n. 7/8
luglio/agosto 2003

 

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L'Europa,
incrocio di spiritualità e di culture:
le possibilità per la vita religiosa

di P. Marko Ivan Rupnik, sj
 

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La crisi della modernità nei suoi sistemi e modi di pensare

In questi ultimi anni si è scritto moltissimo sulla crisi della modernità. Non è nostro compito in questo luogo addentrarsi su tutto il panorama di questo fenomeno. Nondimeno siamo tuttavia obbligati a richiamare l’attenzione su alcuni punti cardine di questa crisi, quelli che riteniamo avere un nesso profondo con il titolo dell’intervento.

 A. La crisi della razionalità. - La modernità è una visione, un sistema di pensare, un modo di essere fondamentalmente caratterizzato dall’importanza della razionalità. Ma una razionalità che le critiche della modernità rivelano piuttosto come un riduzionismo. Dall’intera sfera dell’intelligenza si estrapola il raziocinio come capacità analitica e deduttiva e lo si pone come orizzonte prioritario, primario, per non dire totale. Tale razionalità è diventata l’asse portante di interi sistemi filosofici e metodologici. Si vantava di avere una certa oggettività e infallibilità, ma un’epoca con questi presupposti ha suscitato una reazione così violenta che difatti è finita in un soggettivismo sentimentalista. Al posto del primato della razionalità troviamo oggi quasi un’affermazione dell’assenza della razionalità, dell’estrema debolezza della razionalità. Evidentemente dare sfogo al sentimento e ai sensi che la razionalità prima non considerava non significa automaticamente un recupero, un’evoluzione. Si tratta piuttosto di essere in grado di riportare la razionalità all’ambito che le è proprio, cioè all’interno di una visione globale e integra dell’uomo e delle sue capacità conoscitive.

B. La crisi della scienza. - Un pilastro della modernità era la scienza, con la sua certezza e il dominio culturale che ne deriva. Ciò che è scientifico ha credibilità e il metodo scientifico è la via regale per giungere alla certezza. La crisi della modernità rivela nel campo delle scienze una reazione molto simile a quella che si è vista per la razionalità in genere. Come una razionalità intesa in modo così parziale non è più in grado di addentrarsi nei contenuti della vita, del mistero dell’uomo o, ancora di più, in contenuti superiori, lo stesso accade alla scienza: diventa esclusivamente descrittiva, anzi persino si difende, annunciando che non vuole parlare dei contenuti della vita, perché non è un oggetto di sua pertinenza. Ed evidentemente i suoi metodi non riescono a condurla a queste conoscenze. Così la scienza è diventata una realtà isolata dal contesto antropologico e, ancor di più, da quello spirituale. Una razionalità sganciata dal principio dell’amore, dal principio agapico, spirituale, e una scienza che fa la sua ricerca indipendentemente dalla visione integra della persona e della vita inevitabilmente si rivelano persino pericolose per l’uomo. L’atomizzazione e la settorialità delle scienze da un lato favoriscono le condizioni della vita umana, agevolando il benessere dell’uomo, ma dall’altro costituiscono una minaccia. La crisi della razionalità moderna e dei suoi sistemi ha messo in crisi anche un tale approccio scientifico.

C. Delusione delle promesse della modernità. - La modernità faceva leva sulla promessa della felicità individuale basata sullo standard economico. Stranamente, più l’uomo raggiungeva un benessere economico, più aumentavano le crisi dell’interiorità umana. Il benessere è stato prospettato come frutto di lavoro, di impegno, di studio, di successo. Ma siccome così non è avvenuto, la crisi della modernità cominciava a prospettare la felicità individuale non più all’interno di un sistema di lavoro sullo stile di quello della modernità, ma come un evento ludico, come un gioco del piacere, un divertimento. E tutte le caratteristiche dell’impegno, di fatica nell’affrancamento dai propri limiti, elaborate nella modernità come mezzo per giungere alla felicità individuale, hanno cominciato a saltare. La modernità si esaurisce in una insoddisfazione di fondo dell’uomo moderno desideroso di altre vie, più semplici, di soddisfazione.

D. Illusione dell’antropocentrismo radicale. - La modernità come società basata sul “progetto uomo” è in gran parte anche una reazione al teocentrismo delle epoche precedenti. Non si può parlare della modernità senza menzionare una certa ribellione dell’uomo a Dio, o meglio alla religione, soprattutto quella giudeo-cristiana. La modernità come epoca delle autonomie di fronte a Dio e di fronte alla Chiesa è un’affermazione di antropocentrismo. Questo antropocentrismo arriva via via a forme così radicali che l’intero orizzonte culturale e intellettuale viene rinchiuso all’interno delle coordinate dell’uomo. L’uomo soggetto assoluto, l’uomo protagonista, è il fine di se stesso, del suo destino. Questo antropocentrismo radicale carica l’uomo di responsabilità così gravi che questo non riesce a reggere la pressione e la sua psiche esplode. L’uomo moderno finisce il suo percorso immerso in moltissime umiliazioni: la più grave è certamente il fatto che le idee, le ideologie, i sistemi con etichette e titoli persino umanistici sono più importanti della stessa persona umana. E la modernità testimonia che in nome di grandi proclami, di astratti altari ideologici, sono stati sacrificati milioni di persone.

