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I simboli della vita del credente
e il loro valore
«Dio si onora con il silenzio, non
perché non si possa dire nulla o nulla si ricerchi su di lui, ma perché
qualsiasi cosa su di lui si dica o si ricerchi, siamo coscienti di
essere ben lontani dalla sua comprensione»1.
I simboli e le immagini elaborate dalla tradizione di fede sono come una
scia di luce che può facilitarci nell’incontro con Dio. Essi alludono al
mistero, lasciandolo intatto nel suo silenzio. Il clima razionalistico
di stampo illuminista, ora in lento declino ma da cui pure proveniamo,
ha svalutato il linguaggio simbolico e immaginifico considerandolo un
sottoprodotto del pensiero e della sua capacità ordinativa e
raziocinante. Per il credente, e per l’uomo in genere, è necessaria
pertanto una rieducazione “mistica” dello sguardo, per dare alla vita
spirituale quel “respiro estetico” senza del quale essa facilmente
inaridisce.
Gesù
ci è stato maestro in questo. Ha toccato i sentimenti delle folle, senza
mai scendere al sentimentalismo. Ha parlato in parabole, si è servito
della similitudine di tutto ciò che vedeva e sentiva per parlare del
Regno: i bambini, le vedove, i poveri, i malati; i gigli, l’erba del
campo, gli uccelli, i lampi, il sole e la pioggia, le nubi e il vento,
il tarlo e la ruggine, gli avvoltoi, i cani; tutto sotto il suo
raccontare diventava eco di un mistero di cui egli ben conosceva la
voce. E prima e dopo di lui, la storia della fede ci ha conservato i
vissuti religiosi sotto forma di immagini, gesti, parole o canti, senza
i quali il nostro pregare e l’ascolto della Parola di Dio diventerebbero
immediatamente aridi.
Dice
un proverbio ebraico: L’uomo pensa, Dio ride. E perché,
s’interroga Milan Kundera che riporta il detto, Dio ride guardando
l’uomo che pensa? Perché l’uomo pensa e la verità gli sfugge. Perché,
più gli uomini pensano, e più il pensiero dell’uno s’allontana dal
pensiero dell’altro. E infine, perché l’uomo non è mai ciò che pensa di
essere»2.
Il pensiero divide, il simbolo invece unisce. Non casualmente il termine
antitetico a “simbolo” è “diabolos”, «colui che divide e disperde».
Il
simbolo salva l’unità e permette di leggere l’immensa diversità del
creato nella sua armonica bellezza. E’ perciò di primaria importanza,
dal punto di vista dell’educazione religiosa, entrare in sintonia con il
mondo dei simboli per avvicinarsi al mistero di Dio, poiché, mentre le
parole colgono la superficie della realtà, il simbolo porta in luce i
fondali della religiosità umana e introduce alla contemplazione.
Il
mondo della raffigurazione simbolica ha a che fare con il linguaggio
poetico e artistico, che trascolora lo sguardo banale sulla vita,
illuminando la semplice materialità delle cose di rimandi inattesi.
Diceva Leopardi che lo spirito poetico fa per così dire «vedere le cose
in maniera doppia»3:
nell’osservare un oggetto, infatti, uno spirito poetico non si ferma
alla sua funzionalità materiale, ma ne coglie aspetti allusivi, che
ricollegano per via emotiva al mondo dello spirito. Così un qualsiasi
oggetto della natura: una siepe, un campanile, un passero diventano
capaci di evocare stati d’animo, ricordi, vissuti. Similmente il
credente si serve della grammatica dei simboli, delle figure e della
musica, per dialogare con il suo Signore.
