 |
 |
 |
 |
Il sentimento, questo sconosciuto.
Tale affermazione non vuole essere una provocazione; esso evidenzia
invece un dato di fatto, che accomuna la maggior parte delle persone.
Tutti, infatti, siamo fortemente condizionati dal nostro vissuto
emotivo, ma non lo conosciamo, stentiamo a definire e comprendere ciò
che viviamo e, di conseguenza, facciamo difficoltà a orientarlo,
incanalarlo in modo adeguato. Talvolta viviamo una sorta di
analfabetismo emotivo.
Ricordo, per esempio, la fatica di
alcuni seminaristi quando, durante un corso di psicologia, chiesi loro
di riempire la lavagna con il nome di tutte le emozioni che venivano
loro in mente. A stento riuscirono a trovare sette o otto termini, con
cui definire i sentimenti più conosciuti; notevoli erano invece le
difficoltà a cogliere le differenze, evidenziare le sfumature,
dimostrare una padronanza nei confronti di un mondo che abita ognuno di
noi. Queste stesse emozioni però erano, almeno in parte, alla base delle
fatiche e delle gioie nel cammino vocazionale da loro intrapreso:
l’aggressività creava problemi con l’autorità o i compagni di seminario
o di corso, l’attrazione poneva loro degli interrogativi riguardo alla
capacità di vivere il celibato, l’empatia faceva desiderare di mettersi
a servizio dei fratelli, il desiderio di Dio sosteneva le motivazioni
più profonde della loro scelta di vita.
Questi giovani aspiranti al sacerdozio
non rappresentano un’eccezione rispetto alla norma, non solo del mondo
giovanile ma anche delle persone adulte, e persino noi consacrati
viviamo la stessa situazione paradossale: quella di essere abitati da
forze che ci sono sconosciute, benché esercitino su di noi un rilevante
potere. Da esse dipendono infatti non solo il nostro stare bene o male,
ma anche l’apertura nei confronti di Dio e degli altri: un’emozione come
la paura, per esempio, ci può trattenere dal consegnarci senza riserve
al Signore, mentre la gioia sperimentata durante la preghiera può
consolidare il nostro desiderio di comunione con Lui.
Educare i sentimenti significa quindi
orientare l’attenzione verso questo orizzonte interiore, potente e
sconosciuto, la cui influenza si fa notevolmente sentire, ma che
raramente siamo stati aiutati a riconoscere, incanalare e gestire in
modo adeguato.
Ogni epoca ha i suoi tabù: se fino
agli anni Sessanta era vietato parlare di sesso, il nostro tempo sembra
esprimere un impercettibile divieto nell’affrontare altri argomenti, in
particolare il tema della sofferenza e della morte. Le emozioni, o
meglio, il riconoscimento della loro presenza in noi sembra
rappresentare invece un tabù per tutte le epoche: ci arrabbiamo, ci
sentiamo in colpa o offesi nei confronti di un’altra persona e tendiamo
a sfogarci con qualcuno; il tempo, poi, medica le ferite e tutto sembra
scivolar via, ma raramente sappiamo descrivere a noi stessi o agli altri
che cosa è accaduto dentro di noi e perché è accaduto.
Qualcuno potrà obiettare che ciò era
vero nel passato, mentre attualmente la situazione è cambiata e tutti
siamo più disinvolti e meno rigidi in rapporto al nostro sentire. Una
tale osservazione merita di essere presa in considerazione perché, pur
mettendo in risalto un dato vero, quello dell’avvenuta trasformazione,
trascura di considerare un elemento importante, attualmente molto
disatteso come effetto della cultura contemporanea.
La mentalità attuale, infatti, tende a
equiparare espressione delle emozioni con maturità emotiva e a
considerare come un bene la loro manifestazione spontanea e
incontrollata. Quando noi però ci interroghiamo a proposito
dell’educazione dei sentimenti, ci riferiamo a un cammino più maturo
rispetto alla disinvolta gestione dei propri stati d’animo, che
caratterizza il mondo d’oggi.