E. Il ruolo del ponte Stati Uniti-Estremo Oriente e la cultura digitale, virtuale. - La modernità è stata elaborata in Europa, ma è passata negli Stati Uniti, un Paese giovane che dà impulsi così forti alla modernità da prenderne in mano la gestione. Perciò pensa anche di gestire la crisi della modernità. Il ponte economico-finanziario che instaura con l’Estremo Oriente, in particolar modo con il Giappone, sembra voler scavalcare l’Europa. Si tratta di una realtà particolarmente delicata, in quanto la crisi della modernità viene soprattutto gestita dalla finanza che ormai opera con la cultura digitale e virtuale. I poteri del mondo si stanno spostando, ma anche i modi di gestione dei poteri. E se alla modernità mancavano dei successi, la new technology invece può cominciare a vantarsi di veri successi: il computer è capace di autoprodursi, la clonazione di parti umane o dell’uomo intero non è più solo una possibilità… e via dicendo. Ma gli eventi del tragico 11 settembre 2001 non hanno scosso solo le fondamenta della modernità. Anche la cosiddetta postmodernità è messa in discussione, e i successi della new technology cominciano a perdere brillantezza. La modernità, che ha proclamato la liberazione dell’uomo dalle religioni e dai misteri, affermando un’autonomia e indipendenza assoluta dell’uomo, non ha previsto, attraverso tutti i suoi secoli, che sia possibile che nel tempio del moderno e del postmoderno arrivi uno che, asserendosi mandato da un certo Dio, venga a punire questa gente perché non credente. Un rappresentante di un popolo che la modernità considerava non evoluto riesce a mettere a nudo la più grande difesa militare basata sulla massima perfezione della new technology.

F. Democrazia liberale economico-finanziaria imposta su tutto il pianeta. - Sembra ormai evidente che il nuovo ordine del mondo si stia delineando nel paradigma della democrazia liberale, economica e finanziaria che praticamente verrà imposta sul mondo. Molte delle strutture e dei modi di creare gli equilibri internazionali sembrano essere messi in disparte. La legge sembra quasi rimpiazzata da accordi e alleanze. Si mira all’eliminazione delle dittature, quando siano visibilmente troppo cruente e di cattivo gusto, così che i soggetti che gestiscono gli interessi economico-finanziari siano coperti da una immagine promozionale che li fa paladini dei buoni valori, ma potrebbe anche accadere che le religioni strutturate e organizzate, tipo la Chiesa cattolica, siano un elemento scomodo e finiscano per avere una vita difficile. Si intuisce anche che i valori morali subiranno diversi scismi e che una visione organica e unitaria sarà assai difficile.

G. La modernità implode nei suoi valori senza un principio unificante. - La modernità tutto sommato deriva dall’impostazione cristiana, anzi, di fatto si è sviluppata solo nell’ambito cristiano. Benché sia una reazione più o meno esplicita contro l’impostazione religiosa, comunque da essa deriva. I principali valori della modernità sono esplicitamente derivati dal Vangelo e dall’evangelizzazione. Ma la crisi della modernità rivela concretamente che questi valori, così alti e importanti e tutti legati in qualche modo all’uomo, sono diventati una specie di formalismo. Si vede che gli interessi più passionali, cioè quelli puramente economici e finanziari, gli interessi del potere, scavalcano facilmente i valori umanistici della modernità. Si potrebbe quasi dire che questi valori diventano una specie di vestito che oggi si prende e domani si lascia, per poi riprenderlo ancora. Una specie di valore di convenienza o non convenienza. È ormai palese che i valori originati dalla fede, cioè dal Vangelo, i valori radicalmente legati a Cristo, non hanno, senza fede, senza relazione a Cristo, quella forza vitale necessaria per muovere una cultura in modo esistenziale. Senza una relazione a Cristo, senza fede e vita spirituale, è probabilmente impossibile che questi valori siano vitali e non sfocino nell’eticismo e nel moralismo.

In questa crisi generale della modernità c’è un grosso rischio di critica spietata alla modernità, un secco rifiuto di essa che faccia strada alla nostalgia delle epoche precedenti. Invece, un rapporto spirituale verso la cultura ci porta ad avere uno sguardo positivo e ci aiuta a vedere il positivo nel cammino secolare dell’umanità. La realtà che forse appare ai nostri occhi come la più positiva della modernità è proprio l’esplicitazione del bisogno del principio religioso per salvaguardare l’umanesimo moderno.

La modernità dice con chiarezza che un antropocentrismo radicale è miope e autonocivo e che tutto il grande impianto filosofico, scientifico, tutto il cammino del progresso oggi non va rigettato, ma piuttosto, nella sua umiliazione, chiede di essere vivificato, chiede di ricevere linfa vitale. Tanto è vero che la modernità, prosciugatasi nei suoi valori, da sola suggerisce e favorisce una serie di neopaganesimi e semi-religiosità delle quali il punto comune è una specie di vitalismo. La modernità nella sua crisi testimonia il bisogno di vita, il bisogno di recupero della relazionalità, dell’amore come ambito della vita. E a noi è chiaro chi è il Signore che dà la vita e ci è chiaro che il vero principio religioso non è una camicia di forza, non è un imperativo costringente, ma è la libera adesione. Il principio religioso, inteso come libera adesione è la vera via della vivificazione che non ha paura di suscitare reazioni violente.

H. Ripercussioni della crisi della modernità sulla Chiesa. - L’impatto della Chiesa con la modernità è stato assai doloroso, ma comunque pian piano la modernità ha penetrato la Chiesa, e oggi che la modernità è in crisi vediamo addirittura che in ambito ecclesiale sopravvivono realtà che fuori della Chiesa sono già ormai sorpassate. Un ambito dove la crisi si verifica fortemente è, per esempio, la teologia. La teologia che ha scelto come base la filosofia e come metodo i metodi scientifici delle diverse discipline universitarie si trova oggi in un certo imbarazzo. Essendo in crisi la filosofia, sulla quale negli ultimi tempi si è appoggiata, neanche la teologia riesce a essere veramente creativa e propositiva. È piuttosto rivolta verso se stessa, imprigionata nelle metodologie a tal punto che non è del tutto fuori luogo la domanda se ancora serve alla fede, se ancora aiuta al credo, se ancora getta un ponte tra la fede e la cultura. Si è arrivati a situazioni in cui la teologia come scienza viene ormai sganciata dalla fede e, nei momenti più drammatici, anche dalla Chiesa.