Ogni consacrato dovrebbe
avere spiccato il senso poetico, il senso del bello e una grande
capacità di vibrare di fronte ai richiami dell’esistenza. Purtroppo però
la contemplazione estetica e artistica è un profilo assai modesto nella
formazione spirituale moderna, ove primeggia piuttosto il pensiero e
l’azione. Essa è dovuta certamente, oltre che al razionalismo di cui
parlavamo, anche alla sordina in cui è stata relegata l’azione dello
Spirito Santo, il cui aspetto caratteristico nell’economia
dell’Incarnazione è – come ci fa cantare il Veni Creator – di «accendere
la luce dei sensi». Possiamo dire che una vita spirituale non è
un’astrazione dalla materialità dell’esistenza, ma si traduce in una
sensibilità che la illumina. E perciò genera uno stile espressivo che sa
apprezzare la creazione, la quale tutta rimanda alla memoria dell’amore
di Dio per l’uomo. Forse la beatitudine di Gesù di diventare come
bambini per accedere al Regno è intimamente connessa con il mondo
incantato dei fanciulli.
Un
eccessivo razionalismo nel guardare alla vita, finisce per sopprimere
quella sensibilità al mistero, di cui i nostri padri ci hanno lasciato
una metodica insigne attraverso il loro modo di dare forma alla
contemplazione del mistero di Cristo nella musica, nella liturgia,
nell’arte della costruzione e in genere in ogni forma artistica.
Inoltrarsi nell’insondabilità del mistero di Cristo riversato in noi nel
dono dello Spirito Santo attraverso l’incanto della bellezza resta per i
consacrati uno dei compiti di maggior interesse nel tempo della
post-modernità.
Con
questa preoccupazione, poniamo attenzione a tre grandi simbologie, il
deserto, l’acqua e il vento, che nella Sacra Scrittura
ritmano e descrivono l’esistenza credente nella sua avventura con Dio.
Segni e simboli di bellezza primordiale che, da semplici elementi della
natura, assurgono a spazi che delimitano una geografia dello spirito,
poiché attraverso ad essi il credente si sente come “contenuto”
dall’universo che lo circonda.
Terra
arida, acqua, vento non sono solo elementi della vita, ma descrivono
simbolicamente i sentimenti di fronte alla maestosità e imponderabilità
dell’esistenza. Possono raccontare l’esistenza segnata dall’abbraccio di
Dio oppure il dramma del suo distacco. Il simbolo «dà da pensare»,
diceva Paul Ricoeur4.
E di fatto i simboli della grande tradizione biblico-evangelica sono la
traccia della fatica dell’alleanza e riecheggiano la gioiosa scoperta
della fedeltà di Dio. Essi continuano a introdurre il credente a capire
il senso della sua fede.
Il deserto e la
condizione umana
Il
deserto non poteva non toccare la fantasia degli antichi. E ancora oggi
è teatro di imprese al limite della sopravvivenza, perché continua a
sollecitare l’immaginario di molti e il rischio d’avventura di altri. Il
suo solo pensiero richiama a un luogo dove la vita è impossibile.
Smarrirsi nel deserto è come essere votati alla morte. In esso risiedono
le potenze ostili alla vita: fame, sete, smarrimento, tempeste di
sabbia, serpenti sono la minaccia permanente per chi lo attraversa.
Perdersi nel deserto genera miraggi, fantasmi e paure, esattamente come
quando la realtà diventa rarefatta e incapace di mostrare una qualche
possibilità positiva di futuro. L’accostamento all’interiorità umana nei
suoi momenti aridi e desolati è perciò immediato. “Vivere nel deserto” è
trovarsi nell’angoscia della vita e nei meandri della disperazione e
della solitudine. Di questa situazione umana la Chiesa si fa carico
nella sua preghiera: «Tu, che all’aspre solitudini della terra assetata
donasti il refrigerio dei torrenti e dei mari, irriga, o Padre buono, i
deserti dell’anima coi fiumi d’acqua viva che sgorgano dal Cristo»5.
La
tradizione biblica recepisce questo significato fondamentale del deserto
dalla simbolica universale dell’umanità e lo descrive come terra
spaventosa (Dt 1,19) e desolata (Ez 6,14), «terra di steppe e di frane,
terra arida e tenebrosa, terra che nessuno attraversa e dove nessuno
dimora» (Ger 2,6). Ma nella letteratura biblica vi è uno stacco
originale. Proprio simile luogo di desolazione è scelto da Dio per dar
vita alla storia d’elezione di Israele: «Egli trovò Israele in terra
deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo
custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua
nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo
sollevò sulle sue ali, il Signore lo guidò da solo, non c’era con lui
alcun dio straniero» (Dt 32,9-12; cf Ez 16,5 ss).