Per comprendere allora in che cosa
consiste tale percorso interiore a cui siamo chiamate, come persone e
come consacrate, è forse utile definire prima quali sono i falsi
concetti di educazione sentimentale, per poi cercare di proporre un
itinerario di crescita in cui la dimensione umana possa essere integrata
nella nostra più profonda realtà di donne, cristiane e consacrate.
Che cosa non è l’educazione dei sentimenti
Chi tra le lettrici di questo
articolo, e probabilmente non saranno poche, ha iniziato la formazione
alla vita religiosa prima del Concilio Vaticano II, ricorderà molto bene
un metodo formativo che non lasciava molto spazio al mondo emotivo. Tale
stile rifletteva una mentalità comune che non si limitava unicamente
all’ambito pedagogico, in cui la persona veniva orientata più al
controllo che all’espressione di sé, più all’adattamento alla realtà che
alla realizzazione personale. Alla base di questo orientamento era una
visione antropologica in cui si sottolineava maggiormente l’aspetto di
limite, il peccato, la debolezza della persona e dunque si evidenziava
l’importanza della disciplina, dell’ordine e del dovere rispetto allo
sviluppo dei talenti, alla valorizzazione delle qualità, all’esercizio
dei diritti e al rispetto della dignità del singolo.
In questa ottica, le emozioni erano
dimensioni della persona umana non così significative e dovevano essere
contenute e rigidamente controllate.
Il modello di religiosa matura che
veniva proposto corrispondeva spesso a un’immagine un po’ asettica,
disincarnata; era definita spirituale perché non lasciava trapelare
sentimenti, era ossequiosa, obbediva ciecamente agli ordini dei
superiori, tendeva a conformarsi e a non dare problemi. Se poi questa
persona, pur mantenendo la stessa imperturbabilità, finiva per essere
sottilmente aggressiva nei confronti delle consorelle o usava della sua
perfezione per trarre vantaggi da un rapporto privilegiato con i
superiori, questo spesso non veniva notato: l’importante, infatti, era
mantenere la forma, l’autocontrollo personale, un atteggiamento
virtuoso.
Tale stile educativo ha indubbiamente
mietuto molte vittime. Le personalità più ricche emotivamente e quelle
più passionali hanno notevolmente sofferto di un metodo orientato al
contenimento più che alla crescita, alla repressione più che alla giusta
valorizzazione dei talenti dati da Dio. E’ importante notare che la
sofferenza a cui alludiamo non si riferisce solo alla dimensione umana;
infatti il blocco dei sentimenti, l’imperativo a controllarli in modo
rigido non ostacola solo lo sviluppo della personalità dell’individuo,
ma può anche rendere difficile o intralciare il cammino vocazionale,
l’adesione a Dio.
Due esempi, forse banali, ci aiuteranno
a meglio comprendere tale affermazione. Il primo riguarda la scelta
celibataria, che un’educazione rigida e conformista ha presentato più
sotto forma di obbligo e di divieto che come occasione d’integrazione di
tutte le dimensioni della persona. Seguendo tale metodo educativo,
sentimenti che fanno parte dell’esperienza di ogni individuo, quali il
desiderio di essere amati e di amare, l’attrazione, il piacere
suscitavano timore, costituivano un pericolo e, di conseguenza, dovevano
essere eliminati; non veniva quindi contemplata la possibilità di
imparare a riconoscerli, accoglierli, offrirli a Dio, accettandoli e
vivendoli con le persone dell’altro sesso in modo maturo e conforme alla
propria scelta di vita.
L’amicizia veniva stigmatizzata, dai
rapporti interpersonali si era invitati a proteggersi, mentre si
attribuiva un valore rilevante all’uniformità. Ciò ha spesso comportato
sofferenza, pesanti sensi di colpa, timore di essere diversi rispetto
agli altri, ma ha anche impedito lo sbocciare di una dimensione umana
che, se accolta e orientata con gioia verso Dio, poteva rappresentare
per la persona consacrata un’occasione di crescita e contemporaneamente
una possibilità di approfondimento del suo rapporto con Lui.