La spiritualità, appoggiandosi sempre più su sociologia e psicologia, ha cominciato a perdere il fascino e, soprattutto nella formazione, si è constatato che non si è riusciti a giungere ad una visione organica tra psicologia e spiritualità, ma in un antagonismo rivale si sono creati estremismi tra psicologismo e spiritualismo e la psicologia in molti casi è diventata una sorta di spiritualità secolarizzata.

La gestione delle nostre opere si è sempre più radicalmente appoggiata sulla gestione che vige nel mondo attraverso le scienze moderne dell’organizzazione del lavoro. Entrato in crisi questo impianto aziendale gestionale tipicamente moderno, anche la nostra gestione delle opere mette a dura prova la nostra vita religiosa, perché il ragionamento intorno alla gestione delle opere è una priorità forte che però non va di pari passo con le esigenze attuali del rinnovo della vita religiosa. In questa tensione avviene assai facilmente che, da un lato, le opere stiano perdendo la vera portata apostolica e dall’altro la vita religiosa non riesca a ripartire proprio a causa della pressione della gestione delle opere.

In questo modo si potrebbe ancora vedere la crisi che riguarda il nostro modo di programmazione apostolica, il governo delle comunità, l’obbedienza, la vita comunitaria… Tutte realtà che, fuori dalla fede, perdono il loro significato e diventano caricature nocive. Il problema si pone praticamente in quanto le scienze, che sono un aiuto, sono diventate una specie di fondamento. Si è fatta confusione tra scienze ausiliarie e il fondamento che nessuna di queste scienza può pretendere di costituire.

I. La globalizzazione planetaria. - Il fenomeno della globalizzazione finanziaria e in un certo senso anche culturale sta marcatamente cambiando anche la visione antropologica. La globalizzazione poggiata sulla cultura digitale di una comunicazione nuova e planetaria sta cambiando radicalmente gli orizzonti mentali. Sta cambiando il concetto del mondo, della geografia, della lingua, della tradizione e della stessa identità dell’uomo. In questa immaginaria rete di relazioni si vive comunque senza un coinvolgimento personale, perciò il soggetto sente il bisogno di una più circoscritta identità dove il coinvolgimento può essere più esistenziale: ma comunque non troppo, perché altrimenti non si può più appartenere a questa rete planetaria di comunicazione. Inevitabilmente sta crescendo la tensione tra la globalizzazione planetaria e un regionalismo o localismo di reazione. Questa tensione rimane per ora irrisolta e particolarmente problematica proprio per l’Europa. L’Europa ha una tradizione secolare delle culture del luogo, ma anche una tradizione degli stati nazionali e delle culture etniche. Tutte queste realtà si stanno oggi svegliando, alzando la voce e chiedendo una nuova definizione. Questo movimento mette a dura prova i governi degli stati, le leggi nazionali ed evidentemente quelle internazionali. Un processo di unione è contrastato da molti processi di frantumazione. Queste tensioni potrebbero diventare anche campi fertili per conflitti e scontri ben più gravi di quelli cui si assiste oggi in Europa. Anche questo scenario delle tensioni culturali chiama ad una vivificazione che in primo luogo sarebbe una pacificazione.

 

Precisazioni riguardo alla tensione nell’Europa dei popoli e delle nazioni

A. Storica. - Una prima precisazione riguardo alle tensioni culturali va fatta ricordando due grandi tappe della storia d’Europa. La prima fase giunge a una specie di globalizzazione religiosa, politica e sociale degli imperi, una fase che promuove l’unità. Il Medioevo aveva un forte sviluppo delle regioni e delle piccole entità che però sempre più si sottomettevano a principi più globali dell’unità. Si potrebbe forse parlare di una specie di unità “forzata” che alla fine sfocia nelle reazioni di autoaffermazione. Questo coincide con lo sviluppo di un concetto moderno di nazione e di creazione dei grandi stati nazionali della seconda fase. Ma proprio questo oggi non tiene più. Ormai verso la fine della modernità è avvenuta anche una dolorosa separazione dell’Europa dell’Est e dell’Ovest, con l’annientamento dell’Europa centrale che era una delle realtà cattoliche più compatte. La coscienza europea si è così dimezzata, ridotta, e oggi assistiamo a nuove forme dei nazionalismi europei. Nell’Est si vuole ciò che è stato negato dal comunismo che ha imposto una sorta di internazionalismo forzato; nell’Ovest il nazionalismo si veste di xenofobia. Si è gelosi di ciò che si è raggiunto, e lo straniero costituisce la minaccia al mio benessere. Dopo queste due fasi, è evidente che, per evitare una situazione conflittuale, è il momento di una terza fase dove i popoli e le nazioni europee si uniranno sulla base di un principio libero.