Israele da sé non è nulla; se diventa qualcosa, lo diviene in forza di
un’elezione, che lo pone in una relazione di amore per una missione. Per
realizzare questa pedagogia del rapporto di predilezione, Dio sceglie il
deserto, che diventa tutt’uno con la storia del popolo di Israele e
quasi ne costituisce la filigrana che lo accompagna. Se per noi il
deserto è sinonimo di morte, da esso Dio sa trarre la vita. La sorpresa
della rivelazione non si smentisce nei suoi paradossi, ed anzi in essi
rivela la sua originalità. Dio percorre strade diverse dalle nostre,
mostrandosi proprio in tal modo come il Dio che supera i pensieri
dell’uomo. Il deserto, dunque, da luogo della morte, diventa la dimora
che istruisce il credente e lo fa entrare in una coscienza totalmente
nuova e più autentica nell’alleanza con Dio.
La pedagogia divina del deserto
Il
deserto per associazione di idee richiama immediatamente all’israelita
la fuga dall’Egitto, i quarant’anni di sofferenza verso la terra della
promessa (Dt 29,5), gli entusiasmi della liberazione dalla schiavitù e
le delusioni dei tradimenti.
Nel
deserto gli Israeliti patirono la tentazione di ritornare alla schiavitù
come posizione più comoda: «Forse perché non c’erano sepolcri in Egitto
ci hai portati a morire nel deserto? Che hai fatto, portandoci fuori
dall’Egitto? ... Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto,
quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a
sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire
di fame tutta questa moltitudine» (Es 14,11). Ma Dio li ha, per così
dire, tormentati interiormente per purificarli e scioglierli
dall’illusione del benessere a basso costo, un benessere materiale, che
non avrebbe comunque saziato la loro attesa di vita.
Per
questo, nell’insegnamento dei profeti, il ricordo del deserto rimanda al
tempo della giovinezza dell’alleanza di Israele, a cui ritornare nei
tornanti decisivi della storia (Os 2,14; 13,5). Il deserto allora da
luogo della desolazione diventa luogo della formazione per il popolo
prediletto: lì impara la sua identità di popolo chiamato a vivere nella
fedeltà con il Dio dell’Alleanza.
E,
sotto quest’aspetto, non è casuale che la preparazione della venuta
definitiva del Signore avvenga nel deserto (Mt 3,1), ove con la
predicazione di Giovanni il Battista il nuovo popolo di Dio (anche in
stretto legame con il battesimo, parallelo al passaggio del mar Rosso)
si raccoglie e si forma. E più ancora, Gesù stesso nell’iniziare a
predicare la presenza del Regno prende le mosse dai quaranta giorni nel
deserto, ove è «condotto dallo Spirito» (Mt 4,1 par). E se Gesù dopo
ogni miracolo si ritira nel deserto (Mc 1,35; Lc 4,42; 5,16) non è solo
per ritagliarsi fuori un qualche riposo dalla fatica, ma per mettersi in
contatto con la Presenza che lo determina come persona.
Per
tutto questo, allora, il deserto non è il simbolo generico di una
qualche mistica della solitudine o di una separazione cultuale dal
mondo. Il deserto è propriamente lo spazio educativo scelto da Dio, per
affinare cuore e anima del popolo eletto e legarlo a sé in
un’appartenenza singolare: «Ricordati di tutto il cammino che il Signore
tuo Dio ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per
umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore e
se tu avresti osservato o no i suoi comandi» (Dt 8,2).
Nel
deserto avviene una mutazione interiore per la coscienza del popolo
dell’alleanza: esso deve morire a se stesso e prendere coscienza della
vocazione di essere “proprietà di Dio”. Vi nasce nel dolore e nel
tradimento, mostrando che la misericordia di Dio sa assorbire ogni
infedeltà e trasformare ogni peccato. La via di Dio non aveva nulla che
potesse essere paragonata alla fertile terra d’Egitto, ove al popolo
nulla pareva mancare per soddisfare i bisogni primari della vita.
