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Nel deserto Gesù trionfa
sul tentatore. Due sostantivi comuni, un nome proprio, un verbo; due
preposizioni articolate. Una frase. E’ tutta un’avventura del Verbo di Dio
fatto carne, di colui nel quale è pienezza e che è sapienza di Dio,
"irraggiamento e impronta della sua sostanza", salvezza per tutti;
"apostolo e pontefice della nostra confessione di fede", come è
scritto nella Lettera agli Ebrei. Colui nel quale siamo colmati di ogni
benedizione spirituale. Che è la via, la verità e la vita, come si è definito
egli stesso; definizione che è stata il testo per la meditazione e la supplica
durante la settimana di preghiera per l’unità dei cristiani celebrata dal 18
al 25 gennaio. Egli è Colui nel quale tutte le promesse di Dio sono diventate
un ‘sì’. E’ il Pastore carico di tenera inquietudine e misericordia che
va in cerca della pecora perduta; è la Porta attraverso cui si passa per
entrare nell’inesprimibile mondo della grazia e della gloria, come abbiamo
tutti celebrato durante l’anno giubilare. E’ la pietra scartata dai
costruttori e poi diventata testata d’angolo…
La frase è il titolo di
una pericope evangelica secondo Luca, in uno dei testi della traduzione della
CEI. Non è testo rivelato, ma, come ogni titolo che si rispetti, racchiude in
sintesi quanto è scritto nei versetti che vengono dopo. Il primo di essi dice:
"Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto
dallo Spirito nel deserto, dove, per quaranta giorni, fu tentato dal
diavolo".
E vi è tutto un mistero.
Il mistero del Figlio di Dio che è sottomesso alla prova, a quel test che, non
superato, distrugge, annulla, annichila l’identità umana: la tentazione del
maligno. Questi, assecondato, al dire di Geremia, può rendere l’uomo
spaesato, non più in grado di pilotare la propria vita: "Io so, Signore,
che non è in potere dell’uomo andare e stabilire i propri passi". Gesù,
non nato sotto il segno del peccato, patisce a più riprese la seduzione del
tentatore. Egli non accede al groviglio di una orgogliosa autoaffermazione. Non
vi soggiace; non la subisce; non soccombe. Ne è il regista: la gestisce; la
supera; la vince. Non si pone sulla strada della disobbedienza e della malvagità
come era successo all’umanità prima del diluvio, e come succederà poi in
tante altre situazioni particolari o universali nella storia degli uomini, essi
sì nati sotto il segno del peccato, ma liberi di rispondere alla forza della
grazia. Gesù supera la tentazione con l’affidamento di sé a Dio e alla sua
parola. E trionfa.
Ma vi
sono alcuni precedenti
Innanzitutto se ne va; si
allontana dal luogo in cui si trova, mescolato tra la gente; parte; si sposta;
si trasferisce; emigra; lascia, abbandona, va oltre. E sorge subito una domanda:
la vita religiosa non deve forse andare oltre? Oltre l’obsoleto? Non abbiamo
forse, qualche volta, indugiato troppo, trattenuti da una falsa e illusoria
prudenza; da tentennamenti, insicurezze, esitazioni che hanno fatto svanire la
speranza; frenati e imprigionati da paure non
proprio evangeliche? Una vita consacrata che
non sappia essere protesa in avanti, è fallita in partenza. Paolo scriveva ai
cristiani di Filippi: "Dimentico del passato e proteso verso il futuro,
corro verso la meta". Ripartire, guardare lontano! Protesi in avanti! È
l’appello lanciato con forza da Giovanni
Paolo II alla chiusura del Giubileo.