B. Terminologica. - Conviene anche un veloce sguardo terminologico alla cultura per comprendere una possibile via di uscita dalle tensioni culturali. Pavel Florenskij fa vedere come il termine cultura provenga da culto. Culto inteso come radicale riconoscimento dell’Altro. Un riconoscimento così radicale che si fisicizza nei gesti, in parole che stanno diventando quel tessuto di significati e valori che è esattamente la cultura. La cultura nasce dunque da una forza interiore che spinge l’uomo a uscire da sé e a riconoscere l’altro, a comunicare e a comunicarsi. Solov’ëv dice che l’unica forza capace di far uscire l’uomo dal proprio guscio egoista e autoaffermativo è l’amore, perché solo l’amore è una forza concreta quanto l’egoismo. Perciò solo l’amore può sradicarlo. Arsen’ev, perciò sviluppa la visione della cultura come frutto dell’amore. La vera forza motrice della cultura è l’amore perché spinge l’uomo alla comunicazione, a creare la relazione con gli altri. Solo le relazioni con gli altri sono l’ambito di sviluppo della cultura. In forza dell’amore, l’uomo continuamente crea la cultura, creando un organismo sempre più ricco di comunicazione. Se una cultura si innamora di se stessa e si rivolge narcisisticamente a ciò che ha prodotto, possiamo parlare di sclerosi culturale, in quanto non è più un organismo di comunicazione, ma di chiusura, di isolamento e di scontro. Se invece la cultura è viva, è capace persino di morire a ciò che ha creato per affermare ancora il riconoscimento relazionale d’amore degli altri, credendo che risusciteranno nuovi valori e nuovi significati. La cultura è così una esplicitazione del principio religioso. Riconoscere l’Altro è in sintesi il principio religioso. E anche teologicamente noi sappiamo che riconoscere Dio come primo, affidarsi a lui, è un atto d’amore cui l’uomo viene abilitato con la salvezza operata in Cristo. In questo senso l’apertura culturale e il dialogo interculturale diventano una verifica della autenticità della fede.

C. Spirituale. - Una precisazione è necessaria sotto il profilo spirituale. Penso che la pietra miliare al riguardo l’abbia posta Giovanni Paolo II con la Slavorum Apostoli. Lì il Papa interviene coraggiosamente sulla divisione d’Europa prospettando una nuova fase dove l’Europa si unirà sui principi spirituali e religiosi. L’unità dell’Europa è necessaria, perciò bisogna cominciare a conoscersi, conoscere la ricchezza della tradizione spirituale e culturale e favorire tutto ciò che giova all’adesione l’uno all’altro. Lo sforzo di questo pontificato riguardo all’Europa è enorme e non va letto solo su una superficiale affermazione delle radici cristiane dell’Europa. Per il Papa le radici sono il motivo e la forza di una nuova fase religiosa dell’Europa, quella di un’unità basata sui principi spirituali, non escludendo tutte le altre dimensioni di questa unità.

 

La Terza Fase dell’Europa: la missione dei cristiani

Stando a ciò che abbiamo detto finora, si intravede che si prospetta una terza fase del divenire europeo. Dopo un’epoca dell’affermazione dell’individualità si può pensare e ormai constatare una tendenza all’unità in atto. L’unità ha cominciato a realizzarsi su realtà come l’economia, la finanza, le legislazioni, e questi passi non vanno disprezzati. È importante tener bene in mente che tutto questo è ausiliario, ma il fondamento può essere solo un’altra cosa, cioè una dimensione spirituale religiosa germogliata dalle radici della prima evangelizzazione.

Una libera adesione dei popoli all’unità del continente europeo, una libera adesione che è espressione di quell’atteggiamento religioso che è il riconoscimento dell’altro. Questa unità spirituale sarà di fatto realizzata tramite la fede dei credenti d’Europa. Il principio che darà vita all’unità, che darà contenuto a questo processo è la fede, la fede che crea questa forma mentis del riconoscimento dell’altro nella sua oggettività. (Il principio religioso è il riconoscimento dell’Altro, - con la maiuscola - ma difatti diventa la relazione fondante verso l’altro - con la minuscola -).

Il primo compito dei cristiani è dunque chiaro: si tratta di ricollocare la fede al posto che le spetta. È la riscoperta della vita spirituale nella sua dimensione autentica.

La missione della vita religiosa. - La vita religiosa è proprio la realizzazione del principio religioso in senso integro e perciò profetico. Infatti la vita comunitaria è la parte essenziale della vita religiosa. Questa forma mentis di relazione viva e personale verso Dio, di riconoscerlo radicalmente, nella vita religiosa trasuda in tutto il suo agire e soprattutto nella sua mentalità. Perciò è evidentemente una vita comunitaria. In questo senso, possiamo parlare di vita religiosa come lievito e sale della fede, e dunque una testimonianza convincente e affascinante della vita secondo il principio religioso. Se vogliamo che l’Europa entri nella terza fase e dunque in una fede matura che esprima relazioni libere, che sia capace di creare la comunione, noi religiosi siamo chiamati a permeare tutto con un autentico atteggiamento da credenti. Siamo evidentemente chiamati a dare la priorità a tutto ciò che riguarda la fede e la vita spirituale, per diventare il motore di questo movimento che dovrebbe attirare dietro a sé i popoli d’Europa. Dovremmo essere un’immagine della profezia; nelle nostre comunità siamo chiamati a far trasparire questa libera adesione e la comunione delle culture. Più che creare e cercare nuove forme di azione e di presenza, più che aumentare le opere delle istituzioni che si inseriscono nell’attuale cammino d’Europa, siamo probabilmente chiamati a vivificare, a dare l’anima a ciò che ha creato l’Europa. Dare l’anima significa dare la vita, la vita redenta. La redenzione in senso teologico antropologico significa unità. Ciò che è redento è strappato alla divisione, all’isolamento. L’uomo redento è l’uomo reintegrato, è l’uomo che si scopre abbracciato dall’amore e ricomposto. La nostra vocazione nelle origini dei nostri carismi ha fatto sempre vedere questo taglio della salvezza. Perciò diventa il principio del fascino, dell’attrazione. Se la nostra vocazione coincide con la nostra salvezza - e così dovrebbe essere - allora dobbiamo avere il coraggio di esplicitare l’unità, perché questo è il mondo redento. L’unità basata sulla libera adesione vuol dire salvare la comunione e l’individualità. Sembra che questa sia la sfida davanti alla quale stiamo. Se cominciamo a fecondare l’Europa con questo principio, allora il vecchio continente, entrando in questa terza fase del proprio cammino di fede, si accinge ad avere ancora qualcosa da offrire agli altri popoli, alle altre Chiese.