Il
deserto era il deserto: e tutto era complesso. I rifornimenti
scarseggiavano, l’acqua mancava, lo scoraggiamento era all’ordine del
giorno, e poi non si arrivava mai alla terra della benedizione. Eppure
per questa strada era necessario passare per portare il cuore a divenire
autentico e a scoprirne l’inettitudine e la falsità dei suoi progetti.
Dirà
san Paolo che, se Dio ha condotto il suo popolo nel deserto, «ciò è
avvenuto come esempio tipico (typos) per noi» (1Cor 10,6): ogni persona
deve passare attraverso il suo deserto per ritrovare la verità di sé.
Proprio perché il cuore dell’uomo è inaffidabile, deve essere educato e
reso il più possibile affidabile.
Dio
è educatore e corregge quelli che ama. Il passaggio al nostro presente
non è così difficile: non sta forse il Signore usando la stessa
metodologia nel nostro tempo? Non ci sta forse facendo passare
attraverso l’aridità del funzionalismo, della burocrazia anche
religiosa, del secolarismo, per snellire la nostra vita spirituale e
recuperare l’autenticità della nostra vocazione? Non è forse la
smemoratezza di Dio nella nostra cultura post-cristiana il deserto da
attraversare per ritrovare la verità e la forza della testimonianza di
noi consacrati?
I deserti dell’anima
Il
deserto porta in sé un altro simbolismo, che ne rende attualissimo il
richiamo spirituale. A che cosa rimandano le affascinanti e infide dune
di sabbia, accumulate e continuamente disfatte dalla furia dei venti?
Domani non si troveranno più gli stessi accumuli di sabbia e le orme
delle carovane del giorno prima saranno cancellate. Questa mutevolezza
del deserto e questa sua labilità di landa sconfinata, che sfugge a ogni
capacità di dominio umano, ne fa immediato rimando alle oscillazioni del
cuore umano. Da entità geografica il deserto tende ad assumere una
valenza antropologica.
Quando Dio è lontano e non fa sentire la sua azione salvifica, il cuore
si riempie di aridità e di angoscia: «O Dio, tu sei il mio Dio,
all’aurora ti cerco, di te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne,
come terra deserta, arida, senz’acqua» (Sal 63,2). Non c’è forse
immagine più adeguata di questa per esprimere sia la verità dell’uomo
amareggiato e prostrato dal dolore, sia il bisogno che egli ha di Dio.
Abbandonato a se stesso, è trascinato qua e là dalle sue passioni e reso
instabile dagli umori. L’esistenza umana è strana, problematica e
perfino terribile, non avendo in se stessa piena intelligibilità ed
essendo attraversata dall’incertezza del vivere e dalla sicurezza del
morire. Il cuore umano da solo non riesce a reggere di fronte
all’insicurezza della vita. Anela a qualcosa di solido e di sicuro.
Qualcosa che pure aveva in sé, poiché l’uomo è uscito dall’amore di
Dio, ma che il male ha sgretolato. La forza allegorica del deserto si
amplifica qualora si consideri che la sabbia è fatta da un’infinità di
piccolissimi detriti calcarei, che vento ed intemperie hanno strappato
alla compattezza della roccia. La distesa del deserto è un immenso
accumulo di roccia, che ha perso la sua consistenza. E come la sabbia
tenuta fra le mani scivola via tra le dita, così l’uomo non è capace di
tenere insieme la sua vita.
L’uomo non sta in piedi da solo. La disgregazione è l’inevitabile esito
di una vita fondata su una insensata fiducia in se stessi. L’uomo perciò
deve riprendere la sua relazione a Cristo, per ritrovare se stesso.
Chiunque non resti ancorato a «Cristo che è la roccia» (1Cor 10,4) si
dissolve. «Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica,
è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia.
Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si
abbatterono su quella casa, ed essa cadde, perché non era fondata sopra
la roccia» (Mt 7,26-27).