Sentire l’attrattiva di una vita
familiare, apprezzare la bellezza di appartenere a un determinato sesso,
provare la tristezza della rinuncia a beni grandi quali il rapporto di
coppia e la paternità o maternità sono sentimenti profondi e maturi;
essi non solo costituiscono delle emozioni capaci di renderci più umani
e, quindi, più vicini e compagni di viaggio dei fratelli e delle
sorelle, ma ci permettono anche di offrire a Dio il dono prezioso del
nostro amore, accompagnato dal sacrificio di beni così grandi e
desiderabili. In questo modo tale rinuncia si può trasformare in dono,
capace di esprimere la profondità e l’intensità del nostro amore per
Lui.
Un ulteriore esempio, utile per
comprendere i limiti di un’educazione emotiva tendente alla repressione,
riguarda un altro sentimento che nel passato veniva fortemente
stigmatizzato: l’aggressività. Il modello della brava religiosa era
infatti quello di una persona non solo senza reazioni esteriori, ma
anche senza emozioni interne. Soprattutto nei confronti dell’autorità,
verso la quale le nostre debolezze umane c’inducono spesso a sentire
emozioni molto forti, le persone venivano incoraggiate non solo ad
accettare e subire, ma anche a pensare e sentire nello stesso modo. Un
punto di vista diverso o un sentimento di ribellione, anche se non
manifestato, erano equiparati a una disobbedienza vera e propria e, come
per il celibato, provocavano malessere e senso di colpa.
Tale modo di educare a vivere i
sentimenti non va giudicato come totalmente negativo. Se sovente esso ha
ingabbiato le persone, impedendo loro non solo di essere libere, di
svilupparsi e realizzarsi pienamente, ma anche di poter orientare tutta
la propria umanità verso Dio, ha altre volte favorito lo sviluppo di
personalità solide, capaci di sopportare le fatiche e frustrazioni della
vita, d’impegnarsi a seguire i valori professati, di non lasciarsi
trasportare e vivere in balia delle proprie emozioni. Tuttavia ha
talvolta penalizzato le personalità più ricche, coi maggiori talenti, le
più passionali oppure ha fornito a quelle fragili delle stampelle;
quando però, a causa dei notevoli cambiamenti apportati dal Concilio e
dalla ventata di novità del Sessantotto, esse sono venute a mancare, le
persone si sono rivelate incapaci di stare in piedi da sole.
L’adesione passiva e la mancata
interiorizzazione del valore del celibato, unita alla repressione del
mondo emotivo, ha così lasciato il posto all’abbandono della vita
consacrata; nello stesso modo l’aggressività, contenuta e sopita per
molti anni, si è trasformata in vera e propria ribellione e
contestazione dell’autorità o dello stile di vita.
L’intransigente eliminazione del mondo
emotivo, che noi riferiamo prevalentemente al passato ma di cui ci
sembra di riscontrare la presenza sotto forma di esasperato conformismo
e rigidezza anche attualmente nel mondo giovanile, si rivela di
conseguenza come un modo inadeguato di vivere l’affettività. Essa non
permette di esprimere alcune dimensioni costitutive della nostra realtà
di esseri umani e obbliga a contenere delle forze che, se non
riconosciute, finiscono per trovare delle forme malsane per esprimersi.
Pensiamo, per esempio, alla tendenza a
manifestare sul piano fisiologico dei conflitti che non erano stati
riconosciuti o accettati a livello psichico; ricordiamo anche la
tendenza, spesso presente nelle nostre comunità, a contenere i conflitti
con le sorelle o con i superiori, perché non si possono esprimere o non
si è stati aiutati a riconoscerli, salvo poi scoppiare in vere e proprie
liti incontenibili, quando diventa impossibile gestire un’aggressività
accumulatasi per lungo tempo.
