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Riflettere su questo argomento presenta qualche difficoltà di metodo.
E’ difficile soprattutto identificare i materiali utili: cioè decidere
in modo attendibile quando la Scrittura parli di donne anziane, ovvero
quando il fatto di essere anziana abbia qualche peso nella fisionomia e
nel ruolo della persona di cui si parla. Si rende perciò necessario
disporre di un criterio, sia pure approssimativo ed elastico.
Il primo caso che consideriamo è quello delle
donne che la Bibbia ricorda esplicitamente come avanzate negli anni; ed
è piuttosto raro. Il secondo caso, più frequente, è quello in cui,
benché dell’età nulla venga detto, le circostanze sembrano suggerire
l’idea che si tratti di una donna non giovane. (Magari semplicemente
perché non se ne parla in senso più o meno direttamente inteso alla
riproduzione; o perché i figli sono adulti).
C’è però una discontinuità di fondo tra il mondo
della Bibbia e il nostro, ed è necessario esserne consapevoli. Per noi
‘anziano’ è spesso sinonimo ed eufemismo per ‘vecchio’. L’idea di
vecchiaia varia secondo le epoche e gli ambienti: nella Bibbia - come in
molte civiltà antiche e, in certe culture, ancora oggi -, una donna che
sia suocera e nonna, perciò ascrivibile alla classe degli anziani in
senso sociale e culturale se non biologico, potrebbe anche essere sui
trent’anni.
La vecchiaia - diciamo anzi “la maturità”, e non
per volontà eufemistica, ma perché arrivare alla vecchiaia come noi la
intendiamo non era poi facilissimo - è l’età in cui, con figli adulti e
nipoti, la donna si trova di solito affrancata dal suo ruolo
riproduttivo e in cui può esercitare finalmente una qualche autorità,
seppure circoscritta. Ben diverso, certo, il caso in cui le sia toccata
in sorte la sterilità, intesa come maledizione e vergogna e sempre
indiscutibilmente colpa sua, anche qualora la biologia fosse di parere
diverso: se il ruolo attivo nella generazione dei figli è riconosciuto
solo all’uomo e a lui appartengono i figli, la sterilità o, poco meno
grave, la sventura di partorire solo femmine, è a carico della donna.
La vedovanza, considerazioni affettive a parte,
poteva rendere migliore o peggiore la condizione femminile. Una vedova
ricca di una certa età è talvolta quanto di più simile a una donna
indipendente si possa trovare nell’antichità: emancipata dalla
soggezione diretta a un uomo e dal controllo della propria famiglia
(infatti se troppo giovane, senza figli ecc., era spesso costretta dai
parenti a riprendere marito), in certi casi può amministrare i beni del
marito in nome dei figli, o anche possedere dei beni a titolo personale.
Invece la vedova povera resta completamente affidata al buon cuore dei
figli adulti se ci sono, o si trova ridotta alla miseria e alla
mendicità con i figli piccoli.
PRIMO TESTAMENTO
Le mogli dei patriarchi sono le prime figure
femminili su cui la Bibbia si soffermi con qualche attenzione alla
fisionomia individuale. Per l’argomento di cui ci occupiamo, è Rebecca a
suscitare maggiore interesse.
Non Sara - benché della sua età avanzata si faccia
esplicita menzione -: anche se la maternità tardiva per dono divino è
importante nella storia della salvezza, aspirazioni, caratteristiche e
ruolo di Sara sono interamente circoscritti dalla tradizionale funzione
materna. Rebecca ha un ruolo molto più attivo.
La saggia Rebecca
Presentata dapprima come bella e saggia fanciulla
nel momento in cui il servo di Abramo va a prenderla nel paese di suo
padre, poi come madre (con le solite difficoltà iniziali) dell’aspettata
discendenza, acquista un ruolo singolarmente incisivo in età matura,
quando i suoi figli Esaù e Giacobbe sono cresciuti.
Le viene attribuita dall’autore sacro una
preoccupazione ricorrente nel Primo Testamento: il dolore e lo sdegno
perché Esaù ha sposato due donne hittite1. Il movente
non è etnico-razziale, ma religioso (antiidolatrico). L’autore sacro
evidentemente collega con questo fatto la sua preferenza per il
secondogenito Giacobbe. Rebecca lo consiglia e lo aiuta a carpire la
benedizione paterna, che spetterebbe a Esaù. Il suo ruolo nella vicenda
è fondamentale anche rispetto allo sposo Isacco, qui presentato non solo
come anziano e cieco ma, quantunque venerabile, lievemente rimbambito.
