quando si dice che il
pensiero debole è la morte dell’intelligenza, io non sono d’accordo. Per
me l’intelligenza ha cominciato a ridursi con Cartesio, non con Leotard.
Leotard ha messo solo i puntini sulla i, lui ha messo l’ultimo mattone
dicendo: siamo arrivati qui. Ma l’intelligenza si è ridotta prima. Tutto
è diventato specializzazione, solo specializzazione, la sintesi non c’è
più in nessuna parte, non solo nella fede.
Lei ha cominciato a parlare di
Tommaso e di tomismo. Buona notte! In quel tempo ancora c’era
intelligenza, c’era filosofia, c’era la sapienza, c’era il sapere, c’era
persino la spiritualità. Ma noi oggi non siamo tomisti e penso che sia
difficile esserlo con tutto questa frantumazione del post-moderno. Però
certamente questi grandi maestri una parola decisiva oggi lo devono
riavere ancora, se no non si esce fuori, e non solo Tommaso, ma tutti
quei grandi del passato, perché bisogna recuperare l’intelligenza.
Altrimenti andremo veramente a finire male.
Tommaso d’Aquino e il tomismo.
- Io però distinguerei, perché il tomismo, mi dispiace dirlo, ma sulla
spiritualità è arido, se ce l’ha; Tommaso, invece, è mistico, ha scritto
inni eucaristici, parla del palato che gusta il Corpo di Cristo, del
cuore che venera e adora il Signore, ma la razionalità moderna è Hegel,
è Kant… Io vedo i seminaristi che lo stanno studiando, a loro piace
tutta questa matematica teologica, eppure nella loro stanza hanno un
altarino con Padre Pio, Brigitte Baurdeau, ecc., mettendo tutte queste
cose insieme; li ho visti con i miei occhi, il rosario della nonna, il
rosario della mamma, il rosario della zia, tutti appesi uno sopra
l’altro: poi il cuore che gli ha dato una ragazza dello scout, con
cioccolato, frecce… Allora come mettere insieme uno studio così
astratto, così pesante, così difficile, e poi per la devozione tutto
un’altra cosa nel lato opposto? Non si può… Penso che bisogna tornare
all’intelligenza e, modestamente, sarà contestato da tutti però
pazienza, io penso che i dogmi nostri e la liturgia sono la massima
espressione dell’intelligenza umana, la massima espressione, anche del
linguaggio, perché lì devi tenere conto di tutto l’insieme e
l’intelligenza, a mio parere, ha questa portata. E siccome
l’intelligenza sta crescendo, nasce e vive, ha radici nell’amore che lo
Spirito santo ci dà quando ci crea.
Noi non dobbiamo pensare all’uomo
se non che qui c’è l’amore che Dio ci ha dato, è da questo amore che la
massima intelligenza è agape : se io sento con amore, penso con amore,
allora io sviluppo un’intelligenza complessa. Se tu leggi i Padri, puoi
notare con quanta e quale elaborazione speculativa affrontano le
questioni! Non sono fideisti, lacrimogeni. Ma oggi anche la vita
religiosa è così. Tu prendi alcune comunità nuove, appena sorte, vedi
che c’è un impianto semplicista di fondo che non tiene più di un paio di
anni. Ci vuole una struttura tanto complessa, e qui sono d’accordo che
bisogna fare qualcosa, ma a mio parere bisogna di nuovo imparare a
leggere i misteri della fede con l’intelligenza della fede, perché è lì
il rebus! Parlando dell’Italia, gli uomini che hanno più inciso sulla
società moderna italiana, sono i laici italiani del dopoguerra o prima
della guerra, sono state persone che erano anche molto raffinate nella
fede. La Pira, per esempio, non era uno che non sapeva pensare sulla
Trinità, perciò ha potuto avere un pensiero sociale che si aggancia
direttamente al mistero trinitario e non a un principio astratto. I
grandi che hanno voluto un’Europa cristiana, che l’ hanno partorita come
Europa, hanno avuto veramente una conoscenza teologica tale da poter
gestire queste cose razionalmente.
1. V. Solovev,
Filosofskie nac˘ala cel’nogo znanija, tr. it. in ID., Sulla
Divinoumanità e altri scritti, Milano 1971, pp. 49-50.
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