Nella frammentazione degli istanti in cui la vita riprende
continuamente da capo il suo corso, occorre restare attaccati a Gesù che
è il principio della vita. E’ proprio nell’istante, l’unico reale
frammento di vita che scorre sotto gli occhi, che si decide sempre, ogni
volta, tutta la vita. Ogni istante, per quanto ritenuto insignificante,
tale non è, perché in esso prende corpo la prospettiva della scelta
fondamentale della libertà di ognuno, dando continuamente forma alla sua
esistenza. Non si può infatti vivere alcun istante dissociandolo da una
qualche modalità in cui si esprime, perché non si vive che dentro a
circostanze concrete. Si vive sempre in qualche modo: non ci sono
dunque momenti vuoti, neutri o indeterminati. Orbene, slegata da Lui, la
vita si complica e si deteriora, perché perde il collante, che dà unità
all’esistenza. Lontano da Cristo, il cuore umano diventa deserto e
aridità, dissoluzione e disgregazione.
Attualizzazione: il deserto e la prova
della vita
Non
c’è da meravigliarsi delle derive umane. Verso di esse misteriosamente
la misericordia di Dio, resasi manifesta nella storia di Gesù,
continuamente si china. E quando Dio vuole conquistarsi il cuore
dell’uomo, mette in atto la sua pedagogia e lo sottomette alla prova.
L’animo umano, paradossalmente, nella prova ritrova la sua verità.
Pressato dal dolore, perde la sua boria istintiva e può ritrovare la
giusta misura per stare in rapporto benevolo con gli altri e con il
destino della vita. Patire, nessuno lo vorrebbe; eppure, senza il
patire, è come se all’uomo venisse a mancare l’ambiente che lo conduce a
identificarsi con il suo limite e a sciogliere il nativo delirio
d’onnipotenza.
Ogni
volta che Dio sceglie una persona per un compito particolare lo conduce
non attraverso vie brevi e facili, ma mediante un lungo e pericoloso
cammino di prova.
E’
vero, di fronte alle prove e alle delusioni ogni anima grida la sua
amarezza. E’ inevitabile, poiché il desiderio dell’uomo anela al
compimento e alla positività della vita. E oggi in realtà è diventato
maggiormente arduo integrare la prova e la difficoltà nel concetto
generale di vita, per una diffusa visione narcisistica dell’esistenza,
tutta tesa al proprio benessere piuttosto che ad autotrascendersi in un
significato. Se la sofferenza viene incontro, si tende a sfuggirla più
che a cercarne un qualche senso. Per molti è uno scandalo
insopportabile.
La
sofferenza umana (particolarmente l’innocente), nel migliore dei casi,
viene interpretata come il chiaro segno dell’impotenza di Dio e, nel
peggiore, un rimando alla sua crudeltà. Ma è proprio così? Non è forse
che l’illusione onnipotente dell’uomo acceca nel riconoscere il proprio
limite e con ingenuità proietta su Dio la propria insofferenza al
limite?
Forse
ai consacrati è chiesto, oggi, fra le cose più urgenti di testimoniare
la forza purificatrice e liberante della prova della vita. La prova
infatti porta a galla i motivi di fondo che muovono il cuore, mettendo a
nudo la propria posizione. Essa sfronda da ogni inessenzialità.
La
fedeltà, la magnanimità, la verità di un uomo si vedono nella prova.
Pertanto, la condizione di deserto dell’anima è insieme dolorosa e
preziosa. Dolorosa, poiché il cuore dell’uomo non è fatto per la
desolazione e la solitudine. Ma anche preziosa, perché la macerazione
nel dolore di un’assenza o di una colpa acuisce il desiderio di verità
di un cuore umile. Nella vita spirituale, l’assuefazione al divino
infatti è un tranello facile: si può stare davanti a Dio con devozione
formale, in modo tale da non doversi rimproverare nulla. Ma è il cuore
che Dio vuole. Ed il cuore umano facilmente scade di tensione quando
l’appagamento delle cose distoglie l’attenzione dalla piega della sua
naturale inclinazione che lo sporge verso l’eterno e l’infinito. Un
cuore sazio non cerca Dio. Il dolore invece può far sentire con la sua
ferita un grande bisogno di Dio. L’amarezza della vita dilata l’animo
quando è accolta nell’umiltà e nella fede.
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