L’inadeguatezza accennata in
precedenza concerne però anche l’ambito vocazionale, il rapporto con
Dio, a cui non è possibile consegnare, perché lo trasformi e lo
illumini, tutto un mondo interiore che ci abita e ci motiva. Allo
Spirito Santo è quindi impedito di entrare in alcune stanze segrete
della nostra interiorità, proprio quelle in cui abitano le emozioni più
intime e dove potrebbe agire come Balsamo per curare le ferite, come
Fuoco per dare vigore all’agire, come Acqua per purificare, come Forza
per orientare la totalità del nostro essere verso Dio.
La gestione dei sentimenti orientata a
contenerli, reprimerli e talvolta anche a non riconoscerli, è dunque una
falsa educazione e non aiuta la persona a crescere nel suo rapporto con
se stessa, con gli altri e con Dio.
Benché al presente si constati, anche
in molti giovani che domandano di entrare nella vita religiosa, un
ritorno a uno stile rigoroso e costrittivo tendente a favorire lo
sviluppo di personalità rigide, inflessibili e ipercontrollate, il
metodo educativo descritto in precedenza non costituisce la forma
attualmente più comune di gestione delle emozioni. La realtà
contemporanea, in cui anche noi consacrati siamo immersi, sembra
assumere nei confronti del mondo emotivo un atteggiamento del tutto
opposto rispetto a quello passato.
Caratteristiche della
mentalità attuale
L’elemento distintivo forse più
rilevante della mentalità attuale è costituito dalla tendenza a ritenere
sani e fonte di benessere due modi, molto distanti dall’atteggiamento
passato, di gestire l’emotività, che potremmo definire come rimanere in
superficie e tirare fuori ciò che si sente dentro.
Con la prima espressione ci riferiamo
all’attuale propensione a evitare tutto ciò che della vita può essere
faticoso, frustrante e a cercare quanto può risultare gratificante e
piacevole. Segno evidente di tale inclinazione non è solo la ricerca, da
parte di molti giovani, di esperienze forti, primitive, di sensazioni
intense, quali si possono sperimentare e acquisire con il sesso, la
droga, l’aggressività, ma anche alcune manifestazioni dell’attuale
ricerca religiosa; essa si esprime talora in forme edulcorate, soft,
orientate a procurare sensazioni piacevoli, a offrire rassicurazioni,
proporre certezze capaci di attutire il diffuso senso di minaccia, senza
però offrire la possibilità di un rapporto personale con Dio.
Il mondo delle emozioni, di
conseguenza, pare essersi ristretto e racchiudere solo le manifestazioni
più epidermiche, le sensazioni superficiali, fonti di benessere e
tranquillità.
La seconda caratteristica, quella del
tirar fuori, si allontana anch’essa fortemente dallo stile di un tempo:
mentre una volta s’insegnava a contenere, reprimere, controllare e ci si
spaventava di fronte alla forza dei propri sentimenti, ora s’invoglia a
esprimere, a buttar fuori quanto c’è dentro.
Dietro questa visione riguardante il
modo in cui i sentimenti devono essere vissuti, è paradossalmente
presente una concezione dell’emotività che non si distingue molto da
quella descritta in precedenza. Si tratta sempre, infatti, di qualcosa
di pericoloso: pericoloso per gli altri, per l’istituzione, per se
stessi nel primo caso, poiché la vita emotiva poteva costituire una
forza capace di allontanare dai valori scelti; pericoloso per la persona
stessa nel secondo, in quanto fonte di malessere, di stress, di tensione
e dunque faticoso da portare dentro, quasi fosse un bagaglio scomodo, di
cui doversi liberare, non importa come, il più presto possibile.
E’ questo il motivo per cui siamo
invitati a esprimere, a tirar fuori quasi che, contenendo dentro di noi
rabbia, tristezza, paura queste potessero esercitare sulla nostra
persona un potere tale da farci del male.
Un altro aspetto utile da rilevare è
una sorta di atteggiamento diverso, oserei affermare opposto rispetto al
passato, nei confronti di alcune emozioni e, più in particolare, una
sorta di capovolgimento nel rapporto tra senso di colpa e aggressività.