Da questo segue che la vita religiosa già in se stessa è evangelizzazione, è una vita pastorale: chiaro, quando dà priorità al religioso, spirituale e culturale (inteso come sopra spiegato). Quello che Solov’ëv ascrive alla cosiddetta terza forza penso che potrebbe essere una magna charta della vita religiosa oggi in Europa. Applichiamo dunque la terza forza descritta da Solov’ëv alla vita religiosa e di fronte a noi si spiega la nostra vocazione oggi. Il principio agapico «deve dare all’evoluzione umana il suo contenuto assoluto, può essere soltanto una rivelazione di quel mondo divino e superiore e la gente e il popolo per cui questa forza dovrà manifestarsi, deve essere soltanto mediatore tra l’umanità e la realtà sovrumana, strumento libero e cosciente di quest’ultima. …Non deve avere nessun compito speciale delimitato, non è chiamato a lavorare sulle forme e gli elementi dell’esistenza umana, ma soltanto a comunicare l’anima viva, a fornire il centro focale e l’integrità all’umanità lacerata e morta, unendosi al principio divino unitotale. …Non ha bisogno di nessuna superiorità particolare, di nessuna forza speciale e di talenti esteriori, perché agisce non di per sé e realizza non il suo. [Da lui]… si richiede soltanto libertà da ogni esclusivismo e unilateralità, elevazione al di sopra degli angusti interessi particolaristici, si richiede che non affermi se stesso con energia esclusiva in qualche settore particolare inferiore della vita e dell’azione, si richiede l’indifferenza per tutta questa vita con i suoi interessi piccini, si richiede una fede integra nella realtà positiva del mondo superiore e un rapporto passivo verso il medesimo».1

 

Ripensare alcuni atteggiamenti

Una tale visione della nostra vocazione esige oggi il coraggio di ripensare alcuni nostri atteggiamenti, e pure il coraggio di ripensare i contenuti della nostra fede. Si parla spesso della tolleranza, ma non sembra un termine adatto. La tolleranza ha certamente una portata positiva in quanto evita il conflitto, ma certamente non ha la carica positiva capace di creare la comunione e l’unità delle persone. Anzi, di per sé si tollera una certa dose di veleno, dunque può avere anche un significato assai problematico all’interno di una visione teologica e antropologica della convivenza umana. Il termine che ci offre la Bibbia è accoglienza, ma accoglienza è un atto d’amore e l’amore è dono dello Spirito Santo. Senza una vera pneumatologia e senza una radicale fede nello Spirito Santo mi sembra che ogni sforzo per la convivenza, ogni sforzo per l’unità e la comunione è vano e i risultati sono di poca durata.

Ma l’accoglienza è un dramma, un dramma che esige la rinuncia, la morte a se stessi, esige il digiuno, la pazienza, coinvolge una serie di virtù. L’accoglienza difatti in senso biblico comporta la conversione. Si realizza nelle coordinate del mistero pasquale, della passione, morte e risurrezione. Chi accoglie, dopo l’accoglienza non sarà più come era prima, e chi è accolto non sarà a sua volta più come prima. L’altro è dunque inteso come un’occasione di vivere Cristo, di realizzare il principio agapico nella storia della Chiesa, in ogni tempo e in ogni luogo. L’accoglienza esige dunque un lavoro di ascesi motivata da un amore concreto, cioè da una salvezza sperimentata.

È necessario rinunciare a tutti i pregiudizi, etnici, etnocentrici, culturali e storici. Bisogna promuovere una formazione per essere in grado di amare culturalmente. Nella formazione bisogna tenere conto che la nazione, la nazionalità, l’etnia, la propria identità culturale sono realtà che di fatto devono ancora essere evangelizzate, perché troppo facilmente prevalgono sul Vangelo e sulla Chiesa.

Sulla formazione non sarebbe male pensare di farla più europea, come fu un tempo quando era facile trovare belgi, francesi, tedeschi, italiani del nord che studiavano non solo a Vienna, ma anche a Olomouc, a Zagabria, a Praga, a Cracovia… persino a Leopoli. La convinzione che bisogna ad ogni costo portare tutte le novizie in Italia e formarle qui potrebbe essere semplicemente una forma di narcisismo culturale e, dunque, indice di una qualche patologia nella vita spirituale. Nella formazione sarebbe molto utile essere in grado di rispondere a che cosa vuole dire Cristo a noi con le vocazioni, cioè con le sorelle che provengono da altre culture. Dove bussa lo Spirito attraverso la loro presenza? Avere una dinamica che ci aiuti continuamente a domandarci che cosa possiamo imparare dagli altri, dove possiamo allargare la nostra visione, perché insieme agli altri, in modo che concretamente si formi una mentalità credente, costruendo quell’intelligenza della fede.

Sarebbe, forse, opportuno cominciare a importare nel nostro orizzonte anche i testi dei popoli europei da cui provengono le sorelle; testi, letteratura, poesia di popoli che normalmente non si leggono, cioè del centro ed est Europa. Altrimenti ci si impoverisce già in principio, riducendo l’orizzonte, impedendo di giungere ai tesori nascosti che oggi possono aiutarci a vivere la fede.