… Ora Rebecca ascoltava, mentre Isacco parlava al
figlio Esaù. (…) Rebecca disse al figlio Giacobbe: «Ecco, ho sentito tuo
padre dire a tuo fratello Esaù: Portami la selvaggina e preparami un
piatto, così mangerò e poi ti benedirò davanti al Signore prima della
morte. Ora, figlio mio, obbedisci al mio ordine: Va’ subito al gregge e
prendimi di là due bei capretti; io ne farò un piatto per tuo padre,
secondo il suo gusto. Così tu lo porterai a tuo padre che ne mangerà,
perché ti benedica prima della sua morte». Rispose Giacobbe a Rebecca
sua madre: «Sai che mio fratello Esaù è peloso, mentre io ho la pelle
liscia. Forse mio padre mi palperà e si accorgerà che mi prendo gioco di
lui e attirerò sopra di me una maledizione invece di una benedizione».
Ma sua madre gli disse: «Ricada su di me la tua maledizione, figlio mio!
Tu obbedisci soltanto e vammi a prendere i capretti». Allora egli andò a
prenderli e li portò alla madre, così la madre ne fece un piatto secondo
il gusto di suo padre. Rebecca prese i vestiti migliori del suo figlio
maggiore, Esaù, che erano in casa presso di lei, e li fece indossare al
figlio minore, Giacobbe; con le pelli dei capretti rivestì le sue
braccia e la parte liscia del collo. Poi mise in mano al suo figlio
Giacobbe il piatto e il pane che aveva preparato. … (Gen 27,5-17
passim).
In una cultura per cui l’autorità del padre sulla
moglie e sui figli costituisce un assioma, è certo singolare il fatto
che l’agire di Rebecca sia riferito senza alcuna sfumatura di
disapprovazione. Rebecca è entrata nella tradizione cristiana come
modello di saggezza. Nell’antichità i confini tra saggezza e astuzia non
sono molto netti.
Ancora decisivo sarà poi il ruolo di lei nel
salvare Giacobbe dalla vendetta di Esaù, inviandolo a casa del proprio
fratello Labano in Paddan-Aram e assicurando per lui la scelta di una
sposa che non sia hittita; anche in questo caso Isacco non farà altro
che ratificare con la propria autorità e la propria benedizione quanto
Rebecca ha già organizzato (Gen 27,41-28,4).
Miriam, atto terzo
Miriam sorella di Mosè ha da giovane il suo ruolo
fondamentale nella storia della salvezza: è lei a salvare il fratellino
dalla morte che gli sarebbe decretata dal Faraone d’Egitto, lei ad
assicurare, dopo che il bambino è stato raccolto dalla figlia del
Faraone, che venga allattato dalla donna stessa che lo ha partorito.
Compare di nuovo al centro della scena molti anni
dopo: nel momento in cui il popolo d’Israele esce dall’Egitto grazie
all’aiuto del Signore, Miriam, guidando i cori delle donne, interpreta
in chiave teologica ed epica quanto è avvenuto: il suo cantico (“Cantate
al Signore perché ha mirabilmente trionfato”) ha una forza e uno
sviluppo superiori a quelli del cantico di Mosè.
Più difficile e strano, meno noto, interessante
anche se presentato dall’autore sacro in una luce implicitamente
negativa, il terzo momento: nel corso della traversata dell’Esodo,
secondo una tradizione biblica, Miriam e Aronne, sdegnati contro Mosè a
causa del suo matrimonio con una straniera etiope (in fondo la stessa
ragione per cui Rebecca aveva tolto il suo appoggio a Esaù), insidiano
l’esclusività della sua leadership: “Il Signore ha forse parlato
soltanto per mezzo di Mosè? Non ha parlato anche per mezzo nostro?” (Nm
12,2). Il Signore li punisce perché hanno parlato contro il suo servo e
amico; di fatto la punizione colpisce solo Miriam, che istantaneamente
si ammala di lebbra e sarà poi risanata dall’intercessione di Mosè.