Mentre in passato la seconda veniva considerata come pericolosa, mentre
il primo era valorizzato e quasi ritenuto uno strumento educativo e un
mezzo per orientare l’agire della persona, ora sembra di assistere al
fenomeno opposto.
L’aggressività è non solo accettata ma
spesso anche considerata un valore, giacché permette alle persone di
porsi in modo assertivo nei confronti degli altri, di farsi valere, di
essere rispettate.
Il senso di colpa, al contrario, è
comunemente condannato, quasi costituisse sempre e in ogni caso una
sorta di legame e impedimento alla libertà dell’individuo. Sovente, per
esempio, si sente affermare da parte dei genitori nei confronti dei
figli: Non vorrei che il mio atteggiamento lo facesse sentire in colpa o
si accusa l’altro di farci sentire in colpa e questo sembra bastare per
far passare come ingiusto il suo comportamento, prescindendo dalla
validità dei motivi a esso sottesi. Nessuno tende più a ricordare che ci
sono cause oggettive per cui sentirsi colpevoli, collegate alle nostre
responsabilità nei confronti di Dio, degli altri e di noi stessi,
dipendenti dalla maggiore o minore onestà o bontà presenti nel nostro
agire.
E’ possibile cogliere tale
trasformazione nel modo di considerare queste emozioni anche all’interno
delle nostre comunità. Pensiamo, per esempio, all’ambito formativo e
alla precauzione da parte degli educatori nel correggere, indirizzare,
far notare gli errori. Se una volta il rischio era quello del pugno di
ferro e dell’esercizio di un’autorità intransigente, punitiva, che
manteneva le distanze e impediva un rapporto fraterno, ora corriamo il
pericolo di una mancanza di indirizzo, di una relazione eccessivamente
paritaria, cui manca la capacità di orientare, indicare ed anche,
attraverso la dimensione emotiva, aiutare a prendere coscienza del
proprio limite e della distanza tra il vissuto e gli ideali.
Dopo il Concilio molti hanno
giustamente evidenziato come il senso di colpa non coincida con il senso
del peccato. E’ tuttavia vero che senza il primo il secondo non può
formarsi; di conseguenza, solo la persona capace di sentire dispiacere
per il male compiuto può imparare ad amare.
Al contrario, quando la colpa viene
eliminata, l’aggressività può esprimersi troppo liberamente, talvolta
senza confini, e ostacolare nella persona lo sviluppo della capacità di
donarsi a Dio e ai fratelli. Senza colpa, la comunità rischia di
trasformarsi in una giungla, dove ognuno tende a far prevalere i propri
diritti; l’obbedienza diventa un eterno oggetto di contestazione, in
quanto percepita come ostacolo alla crescita individuale, e la povertà e
la castità sono sentite come pesi di cui liberarsi nel modo più facile,
cercando di giustificare le debolezze personali ai propri occhi e a
quelli altrui.
Un ultimo aspetto, da notare in
riferimento al modo in cui l’emotività è attualmente vissuta, riguarda
la tendenza a favorire le forme meno evolute di emozioni, quali il
piacere e la sensazione. E’ un fenomeno che ha evidenti nessi con quelli
descritti sopra. In un mondo in cui le emozioni difficili da portare
devono essere buttate fuori, mentre si incoraggiano quelle tendenti a
gratificare la persona e ad affermare i suoi diritti, l’individuo non è
aiutato a percorrere un cammino di crescita all’interno del suo mondo
affettivo.
Per superare la paura, bisogna
sopportarla e affrontare le esperienze temute; per imparare a contenere
l’aggressività affinché non si esprima in forme violente, è necessario
che qualcuno ci ponga dei limiti. Se ciò non avviene, si verificherà una
fuga costante dalle esperienze faticose e sgradevoli, unita a una sorta
di appiattimento emotivo, nella ricerca ripetuta di un piacere sempre
uguale; esso sarà raggiunto attraverso le emozioni intense provocate dal
sesso e dalla violenza, o per mezzo di sensazioni edulcorate, procurate
dai vari mass media che tendono a propinarci un’immagine della realtà
irreale e distorta. Questo mondo falso e dolciastro, spesso entra anche
nelle nostre case e condiziona il modo di sentire e cogliere la realtà.