Perché non verificare anche il rapporto che si ha verso le suore straniere che lavorano in Italia, che sono in missione in Italia? Sarebbe molto bello se la loro presenza non fosse semplicemente supplenza alla nostra mancanza di vocazioni; sarebbe importante che diventassero occasione della nostra conversione nella nostra attività pastorale, che fossero motivo di approfondimento. Già il semplice fatto di considerarle, di sentirle, di permettere loro di fare a loro modo, di inserirle nella pastorale a loro modo, già questo semplice fatto di considerarle aiuterebbe noi a vivere quel principio religioso di cui si parlava prima. E così le nostre comunità diventerebbero più purificate e più convincenti. Chissà se si è mai chiesto loro che cosa pensano del nostro lavoro pastorale, che cosa farebbero loro, semplicemente per permettere allo Spirito di parlarci, perché forse davvero con la loro presenza Cristo vuole dire una parola.

 

Conclusione

Concludendo ci possiamo concentrare su questa relazione Est Ovest dell’Europa e in un certo modo riassumere tutto ciò che si diceva fin qui.

L’Est sotto il comunismo ha vissuto dei doni straordinari dello Spirito Santo proprio per la vita religiosa. Le persecuzioni hanno favorito il fiorire di diverse forme di inserimento della vita religiosa nella pastorale e sono accaduti veri e propri miracoli spirituali. Lo stesso si potrebbe dire anche per l’Occidente, dove, alle prese con la modernità, non sono mancati grandi esempi di santità e di grande profitto pastorale. Ora si rischia che le generazioni future siano estremamente critiche con noi dicendo che abbiamo avuto la straordinaria occasione di vivere il decennio di liberazione dell’Europa e forse abbiamo fatto poco, o fatto persino i passi sbagliati. Dall’Occidente ci si è precipitati all’Est non poche volte con il desiderio di trovare le vocazioni, e arrivando là e agendo pastoralmente come se lavorassimo a casa nostra. Dall’est si correva all’Occidente per aggiornarsi e riprendere lo stile di vita delle congregazioni di qua. Dimenticando così di riflettere, di pensare, di studiare, di incontrarsi per pensare, riflettere e pregare.

Si è fatta una riflessione critica sulla nostra esperienza della modernità, sul nostro andamento delle opere, della formazione e delle vocazioni in questi decenni per essere in grado di comunicare alle sorelle dell’Est non tutto indistintamente, ma il frutto di una selezione fatta con un discernimento acuto, con una elaborata riflessione teologica, in modo che le sorelle dell’Est possano apprendere la sapienza delle sorelle dell’Ovest per affrontare loro oggi la contemporaneità? Si aiuta alle sorelle dell’Est a fare la riflessione sugli anni della clandestinità, a ricavare una teologia del martirio e tirare le somme che dovrebbero essere la base della loro attuale impostazione, il che potrebbe essere il dono ricco e prezioso che loro offrono all’Occidente?

Dall’incontro della vita religiosa dell’Est e dell’Ovest probabilmente dipende molto del futuro dell’Europa, perché in questo incontro si potrebbe in modo esplicito realizzare quel principio religioso di cui l’Europa oggi ha bisogno per vivificare se stessa. Nell’Est ci sono anche delle Chiese della tradizione apostolica d’Oriente, sia cattoliche che ortodosse: sarebbe per noi una grande occasione di aprirsi a un dialogo tra le Chiese della tradizione apostolica per cercare insieme nei propri tesori le cose che oggi ci aiutano a sostenere la nostra missione. Sarebbe anche utile, per svincolarsi da questo ormai così chiuso modo di ragionare nostro: noi - protestanti - il mondo. Che cosa potrebbe essere per queste Chiese la nostra testimonianza, ormai riflettuta ed elaborata, dell’impatto con la modernità e che cosa sarebbe per noi ad esempio la loro tradizione della vita spirituale e della liturgia?

Il ventesimo secolo è il secolo tra i più forti della nostra fede. L’Europa ha avuto un grande numero di testimoni e martiri, di santi. Scopriamo la comunione di questi santi dai quali apprenderemo anche il cammino per noi. Studiando i santi in modo spirituale non rischieremo di perderci nelle teorie e nelle discussioni sterili, ma approfondiremo una spiritualità e una teologia sempre legata alla vita del nostro continente.

 

Dibattito

D.: P. Marco, da bravo filosofo, ha fatto una bellissima epochè nelle ultime battute, ricollegandosi con quanto aveva comunicato nel primo intervento dell’assemblea del 1999: «Morire - rinascere dall’alto».

Giustamente afferma che una comunità di cinque persone, di 75 o 80 anni, può ancora avere la forza di fare esplodere vita ed energia. Una bellissima epochè: ha iniziato il dialogo con l’assemblea generale nei termini di una rinascita nella fede e nello spirito e, ovviamente, non poteva mancare questo collegamento nel contesto odierno.

Se non rubo la parola all’Assemblea, vorrei esporre un’impressione che mi sta provocando non poco. P. Marco parlava delle nuove missionarie in Italia. Ecco, noi siamo preoccupate da un verso di non fare, di non portare persone come supplenza alla mancanza di vocazioni, però mi pare che quest’ottica possa anche aprirsi a una nuova prospettiva. Non so se padre Marco vuole spendere una parola per suggerirci in che termine noi possiamo fare questo salto culturale e religioso, perché non è sufficiente per noi cambiare terminologia, almeno come religiose in Italia.

 R.: Io distinguerei: una cosa è la formazione tipo della Congregazione, per esempio il noviziato in Italia: Porto le sorelle che trovo in giro nel mondo a fare la loro formazione in Italia.