Troppi elementi mancano per una lettura corretta
dell’episodio, ma è chiaro che qui è in gioco un problema di autorità,
che l’autorità di Miriam (o l’importanza della profezia femminile) è
anche maggiore di quanto comunemente si creda e che Miriam, nonostante
questo o forse proprio per questo, viene penalizzata nella lettura
patriarcale della memoria d’Israele. Interessante un passaggio del
profeta Michea in cui a Miriam viene attribuito lo stesso ruolo di guida
dei suoi fratelli nell’Esodo:
Popolo mio, che cosa ti ho fatto?
In che cosa ti ho stancato? Rispondimi.
Forse perché ti ho fatto uscire dall'Egitto,
ti ho riscattato dalla casa di schiavitù
e ho mandato davanti a te
Mosè, Aronne e Miriam? (Mi 3,3-4)
Debora, profeta e giudice
Nel libro dei Giudici c’è un’interessante figura
femminile, assai poco nota ai non specialisti: Debora, che riunisce in
sé le caratteristiche di giudice e di profeta.
Il suo collaboratore Barak si trova rispetto a lei
in posizione nettamente subordinata: è, per così dire, il suo braccio
armato; ma il personaggio autorevole e carismatico è Debora. Tanto è
vero che, dovendo affrontare i nemici, Barak esce in queste stupefacenti
parole rivolte alla donna: “Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non
vieni, non andrò”.
In quel tempo era giudice d'Israele una
profetessa, Debora, moglie di Lappidot. Essa sedeva sotto la palma di
Debora, tra Rama e Betel, sulle montagne di Efraim, e gli Israeliti
venivano a lei per le vertenze giudiziarie. Essa mandò a chiamare Barak,
figlio di Abinoam, da Kades di Nèftali, e gli disse: «Il Signore, Dio
d'Israele, ti dà quest'ordine: Va’, marcia sul monte Tabor e prendi con
te diecimila figli di Nèftali e figli di Zàbulon. Io attirerò verso di
te al torrente Kison Sisara, capo dell'esercito di Iabin, con i suoi
carri e la sua numerosa gente, e lo metterò nelle tue mani». Barak le
rispose: «Se vieni anche tu con me, andrò; ma se non vieni, non andrò».
Rispose: «Bene, verrò con te; però non sarà tua la gloria sulla via per
cui cammini; ma il Signore metterà Sisara nelle mani di una donna». (Gdc
4,4-9a)
All’inizio dell’episodio, si trova la
presentazione dell’eroina in termini apparentemente convenzionali:
“Debora, moglie di Lappidot”. La donna è sempre x di y, sempre definita
in relazione a qualcun altro - anche quando, come in questo caso, la
donna sia importante e gloriosa e il marito un perfetto sconosciuto. Ma
è proprio il marito? L’espressione ebraica eshet lappidoth viene
abitualmente tradotta “donna (= moglie) di Lappidot”, benché questo
strano nome proprio non appaia altrove. E’ stato osservato che potrebbe
tradursi “donna coraggiosa” o “donna animosa”… E qui viene in primo
piano la natura profondamente ideologica delle traduzioni. Sentiamo
ancora come suona convenzionale e casalingo (non del tutto, visto che si
parla comunque di una donna che è giudice e profeta) l’inizio in questi
termini: “A quel tempo era giudice in Israele una profetessa, Debora,
moglie di Lappidot”. Confrontiamolo con quest’altro inizio: “A quel
tempo era giudice in Israele la profetessa Debora, una donna valorosa”.
Non sembra differenza da poco.
Dopo la vittoria su Sìsara (in cui assume un certo
rilievo l’agire di un’altra donna, Giaele), il senso provvidenziale e
salvifico di quanto è avvenuto viene interpretato dal cantico di Debora,
in cui predominano le espressioni di riconoscenza al Signore, ma non
mancano tratti di orgogliosa consapevolezza di sé:
… Era cessata ogni autorità di governo,
era cessata in Israele,
fin quando sorsi io, Debora,
fin quando sorsi come madre in Israele. (Gdc 5,7)
Giudice e profeta, Debora non è ricordata come
madre, non si sa se abbia generato figli (neppure, abbiamo visto, se
avesse un marito), ma è “come madre in Israele”: la sua funzione
materna, protettrice e ispiratrice, si estende a tutto intero il suo
popolo.