E se ne va, spinto dallo
Spirito. Quello Spirito, che è all’origine
della sua incarnazione nel grembo della vergine, "chiamata Maria",
dice Luca; quello Spirito che lo farà "trasalire di gioia" - dice
ancora Luca - perché il "Padre, Signore del cielo
e della terra", ha nascosto cose "ai sapienti e agli intelligenti e le
ha rivelate ai piccoli"; quello Spirito che egli stesso, già prossimo alla
passione alla morte e alla sua risurrezione, prometterà ai suoi discepoli; e
che li invaderà irrompendo con forza nella sala superiore, là a Gerusalemme,
dove saranno raccolti in preghiera e dialogo, convivialità e comune attesa. E
che li accompagnerà durante tutta la loro esistenza, sino all’atto della
testimonianza suprema. Forse può essere utile rileggere l’articolo di Beppe
M. Roggia del nostro n. 2: Vita consacrata e martirio.
Nella vita non ha forse
valore soltanto quello che è compiuto sotto la spinta dello Spirito? Egli è
"il vincolo della Trinità, nella Chiesa è il vincolo tra i discepoli e il
Cristo Signore… è creatore di incontri e quindi di comunione… ci considera
non come legati a uno status, ma come persone in divenire, con nuovi orizzonti,
nuovi punti di riferimento, altra comprensione del mondo", e altro ancora
ha scritto Ermes M. Ronchi sul nostro supplemento I volti della donna
consacrata. Il resto, a che serve? Tutto diventa suppellettile, ninnolo,
gingillo.
Dunque, sotto l’impulso
dello Spirito, Gesù va nel deserto - altra parola del nostro titolo - e vi
dimora, nella più stretta solitudine, solo afferrato al Padre e alla sua
Parola, quaranta giorni e quaranta notti.
Sappiamo tutti quanta
importanza abbia nella Scrittura il deserto.
Citiamo soltanto Osea il
quale auspica un ritorno al deserto, ma è per il desiderio di un nuovo inizio
della storia del popolo israelitico, che si era antecedentemente contaminato con
i culti cananei. Il deserto, infatti, non è fine a se stesso: "La
ricondurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Allora le restituirò i suoi
vigneti e farò della valle di Acor la porta della speranza".
Nel deserto si compie
l’azione risanatrice di Dio. Il deserto non è il traguardo, non è il fine,
non è l’obiettivo; è luogo di passaggio dall’Egitto alla terra promessa
per gli ebrei. Per Gesù è il passaggio dalla vita privata, familiare, paesana,
a quella pubblica del ministero affidatogli dal Padre. Il deserto è simbolo
dell’incompiutezza; è il tempo della prova: "Il Signore vi mette alla
prova per sapere se veramente amate il Signore vostro Dio con tutto il vostro
cuore e con tutta la vostra anima". E’ il luogo dell’ascolto di Dio,
della sua parola, quella parola che deve nutrire più e meglio del pane: non di
solo pane hanno bisogno anche gli uomini e le donne di oggi. In alcune nazioni
ve n’è fin troppo; in altre manca del tutto.
In molte congregazioni da
un po’ di anni a questa parte, è possibile scegliere un periodo denominato
"di deserto". Di silenzio, di isolamento e solitudine. Alcune hanno
ideato luoghi di eremitaggio. E può diventare opportunità di inventiva e di
saggezza nuova, meglio incarnata nella realtà, purché vi si acceda come Gesù,
pieni di Spirito Santo e purché ci si lasci condurre da lui.
Scrive Richard Aldington
in Ritiro:
Sia un po’ di silenzio
qualche volta,
lontano dal tumulto della vita,
dal furore della lotta…
Sia riposo,
che gli occhi stanchi abbiano
alleviata la loro fatica…
Sia pace,
per un tratto non si levi frastuono…
non fragore…
Ci sia dato di pulirci
del sudore,
di tacere, di respirare.
Allora sarà possibile, o
più agevole, aprirsi alla novità di Dio. Anche perché potrebbe succedere quel
che è successo con Gesù; dopo la vittoria sulle seduzioni del tentatore, gli
angeli vennero a servirlo: "Era con le fiere e gli angeli lo
servivano"; o dopo l’accettazione della volontà del Padre nella
angosciante solitudine dell’orto degli ulivi; scrive ancora Luca: "Gli
apparve un angelo del cielo per confortarlo".
Il conforto di un
‘angelo’ è sempre possibile: di una guida, o una persona amica; ma
soprattutto la quiete della coscienza. Quella che potrebbe anche farci dire:
"siamo servi inutili", perché abbiamo fatto tutto quello che era
nelle nostre possibilità.
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