Da un lato è chiaro che quanto prima si può avere il noviziato sul posto, tanto meglio è, a motivo anche dell’inculturazione, ma so che a volte non si può. Allora bisognerebbe avere tanta spiritualità e tanta fede da organizzare i noviziati che sono in Italia in un modo tale che la novizia non sia troppo estrapolata dall’ambiente, dalla cultura, dalle tradizioni da cui proviene, perché altrimenti creeremo una silenziosa contestazione che prima o poi esploderà. Se sono africane esploderà prima, se sono sud africane esploderà subito, e se sono asiatiche, forse, tra dieci anni, però esploderà, perché l’Asia è più silenziosa, ma ciò non vuol dire che è d’accordo sui nostri metodi.... Come sappiamo, è facile che l’asiatico ti dica sì, sì, però il giorno dopo non viene, anche se, gentilmente, ha detto sì, sì.

Penso che bisogna tenere conto che nella formazione ci sia questa apertura culturale, il che non vuol dire fare cose strane, o per gioco… Una volta ho visto una cappella con un leone sull’altare, stavo per dire elefante, ma era un leone. Quando l’ho visto ho detto: insomma lo potevano pure mettere in qualche altra parte. Mi hanno detto: no, è per la sensibilità culturale, perché c’è gente che viene non so da quale Paese, dove il leone è una bestia importante. Non facciamo queste stupidaggini se si può, però cerchiamo di avere un vero approccio di riconoscimento culturale, impariamo qualche cosa dalle altre culture e domandiamoci continuamente che cosa Dio vuol dirci attraverso questa persona nuova, questa ragazzina, che è venuta da un Paese lontano dal nostro… Mi ricordo quando sono entrato in noviziato, il maestro dei novizi ogni tanto mi chiedeva se c’era qualche cosa di strano che io notavo. Io avevo una lista ogni settimana. Mi sembrava un po’ strano tutto. Alla fine gli dissi: perché mi chiedi continuamente queste cose? Perché il Padre Provinciale, che vive ancora ed è un uomo saggio, che è stato in prigione sette anni, mi chiede continuamente quali cose sembrano strane ai novizi, perché dobbiamo discernere: forse sono cose che dobbiamo cambiare, oppure sono essenzialmente ignaziane, nel qual caso dobbiamo aiutare il novizio perché le inglobi, le digerisca, le faccia proprie, altrimenti il novizio con il suo gusto, prima o poi ci spinge a cambiare.

Noi dobbiamo continuamente avere un po’ di questa sapienza per vedere che cosa le nuove generazioni portano alle nostre comunità. E’ chiaro che ciò non significa che domani andiamo a fare discoteca, se parliamo della fede, però questo bisognerebbe fare a mio parere. Poi, se si parla di Europa, penso che sia importante che nelle comunità dove si formano le persone che vengono dai Paesi dell’Est siano autorevolmente rappresentate anche altre culture, cioè che anche la maestra si vada a leggere un po’ di letteratura polacca, rumena, croata o non so che cosa e che non citi continuamente… il Petrarca! Che possa citare non solo Piero Coda e Bruno Forte (?) ma anche teologi, pensatori e padri spirituali di quelle terre. Questo è certamente un piccolo inizio di come formare, ma bisogna anche convincerci che noi non siamo migliori degli altri, perché si cade spesso su tremendi pregiudizi…

Per quanto riguarda le suore che invece lavorano in Italia, se è una suora formata che è venuta in Italia a lavorare, o se si è formata qui e poi l’hanno impiegata in una missione in Italia, io penso che sia triste (siccome insegno cultura sto sempre attento), vedere, per esempio, questa sorella filippina, così carina, che è diversa anche fisicamente - la donna asiatica è diversa dalla nostra - che adesso si muove ugualmente come tutte le altre, quasi fossero tutte sarde o tutte lombarde…, e lei fa gli stessi passi, dice e fa le stesse cose, accende le candele sull’altare allo stesso modo… Mi domando: ma è possibile che questa donna non senta dentro di sé qualche ribellione che un giorno esploderà?… Forse si potrebbe fare scuola diversamente, forse se le lasciassimo libere, queste sorelle sarebbero diverse, forse nella nostra pastorale giovanile, o con i nostri studenti al liceo, agirebbero e si comporterebbero diversamente, se noi non indicassimo loro come fare. Ecco, bisognerebbe rischiare di più… più che sbagliare non possono… L’abbiamo fatto anche noi, dunque stiamo tranquille. Un po’ di rischio penso che sia urgente, in questo senso.

 D.: Riprendo l’affermazione che oggi c’è crisi di razionalità e, conseguentemente, anche crisi della teologia, la teologia tomista non ci aiuta più su certi piani, con le categorie chiare e distinte che ci hanno formato, che ci hanno aiutato. Ho la percezione che, comunque, vada dilagando così un senso dell’esperienzialità. Cosa molto buona vista anche dall’angolatura, per esempio, di questa creatività. Però ho l’impressione che ci faccia sfociare in quel soggettivismo di cui questa mattina si vedeva anche il rischio, il pericolo. Allora la mia domanda è questa: se da una parte stiamo perdendo un patrimonio che ci ha aiutato, anche se oggi è obsoleto e non ci aiuta più, dall’altra parte sta imperando questa forma di verità soggettiva. E’ vero che dobbiamo dialogare per poter fare interagire queste due realtà, ma il dialogo basta? E che cos’altro dovrebbe sostenerci in questo passaggio, in questo snodo, perché quel patrimonio di pensiero, di idee e di linee formative che noi di una certa età abbiamo avuto, non vada perduto del tutto, ma venga rinnovato? Quale è l’arma culturale da assumere? Io direi che è ancora la razionalità che ci deve aiutare, ma come esprimerla? Ci sono ancora delle regole?