Noemi
La giovane straniera Rut, così mite, affettuosa e
coraggiosa, può considerarsi senz’altro la protagonista del libro
omonimo, con il suo attaccamento alla suocera Noemi e la sua scelta
affettiva di far parte del popolo d’Israele, lei che è moabita; ma
l’ispiratrice degli eventi è Noemi, la suocera. Forse vi entra il fatto
che ebrea è Noemi, non Rut. E’ Noemi a volere una sistemazione per Rut,
Noemi a decidere quale sposo è giusto in ogni senso per lei, Noemi
infine a dare a Rut le ‘istruzioni seduttive’ nei confronti di Booz.
Il comportamento di Rut potrebbe considerarsi
alquanto spregiudicato anche per i criteri attuali; ma nella Scrittura
il suo agire non riceve neppure un’ombra di biasimo.
Noemi, sua suocera, le disse: «Figlia mia, non
devo io cercarti una sistemazione, così che tu sia felice? Ora, Booz,
con le cui giovani tu sei stata, non è nostro parente? Ecco, questa sera
deve ventilare l'orzo sull'aia. Su dunque, profumati, avvolgiti nel tuo
manto e scendi all'aia; ma non ti far riconoscere da lui, prima che egli
abbia finito di mangiare e di bere. Quando andrà a dormire, osserva il
luogo dove egli dorme; poi va’, alzagli la coperta dalla parte dei piedi
e mettiti lì a giacere; ti dirà lui ciò che dovrai fare». Rut le
rispose: «Farò quanto dici». Scese all'aia e fece quanto la suocera le
aveva ordinato. (Rt 3,1-6)
Tutto andrà come stabilito, e Rut sarà la bisnonna
del re David (quindi, per noi, antenata di Gesù stesso). In questa
storia al femminile, nel rapporto delle due donne colpisce l’affetto
profondo e disinteressato, la solidarietà, l’assenza totale dei soliti
schemi familiari e di potere.
Giuditta ‘post clamores’
Giuditta è una delle figure femminili più gloriose
e positive presenti nella tradizione ebraica. Tutti la conoscono, per
così dire, in azione: quando cioè, giovane vedova bellissima,
ricchissima, virtuosissima…, insomma donna fatta di superlativi, si
introduce nell’accampamento del comandante nemico, lo seduce e lo
uccide, ottenendo per questa via la salvezza di Betulia. A noi però ora
non interessa tanto questa Giuditta nel fiore degli anni. Anche perché,
pur se non ignoriamo il significato teologico di fondo a cui l’autore
sacro vuole rinviare (il Signore si serve di ciò che è debole, come
appunto una donna, per abbattere la superbia dei forti), restiamo sempre
soggetti ad anacronistiche reazioni personali: così non possiamo del
tutto ignorare la sensazione di fondo che sia poco simpatico e nemmeno
tanto eroico fare uso della menzogna e di quelle che sono - secondo gli
uomini - le più tradizionali arti femminili, per uccidere a tradimento
un uomo inerme e ubriaco, per di più dopo avergli fatto balenare la
prospettiva di tutt’altro.
Nel libro di Giuditta è importante anche la
conclusione, in cui l’eroina viene presentata di scorcio negli anni
successivi, fino ad età avanzatissima (nella Bibbia la longevità è la
ricompensa dei giusti), volontariamente sola, senza figli né nipoti
eppure amata e rispettata da tutti come una gloria nazionale, come
un’istituzione, come vivente difesa del suo popolo.
Dopo quei giorni, …Giuditta tornò a Betulia e
dimorò nella sua proprietà e divenne famosa in tutta la terra durante la
sua vita. Molti ne erano anche invaghiti, ma nessun uomo potè
avvicinarla per tutti i giorni della sua vita (…). Essa andò molto
avanti negli anni protraendo la vecchiaia nella casa del marito fino a
centocinque anni: alla sua ancella preferita aveva concesso la libertà.
Morì in Betulia e la seppellirono nella grotta sepolcrale del marito
Manàsse e la casa d'Israele la pianse sette giorni. (…) Né vi fu più
nessuno che incutesse timore agli Israeliti finché visse Giuditta, e per
un lungo periodo dopo la sua morte. (Gdt 16,21-25 passim).
SECONDO TESTAMENTO
Elisabetta e Anna
All’inizio e alla fine del vangelo dell’infanzia
secondo Luca si incontrano due coppie di vecchi santi: il sacerdote
Zaccaria e sua moglie Elisabetta, la profetessa Anna e il vecchio
Simeone. Nelle intenzioni dell’evangelista esprimono le attese e la fede
d’Israele all’inizio dei tempi nuovi.
