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Habel Habalim (cf Qo 1,2)
Carissimo Abele,
perdonami se oso scriverti anche se non conosco molto della tua vita,
della quale le ombre del tempo sembrano aver cancellato ogni traccia dai
solchi della Storia. A dirti la verità, anzi, ti scrivo proprio per
questo: ti scrivo perché tu sei habel cioè, secondo la versione ebraica
del tuo nome, un soffio, simbolo dell’effimero, il cui ricordo si perde
nei meandri della memoria degli uomini.
Ti scrivo perché di Abele, in giro, ce ne sono tanti, giovani come te
e che come te hanno sogni, ideali e progetti davvero nobili e,
soprattutto, belli. Qui in Africa, ad esempio, habel sono le nuove
generazioni che hanno la vita breve a causa dell’Aids o della
denutrizione, della malaria cerebrale o del virus Ebola. Gli habel delle
nazioni dell’Occidente, invece, godono di buona salute, però sono
inconsistenti, sono figli dispersi, come cantava Jovanotti qualche anno
fa, tutto il contrario del solido albero piantato sulle rive del fiume.
Sul loro conto c’è tutta una lettura sterminata - altro che i brevi
righi che la Scrittura dedica alla tua vicenda -: emblema dell’uomo
nucleare, generazione senza padri, gente dai valori deboli e dalle
appartenenze corte. Si entusiasmano per le parole di un Papa che li
invita ad essere sentinelle del mattino, sono capaci di vegliare una
notte intera nel silenzio di Taizè, spendono il loro tempo ed il loro
entusiasmo tra i bambini di un Oratorio o gli anziani di una casa di
riposo; però poi il loro cuore non è capace di superare la soglia del
“mi sento non mi sento”. Ogni tanto (e su questo punto desidero sostare
più a lungo), spinti dai nobili e puri sentimenti che li animano, dal
loro irresistibile desiderio di bellezza e di autenticità, essi arrivano
a bussare alle porte delle nostre comunità religiose: molti di loro
riescono persino ad arrivare alla prima professione, i più fortunati
addirittura ai voti perpetui. Ma, immancabilmente, prima o poi si
arrendono.
Anche qui le ipotesi - o, meglio, le chiacchiere - si sprecano. Forse
tu, che sei il loro capostipite puoi aiutarmi a capire ed a capirli, il
che è tremendamente importante perché, su nel Nord del mondo, il futuro
della vita cristiana in generale e di quella consacrata in particolare
si gioca su queste giovani fragili forze.
O forse, per carpire il mistero della tua e della loro esistenza,
bisognerebbe interrogare tuo fratello Caino, così uguale e così diverso
da te. Caino ha la tua stessa faccia, sì, però è tutta un’altra pasta.
Egli è il primogenito, appartiene ad un’altra generazione, ha fatto un
altro noviziato ed ha ricevuto un’altra formazione. A Caino piacciono le
regole “solide” e concrete - è un tipo preciso, lui -: per questo di
professione fa l’allevatore mentre tu, povero stolto Abele, coltivi la
terra…per produrre frutti, certo, ma io oso anche aggiungere perché ti
piacciono i fiori.
Caino non ha tempo da perdere con tutte queste romanticherie: a lui,
più che il bello interessano il bene e il vero. Con il risultato che le
sue proposte vocazionali e i suoi suggerimenti di vita risultano poi
tremendamente uggiosi e tediosi al punto tale da non essere graditi
neppure al Signore, che di sé dice di essere il bel pastore (confronta
l’originale greco di Gv.10,11).
Caino - è questo il suo dramma, più ancora di quello di essere un
assassino - non ti ha saputo custodire, non ti ha voluto proteggere, non
ha saputo mettersi al fianco della tua giovane vita per condividerne la
fragilità, senza cedere alla tentazione di importi i suoi solidi schemi
e canoni. Caino ti ha ucciso, prima ancora che con la forza delle sue
mani, con la violenza della sua giustizia, con l’aridità della sua
mancanza di misericordia, con la sua assenza di poesia, con l’incapacità
strutturale di accogliere il mistero di debolezza che tu eri. Non ha
compreso il tuo modo di pregare, di stare alla presenza di Dio e ha
ironizzato del tuo desiderio di vivere una vita radicalmente evangelica
(può mai Abele, il “soffio”, vivere esperienze così forti?). Ha
abbassato il tiro dei tuoi sogni, ti ha inoculato la sua mediocrità
senza capire che essa - entrando a contatto con la tua fragilità
affettiva, con il tuo relativismo, con il tuo naturale individualismo -
ti avrebbe ucciso.
Ancora oggi, a noi, il Signore chiede: Dov’è Abele, tuo fratello?
Dov’è Abele e non un fratello qualsiasi! Egli ci chiede conto in modo
tutto particolare della vita di questi fratelli più giovani e più
gracili, ci chiede conto dei loro progetti, delle loro idealità, delle
loro ali che - come diceva don Tonino Bello - non abbiamo aiutato a
volare, dei loro sogni che non abbiamo saputo condividere.
Sostando in silenzio davanti alla tua storia, chiedo al Signore - per
me e per le mie sorelle - la forza di ascoltare questa domanda che da
millenni inquieta l’umanità e che, da alcuni anni, disturba i miei
pensieri. Ascoltarla non per dare una risposta, bensì per sentirne tutto
il peso e tutta la gravità e per cogliere tutto il dolore che tu e tutti
gli altri Abele di questo mondo vi portate dentro. Dolore non urlato o
rinfacciato (come si faceva negli anni della contestazione), bensì
pianto in silenzio e nascostamente.
Ancora, chiedo il coraggio di guardare alle vostre fragili storie con
verità e carità. La verità che impone che ci rendiamo conto almeno delle
nostre omissioni e carenze, incapacità e negligenze. La carità che ci
chiede uno sguardo di misericordia, una parola ammantata di silenzio,
perché poi, per quanto possano essere effimere come un soffio o flebili
come un alito, le nostre vite (TUTTE!) sono un mistero nella mano di Dio
e dovremo aspettare la fine del nostro mondo per capire chi, davvero,
“aveva ragione”, con buona pace di tutte le nostre proiezioni
sociologiche e psicologie da strapazzo.
Infine, chiedo la Sapienza di lasciarci ferire dalla vostra
strutturale debolezza così che, piagate, possiamo entrare nel mistero di
Gesù crocifisso e di tutti i crocifissi della Storia.
Arrivederci, Abele!
Maria Mori
Missionaria in Tanzania
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