 R.: Provo a far vedere come si potrebbe ragionare spiritualmente su certe cose, perché un’affermazione categorica sembra una presunzione illecita...

La razionalità moderna, ossia, come la modernità ha inteso la razionalità, ha prodotto il soggettivismo sentimentalista di oggi. Il che vuol dire che intendere la razionalità come l’abbiamo intesa negli ultimi quattro secoli non conviene, perché produce una reazione esattamente opposta. Perché questa razionalità, razionalismo, positivismo, tutte queste cose che noi abbiamo avuto, che cosa hanno prodotto? Un sentimentalismo lacrimogeno, un soggettivismo all’ultimo estremo. Questo è un fatto. Noi oggi navighiamo nella nebbia, nel soggettivo, perché lo slogan, il motto del post-moderno è: «Penso come mi sento, decido come mi sento, reagisco come mi sento e faccio come mi sento». E’ chiaro, che pensando così, uno, quando non si sente in sintonia con la moglie la lascia: sento un’altra cosa, non sento più niente, mi sono innamorato di un’altra... Questo non è da sottovalutare: questa è la verità, no? Ora io penso che la modernità ha ridotto, con un riduzionismo abbastanza pesante, l’intelligenza, prendendo come intelligenza solamente la “ratio”, ossia il raziocinio analitico, quello che è capace delle specializzazioni, ma non ha più inteso l’intelligenza nel suo senso globale, dove invece fanno parte dell’intelligenza: il sentimento, l’intuizione, la sintesi e la capacità di pensare insieme, di analizzare, frantumare, sezionare e via dicendo. Allora noi abbiamo perduto l’intelligenza, ma non oggi, a mio parere, quando si dice che il pensiero debole è la morte dell’intelligenza, io non sono d’accordo. Per me l’intelligenza ha cominciato a ridursi con Cartesio, non con Leotard. Leotard ha messo solo i puntini sulla i, lui ha messo l’ultimo mattone dicendo: siamo arrivati qui. Ma l’intelligenza si è ridotta prima. Tutto è diventato specializzazione, solo specializzazione, la sintesi non c’è più in nessuna parte, non solo nella fede.

Lei ha cominciato a parlare di Tommaso e di tomismo. Buona notte! In quel tempo ancora c’era intelligenza, c’era filosofia, c’era la sapienza, c’era il sapere, c’era persino la spiritualità. Ma noi oggi non siamo tomisti e penso che sia difficile esserlo con tutto questa frantumazione del post-moderno. Però certamente questi grandi maestri una parola decisiva oggi lo devono riavere ancora, se no non si esce fuori, e non solo Tommaso, ma tutti quei grandi del passato, perché bisogna recuperare l’intelligenza. Altrimenti andremo veramente a finire male.

 Tommaso d’Aquino e il tomismo. - Io però distinguerei, perché il tomismo, mi dispiace dirlo, ma sulla spiritualità è arido, se ce l’ha; Tommaso, invece, è mistico, ha scritto inni eucaristici, parla del palato che gusta il Corpo di Cristo, del cuore che venera e adora il Signore, ma la razionalità moderna è Hegel, è Kant… Io vedo i seminaristi che lo stanno studiando, a loro piace tutta questa matematica teologica, eppure nella loro stanza hanno un altarino con Padre Pio, Brigitte Baurdeau, ecc., mettendo tutte queste cose insieme; li ho visti con i miei occhi, il rosario della nonna, il rosario della mamma, il rosario della zia, tutti appesi uno sopra l’altro: poi il cuore che gli ha dato una ragazza dello scout, con cioccolato, frecce… Allora come mettere insieme uno studio così astratto, così pesante, così difficile, e poi per la devozione tutto un’altra cosa nel lato opposto? Non si può… Penso che bisogna tornare all’intelligenza e, modestamente, sarà contestato da tutti però pazienza, io penso che i dogmi nostri e la liturgia sono la massima espressione dell’intelligenza umana, la massima espressione, anche del linguaggio, perché lì devi tenere conto di tutto l’insieme e l’intelligenza, a mio parere, ha questa portata. E siccome l’intelligenza sta crescendo, nasce e vive, ha radici nell’amore che lo Spirito santo ci dà quando ci crea.

Noi non dobbiamo pensare all’uomo se non che qui c’è l’amore che Dio ci ha dato, è da questo amore che la massima intelligenza è agape : se io sento con amore, penso con amore, allora io sviluppo un’intelligenza complessa. Se tu leggi i Padri, puoi notare con quanta e quale elaborazione speculativa affrontano le questioni! Non sono fideisti, lacrimogeni. Ma oggi anche la vita religiosa è così. Tu prendi alcune comunità nuove, appena sorte, vedi che c’è un impianto semplicista di fondo che non tiene più di un paio di anni. Ci vuole una struttura tanto complessa, e qui sono d’accordo che bisogna fare qualcosa, ma a mio parere bisogna di nuovo imparare a leggere i misteri della fede con l’intelligenza della fede, perché è lì il rebus! Parlando dell’Italia, gli uomini che hanno più inciso sulla società moderna italiana, sono i laici italiani del dopoguerra o prima della guerra, sono state persone che erano anche molto raffinate nella fede. La Pira, per esempio, non era uno che non sapeva pensare sulla Trinità, perciò ha potuto avere un pensiero sociale che si aggancia direttamente al mistero trinitario e non a un principio astratto. I grandi che hanno voluto un’Europa cristiana, che l’ hanno partorita come Europa, hanno avuto veramente una conoscenza teologica tale da poter gestire queste cose razionalmente.

  

1. V. Solovev, Filosofskie nac˘ala cel’nogo znanija, tr. it. in ID., Sulla Divinoumanità e altri scritti, Milano 1971, pp. 49-50.

 

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