Sterile da sempre, Elisabetta diventerà madre
nella sua vecchiaia per l’intervento di Dio. Il suo sposo Zaccaria è
destinatario del relativo annuncio recato dall’angelo, e inoltre è un
sacerdote, quindi ‘mediatore del sacro’ per eccellenza; ma Elisabetta
viene presentata come superiore a lui nella fede. Se Zaccaria ha accolto
l’annuncio non proprio con incredulità, ma con difficoltà palese,
chiedendo all’angelo le sue credenziali (“Come conoscerò questo?”), di
Elisabetta vengono ricordate nel vangelo solo fede, accoglienza e
gratitudine e, come effetto di queste cose, la sua calma, autorevole,
armoniosa lettura profetica degli eventi. Nel momento in cui si
incontrano Maria ed Elisabetta - la giovane e l’anziana, entrambe in
attesa di un figlio umanamente impossibile -, sarà Elisabetta a mettere
in parole il senso salvifico di quanto si sta compiendo.
… Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria,
il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo
ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto
del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?
Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino
ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto
nell’adempimento delle parole del Signore». (Lc 1,41-45)
Qui Elisabetta ha senz’altro un ruolo profetico:
invasa dalla forza dello Spirito, legge i fatti umani alla luce delle
intenzioni di Dio, e proclama il proprio entusiastico riconoscimento “a
gran voce”. La sua intuizione diventa annuncio.
In rapporto con la sua fede e il suo ruolo
profetico è poi il fatto che, contro l’uso abituale, sia lei a dare il
nome al figlio quando nasce. Nella cultura d’Israele, dare il nome
significa interpretare e prefigurare il destino del nominato.
… All’ottavo giorno vennero per circoncidere il
bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua
madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c’è
nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora
domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli
chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono
meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si
sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. (Lc 1,59-64)
Nel capitolo successivo del terzo vangelo, dopo la
nascita di Gesù, viene raccontata la sua presentazione al Tempio: in
questo episodio, fondamentale come anticipazione simbolica e misterica
della vicenda terrena di Gesù e di tutta la storia della salvezza, ha
grande importanza la figura di una donna anziana di nome Anna.
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di
Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto
col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta
vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal
tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere.
Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava
del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. (Lc
2,36-38)
Si deve all’inserimento della figura di Anna se
l’episodio della presentazione di Gesù al Tempio non si conclude in modo
del tutto tragico e negativo con la seconda profezia di Simeone (le
parole rivolte a Maria: “anche a te una spada trapasserà l’anima”).
Il personaggio di Anna - è stato spesso osservato,
e del resto è evidente - appare in parte ricalcata sull’immagine ideale
della vedova cristiana dei primi tempi della Chiesa. Ma c’è qualcosa di
più: ancora una volta spicca in lei, fondamentale, la dimensione
profetica. Anna è l’unica donna a cui, nel Nuovo Testamento, sia dato il
titolo di profeta2. Anche nel fatto che di lei vengano
specificati il nome del padre e la tribù, cosa insolita per le donne,
riconosciamo l’intenzione dell’evangelista di conferirle una speciale
dignità.
Ricordiamo che nel Primo Testamento il nome di due
donne che vengono chiamate ‘profetesse’ è rimasto associato a due
cantici (cantico di Miriam; cantico di Debora). Elisabetta e Anna non
proferiscono cantici, ma sia l’una che l’altra vengono presentate nella
luce di un cantico: cioè il Benedictus per Elisabetta, per Anna il Nunc
dimittis. Non sembra del tutto fuori posto, anche se mancano argomenti
risolutivi per sostenerlo, che in origine i cantici fossero piuttosto
associati con le due figure femminili, e siano stati attribuiti a
Zaccaria e a Simeone in seguito, allo scopo di acquistare maggiore
autorevolezza.
Le donne intorno a Gesù
Le donne, lo sappiamo, sono molto presenti
nell’evento di Gesù e nell’esperienza della prima Chiesa. Anche qui però
si deve ripetere quanto detto per la Scrittura in genere: se ben
riconoscibili sono i casi in cui la donna compare o viene nominata come
madre effettiva o futura, scarse sono le altre determinazioni, anche
perché i testi biblici sono molto parchi di tutte quelle informazioni
accessorie - di contorno, di coloritura psicologica, di atmosfera - che
dal nostro punto di vista sembrano, se non proprio fondamentali, tanto
importanti. Come non si dice nulla dell’aspetto fisico delle persone
(salvo il caso in cui siano molto malate e l’aspetto fisico lo
manifesti, perché in tal caso il dato è importante come punto di
partenza), così non si parla dell’età, e sono poche le informazioni
biografiche in genere.
