n. 9
settembre 2002

 

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UNA PAROLA ANTICA

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Habel Habalim (cf Qo 1,2)

Carissimo Abele,

perdonami se oso scriverti anche se non conosco molto della tua vita, della quale le ombre del tempo sembrano aver cancellato ogni traccia dai solchi della Storia. A dirti la verità, anzi, ti scrivo proprio per questo: ti scrivo perché tu sei habel cioè, secondo la versione ebraica del tuo nome, un soffio, simbolo dell’effimero, il cui ricordo si perde nei meandri della memoria degli uomini.

Ti scrivo perché di Abele, in giro, ce ne sono tanti, giovani come te e che come te hanno sogni, ideali e progetti davvero nobili e, soprattutto, belli. Qui in Africa, ad esempio, habel sono le nuove generazioni che hanno la vita breve a causa dell’Aids o della denutrizione, della malaria cerebrale o del virus Ebola. Gli habel delle nazioni dell’Occidente, invece, godono di buona salute, però sono inconsistenti, sono figli dispersi, come cantava Jovanotti qualche anno fa, tutto il contrario del solido albero piantato sulle rive del fiume. Sul loro conto c’è tutta una lettura sterminata - altro che i brevi righi che la Scrittura dedica alla tua vicenda -: emblema dell’uomo nucleare, generazione senza padri, gente dai valori deboli e dalle appartenenze corte. Si entusiasmano per le parole di un Papa che li invita ad essere sentinelle del mattino, sono capaci di vegliare una notte intera nel silenzio di Taizè, spendono il loro tempo ed il loro entusiasmo tra i bambini di un Oratorio o gli anziani di una casa di riposo; però poi il loro cuore non è capace di superare la soglia del “mi sento non mi sento”. Ogni tanto (e su questo punto desidero sostare più a lungo), spinti dai nobili e puri sentimenti che li animano, dal loro irresistibile desiderio di bellezza e di autenticità, essi arrivano a bussare alle porte delle nostre comunità religiose: molti di loro riescono persino ad arrivare alla prima professione, i più fortunati addirittura ai voti perpetui. Ma, immancabilmente, prima o poi si arrendono.

Anche qui le ipotesi - o, meglio, le chiacchiere - si sprecano. Forse tu, che sei il loro capostipite puoi aiutarmi a capire ed a capirli, il che è tremendamente importante perché, su nel Nord del mondo, il futuro della vita cristiana in generale e di quella consacrata in particolare si gioca su queste giovani fragili forze.

O forse, per carpire il mistero della tua e della loro esistenza, bisognerebbe interrogare tuo fratello Caino, così uguale e così diverso da te. Caino ha la tua stessa faccia, sì, però è tutta un’altra pasta. Egli è il primogenito, appartiene ad un’altra generazione, ha fatto un altro noviziato ed ha ricevuto un’altra formazione. A Caino piacciono le regole “solide” e concrete - è un tipo preciso, lui -: per questo di professione fa l’allevatore mentre tu, povero stolto Abele, coltivi la terra…per produrre frutti, certo, ma io oso anche aggiungere perché ti piacciono i fiori.

Caino non ha tempo da perdere con tutte queste romanticherie: a lui, più che il bello interessano il bene e il vero. Con il risultato che le sue proposte vocazionali e i suoi suggerimenti di vita risultano poi tremendamente uggiosi e tediosi al punto tale da non essere graditi neppure al Signore, che di sé dice di essere il bel pastore (confronta l’originale greco di Gv.10,11).

Caino - è questo il suo dramma, più ancora di quello di essere un assassino - non ti ha saputo custodire, non ti ha voluto proteggere, non ha saputo mettersi al fianco della tua giovane vita per condividerne la fragilità, senza cedere alla tentazione di importi i suoi solidi schemi e canoni. Caino ti ha ucciso, prima ancora che con la forza delle sue mani, con la violenza della sua giustizia, con l’aridità della sua mancanza di misericordia, con la sua assenza di poesia, con l’incapacità strutturale di accogliere il mistero di debolezza che tu eri. Non ha compreso il tuo modo di pregare, di stare alla presenza di Dio e ha ironizzato del tuo desiderio di vivere una vita radicalmente evangelica (può mai Abele, il “soffio”, vivere esperienze così forti?). Ha abbassato il tiro dei tuoi sogni, ti ha inoculato la sua mediocrità senza capire che essa - entrando a contatto con la tua fragilità affettiva, con il tuo relativismo, con il tuo naturale individualismo - ti avrebbe ucciso.

Ancora oggi, a noi, il Signore chiede: Dov’è Abele, tuo fratello? Dov’è Abele e non un fratello qualsiasi! Egli ci chiede conto in modo tutto particolare della vita di questi fratelli più giovani e più gracili, ci chiede conto dei loro progetti, delle loro idealità, delle loro ali che - come diceva don Tonino Bello - non abbiamo aiutato a volare, dei loro sogni che non abbiamo saputo condividere.

Sostando in silenzio davanti alla tua storia, chiedo al Signore - per me e per le mie sorelle - la forza di ascoltare questa domanda che da millenni inquieta l’umanità e che, da alcuni anni, disturba i miei pensieri. Ascoltarla non per dare una risposta, bensì per sentirne tutto il peso e tutta la gravità e per cogliere tutto il dolore che tu e tutti gli altri Abele di questo mondo vi portate dentro. Dolore non urlato o rinfacciato (come si faceva negli anni della contestazione), bensì pianto in silenzio e nascostamente.

Ancora, chiedo il coraggio di guardare alle vostre fragili storie con verità e carità. La verità che impone che ci rendiamo conto almeno delle nostre omissioni e carenze, incapacità e negligenze. La carità che ci chiede uno sguardo di misericordia, una parola ammantata di silenzio, perché poi, per quanto possano essere effimere come un soffio o flebili come un alito, le nostre vite (TUTTE!) sono un mistero nella mano di Dio e dovremo aspettare la fine del nostro mondo per capire chi, davvero, “aveva ragione”, con buona pace di tutte le nostre proiezioni sociologiche e psicologie da strapazzo.

Infine, chiedo la Sapienza di lasciarci ferire dalla vostra strutturale debolezza così che, piagate, possiamo entrare nel mistero di Gesù crocifisso e di tutti i crocifissi della Storia.

Arrivederci, Abele!

Maria Mori
Missionaria in Tanzania

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