Diventa dunque importante, se non
urgente, domandarsi se sia possibile riscontrare un’eventuale influenza
di tale modo di rimanere in superficie sul nostro stile di vita.
All’interno della vita consacrata attiva pare talvolta di riscontrare
una sorte di dicotomia tra la dedizione, lo spirito di sacrificio, la
disponibilità che caratterizzano il servizio ai fratelli e lo stile di
vita personale e comunitario.
Nel primo, la persona sembra spendersi
totalmente, senza riserve e limiti, donando tutta se stessa; nel secondo
è invece possibile notare una sorta di trasformazione rispetto al
passato: l’austerità di vita, la pratica delle virtù, la dimenticanza di
sé per edificare una comunità veramente fraterna sono valori oggi
raramente richiamati e proposti. Ne risulta così un’immagine di vita
religiosa un po’ appiattita, dove i diritti e le esigenze personali
vengono fortemente messi in risalto, mentre minore importanza è
attribuita a valori tipicamente evangelici, quali la radicalità,
l’esigenza di una continua conversione, la lotta alle passioni.
E’ proprio a tale proposito che ci pare
possibile cogliere un evidente nesso fra appiattimento e modo di vivere
le emozioni, che accentua l’importanza della ricerca del piacere a
livello sensoriale e l’eliminazione del dispiacere. Ci sembra quindi di
riscontrare nell’aspirazione al benessere, uno dei valori massimi della
nostra società consumistica, la possibile spiegazione di quanto possiamo
costatare intorno a noi. Un benessere inteso in forma molto ambigua e
parziale, come ricerca della soddisfazione e abolizione di ogni forma di
frustrazione, che costituisce una sorta di falso miraggio di felicità e
induce a cercare la comodità, una vita agiata, tranquilla, a evitare le
fatiche insite nel dono di sé e nella conversione personale; una
felicità, di conseguenza, molto lontana dall’Evangelo, che indica nella
via stretta, nel perdere la vita, nello spendersi con gratuità i modi
per partecipare alla vera gioia.
Come avremo modo di evidenziare nel
seguito di queste riflessioni, né un rigido controllo dell’interiorità
né una ricerca di emozioni accompagnata da una gestione superficiale
costituiscono un modo maturo per vivere la vita emotiva; è dunque
necessario cercare una forma più adeguata, che non può prescindere da
una visione ampia e completa della persona umana, la quale è anche ma
non solo emozioni.
All’attuale gestione della vita
affettiva, cui si deve ascrivere l’indubbio merito di aver favorito una
maggiore flessibilità rispetto al passato, un atteggiamento meno
spaventato nei confronti del mondo affettivo personale, pare essere
sottesa una visione parziale dell’individuo, dove la valorizzazione
della componente emotiva va a scapito di altre dimensioni, in
particolare di quella razionale e volitiva.
Solo un’armonizzazione di tutti gli
elementi costitutivi dell’essere umano e il riconoscimento al suo
interno della presenza di una realtà spirituale, che lo orienta verso
Dio, permette di valorizzare la dimensione affettiva e di proporre un
modo adeguato di educare i sentimenti.
Una vita fraterna gioiosa, per
esempio, non nasce né in una comunità dove si domanda un adeguamento
totale alla volontà di un membro e la negazione di ogni fatica,
aggressività e ribellione, ma nemmeno là dove tutti possono esprimere
ciò che sentono nel modo più immediato e impulsivo. Ciò significa dunque
che le emozioni, per quanto importanti, devono essere sottomesse e
orientate da qualcosa che le supera, dalla ricerca di un criterio capace
di esprimerle, incanalarle e utilizzarle per il bene della persona e
degli altri e di trasformarle in forza, in energia a servizio della
nostra tensione verso i valori del Regno.
 |