Anche sull’età di Gesù gli evangelisti sono
estremamente vaghi, perciò non può stupirci il fatto di ignorare l’età
della maggior parte delle persone che sono intorno a lui.
Maria sua madre
A cominciare dalla madre. Un’età approssimativa di
Maria è stata congetturata tradizionalmente a partire dal fatto noto -
non però assolutamente fisso - che le fanciulle ebree potevano venir
promesse in sposa dopo i dodici anni e sposate dopo i tredici. Così si
ritiene di solito che Maria fosse sui quarantacinque-cinquant’anni
durante la vita pubblica di Gesù. A quel tempo, un’età considerevole.
Maria è molto presente nei vangeli dell’infanzia -
solo in quello di Luca, veramente; il racconto di Matteo è condotto
nella prospettiva di Giuseppe -, molto meno durante la vita pubblica di
Gesù. Ha un rilievo forte nell’opera di salvezza solo in due luoghi
giovannei: il racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11) e il racconto
della morte di Gesù in croce (Gv 19,25-27). Sappiamo che tre evangelisti
su quattro non la ricordano presente alla morte di Gesù. Nessuno la
ricorda fra le testimoni della Resurrezione. Comunque la sua non è
importanza ‘materna’ nel senso tradizionalmente inteso. Anzi, Gesù nel
corso di tutta la sua vita pubblica parla poco a sua madre e pochissimo
di sua madre; in diverse occasioni le sue parole e il suo atteggiamento
sembrano rivolti a relativizzare l’importanza dei legami familiari,
quale era intesa nel suo tempo e nel suo ambiente, sottolineando che
nella logica del Regno l’unico legame forte e vincolante è piuttosto
quello che si stabilisce sulla base della scelta discepolare.
L’episodio giovanneo delle nozze di Cana è il più
importante per riflettere sulla fisionomia ‘matura’ di Maria, non certo
in senso biografico (il vangelo non autorizza né supporta simili
speculazioni), ma storico-salvifico. E’ un episodio noto ed enigmatico,
in cui proprio la fisionomia ovvia di Maria, cioè quella materna, sembra
in qualche modo respinta da Gesù, o meglio ‘ridisegnata’ in funzione di
un’altra fisionomia. E’ valorizzato il ruolo di Maria in quanto
discepola: le sue parole ai servi: “fate quello che vi dirà”, che
sembrano modeste e circoscritte, vibrano di una totalità misteriosa e
alludono all’atteggiamento discepolare nel suo insieme.
Sul piano umano, storico - comunque difficilmente
raggiungibile a partire dai racconti evangelici, soprattutto quando la
trasposizione teologico-spirituale sia tanto forte - l’agire di Maria è
abbastanza atipico. Una comune donna ebrea di quel tempo, dinanzi a una
risposta recisa anzi brusca quale “che ho da fare con te, o donna?” data
dal proprio figlio maschio adulto (che si deve supporre capo della
famiglia, se il padre è morto), non avrebbe osato replicare. Invece
Maria agisce con tranquilla autorità proprio come se Gesù avesse
acconsentito; anche questo testimonia da parte sua una singolare
penetrazione profetica.
Maria appare qui come una donna attenta alle
urgenze: alle urgenze del quotidiano come a quelle della salvezza. Solo
nella mentalità patriarcale incline alle divisioni i due piani sono
nettamente contrapposti. Addirittura la sua comprensione profetica qui
giova a far cambiare idea a Gesù, che sembra avere della propria
missione un’idea ancora un po’ astratta e teorica. La tranquilla
autorevolezza di Maria sembra trasformare il quasi-rifiuto di Gesù in un
consenso che va oltre la richiesta e oltre il bisogno cosciente.
La suocera di Pietro
Una donna ‘anziana’ sempre secondo i criteri detti
prima, che compare solo per un momento nel primo vangelo, è la suocera
di Pietro. E’ a letto con la febbre (che però non è una malattia, bensì
un sintomo), e parecchio è stato scritto nei nostri tempi sul possibile
significato spirituale e simbolico di questa infermità inespressa, che
sembra piuttosto uno stato di disagio esistenziale connesso con una
difficile fase di passaggio. Quali saranno state le reazioni della
famiglia di Pietro in seguito alla sua scelta di sequela, che ovviamente
metteva in discussione tutti gli equilibri precedenti? Il vangelo dice
solo che Gesù risana istantaneamente la donna per mezzo del contatto:
“Le toccò la mano e la febbre scomparve; poi essa si alzò e si mise a
servirlo” (Mt 8,15). Il verbo ‘servire’ è importante nei vangeli
(seguire e servire insieme caratterizzano l’agire del discepolo) e
sembra sottintendere tutta una maturazione liberante avvenuta in questa
donna in seguito all’incontro con Gesù. Non è più solo suocera, nel
senso di madre postuma e intensificata; la famiglia non è più al centro
dei suoi pensieri.
La madre dei figli di Zebedeo
Considerazioni non inutili ci vengono ispirate da
una delle donne del gruppo discepolare, l’unica a cui possiamo
attribuire (sempre molto approssimativamente) un’età matura, in quanto i
suoi figli sono adulti e discepoli di Gesù: la madre dei figli di
Zebedeo.
Sulle prime, ciò che soprattutto colpisce in lei è
proprio questa denominazione in obliquo, per noi così strana: va bene
che nella Bibbia una donna è molto più spesso la madre o la moglie o la
figlia o la sorella di qualcuno, che non una persona a tutto tondo, con
un nome proprio e un significato autonomo; ma perché non dire almeno “la
moglie di Zebedeo”? Oppure “la madre di Giovanni e Giacomo”? La
denominazione indiretta e obliqua all’orecchio moderno suona
artificiosa, come se i figli di suo marito non fossero anche suoi, come
se fossero passati attraverso lei solo incidentalmente.
Si trova solo nel vangelo secondo Matteo ed è
ricordata solo come madre. E’ passata nella tradizione come personaggio
familiare e simpatico, ma di secondo piano. Eppure questa donna non è un
tipo comune. Altre madri avrebbero avversato la scelta dei figli di
mettersi alla sequela di un rabbi itinerante e irregolare, lasciando
un’esistenza sicura e ben avviata. Lei invece sembra compiere una scelta
simile alla loro, anche se possiamo domandarci: segue Gesù o segue i
suoi figli, all’inizio? (Ci piacerebbe anche sapere che cosa pensasse
Zebedeo di tutta la faccenda; ma è noto che con certe nostre curiosità i
Vangeli non sono compiacenti).
La scena narrata da Matteo ha qualcosa di strano e
‘predisposto’:
… Allora gli si avvicinò la madre dei figli di
Zebedeo con i suoi figli, e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le
disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei figli siedano
uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù:
«Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto
per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». Ed egli soggiunse: «Il mio calice
lo berrete; però non sta a me concedere che vi sediate alla mia destra o
alla mia sinistra, ma è per coloro per i quali è stato preparato dal
Padre mio». (Mt 20,20-23)
Insomma, questa donna chiede una collocazione
privilegiata e un ruolo onorifico per i suoi figli nel Regno, da lei
evidentemente concepito con caratteri molto terreni: secondo il
cerimoniale e l’iconografia dell’antico Oriente, alla destra e alla
sinistra del re in trono sedevano i più alti dignitari. E’ fin troppo
facile rilevare che sul Regno ha perlomeno le idee alquanto confuse.
E, come sempre, la laconicità del racconto
evangelico fa germogliare una piccola selva di interpretazioni di scarsa
utilità. L’iniziativa è davvero della donna?3 Forse è
già d’accordo con i figli? Forse Giovanni e Giacomo (da Gesù
soprannominati con un certo umorismo i “figli del tuono” a causa del
loro temperamento esplosivo), erano in qualche modo gelosi di Pietro,
del suo ruolo di capo e portavoce? Non possiamo dirlo, ma è chiaro - e
affiora anche nei vangeli - che nel gruppo discepolare qualche attrito e
qualche conflitto di potere dovette delinearsi fin dai giorni della vita
terrena di Gesù. Essere discepoli non significa automaticamente essere
santi, né d’altra parte essere santi coincide con l’impeccabilità.
La tradizione ha visto sovente nella madre dei
figli di Zebedeo il modello della “madre del prete”. Irreprensibile e
pia, ma focalizzata con devoto egoismo sul proprio figlio -
prolungamento di se stessa -, e inoltre con un debole per il potere,
come modello suscita perplessità. Nella Riforma è stata considerata
modello della virtuosa e austera madre protestante. Dal che si evince
che le confessioni religiose cambiano e gli stereotipi restano.
Questa madre patriarcalmente esemplare vive solo
nei suoi figli, davvero si potrebbe dire che “dimentica se stessa” nel
chiedere, eppure la sua richiesta manca del tutto il bersaglio e,
proprio nella logica del Regno, risulta di una stoltezza sconcertante.
Gesù non le dà una risposta diretta: si rivolge solo ai figli. Le
non-risposte di Gesù sono sempre eloquenti, ma spesso non chiare. Se in
questo caso si tratti di un silenzioso rimprovero, oppure di un modo
d’ignorare generosamente la meschinità della richiesta, è difficile
dirlo. Certo è che Gesù sembra dire alla madre dei figli di Zebedeo, e
non a lei soltanto, che “non sa quello che chiede”; che non la vuole
così, brava madre dimentica di sé, ma vuole lei come persona autentica e
intera.
Comunque siano andate le cose in questa
circostanza, non dobbiamo dimenticare che la madre dei figli di Zebedeo
più tardi giunge ad affrancarsi dalle strettoie della sua mentalità e
della sua cultura. Sempre secondo il racconto di Matteo, infatti, si
trova presente alla crocifissione di Gesù,4 insieme a
Maria di Magdala e a un’altra discepola. Tutti i discepoli maschi hanno
dato pessima prova di sé: uno ha consegnato Gesù, uno lo ha rinnegato,
tutti l’hanno abbandonato e sono fuggiti. Solo alcune donne sono lì, a
condividere e testimoniare: “da lontano”5, ma vicine
nello spirito. E fra loro c’è la madre dei figli di Zebedeo, senza i
suoi figli questa volta. Alla destra e alla sinistra di Gesù, in quel
momento supremo, si trovano due ladri, due disgraziati condannati alla
stessa pena. E certo lei ha compreso finalmente che cosa significa,
nell’ottica del Regno, la collocazione privilegiata.
Per concludere
Alle figure qui rapidamente considerate potremmo
aggiungere ancora (benché, secondo il solito, della loro età nulla si
dica) alcune delle donne nominate nel libro degli Atti e nelle lettere
di Paolo come apostole, come animatrici di chiese domestiche: e ogni
comunità ecclesiale è ‘domestica’, nella primissima Chiesa!
Questo argomento è uno di quelli che rendono
superflua la conclusione aggiunta. Solo una semplice osservazione che
emerge dal Primo e dal Secondo Testamento: nella Bibbia sembra assente o
quasi, e comunque ben poco importante, anche nell’immaginario, la figura
della brava vecchietta occupata solo da incombenze domestiche/affettive
e prodiga di consigli. Se c’è un aspetto che accomuna le donne pensabili
come anziane, è semmai il fatto che la dimensione familiare, senza
essere azzerata, è molto meno centrale di quanto lo sia per altre donne
o per altre fasce di età: queste donne acquistano maggiore libertà di
movimento, maggiore iniziativa e una fisionomia individuale più
precisata.
In Gen 26, 34-35, questo
sentimento è attribuito a lei e a suo marito Isacco insieme; in Gen
27,46 è ripetuto in modo più vibrato in riferimento a Rebecca sola.
2. Più generica la menzione
delle quattro figlie di Filippo, “nubili, che avevano il dono della
profezia”. In At 21,9.
3. Il passo parallelo, Mc
10,35-45, racconta l’episodio in esclusivo riferimento a Giovanni e
Giacomo e ignora la madre; un episodio corrispondente, ma in termini
più generali, viene narrato da Luca nel contesto dell’ultima cena. E’
ben possibile che l’iniziativa fosse stata dei figli, in origine, e
che poi qualcuno avesse trasmesso così il fatto, nella primissima
Chiesa, per evitare una brutta figura a quelli che erano ormai i capi
venerati della comunità. (E’ vero che in compenso si faceva fare una
brutta figura a una donna; ma le donne non contano…).
4. Mt 27, 55-56: “C'erano anche
là molte donne che stavano a osservare da lontano; esse avevano
seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. Tra costoro Maria di Màgdala,
Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedèo”.
5. Solo il quarto evangelista
colloca i dolenti “presso la croce”, però con intento teologico:
realisticamente è certo più probabile che a parenti e amici dei
condannati non venisse concesso di avvicinarsi troppo.
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