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«Se io credo fermamente che attorno a me tutto è
Corpo e il Sangue del Verbo, allora per me avviene la meravigliosa
Diafanità che fa obiettivamente trasparire, nella profondità di ogni
fatto e di ogni elemento, il calore luminoso di una medesima Vita»1
Nella profondità di ogni corpo c’è dunque il calore
luminoso della medesima Vita. Quella Vita che non ha voluto separarsi
dal mio, dal tuo corpo, ma è il mio, il tuo corpo. Dove “mio e tuo” non
esprimono possesso, ma qualcosa di cui ognuno è depositario e custode.
Incredibile paradosso: riflettere sul corpo, quello stesso e
insostituibile soggetto che ci permette in questo momento di farlo
oggetto di riflessione.
Il cristianesimo è tutto fondato sul corpo che
Cristo ha assunto: è la religione del Logos incarnato, della Parola che
si fa uomo2.
Dunque non abbiamo motivi fondati per guardare al corpo, alla sua
bellezza, ma anche alla sua evidente caducità, con sospetto,
sopportandolo o demonizzandolo. Il Concilio Vaticano II lo sottolinea
con forza: «Non è lecito all’uomo disprezzare la vita corporale; egli è
anzi tenuto a considerare buono e degno di onore il proprio corpo» (GS
14).
Terra e soffio
Tra disprezzo ed esaltazione, oscillando tra
questi due poli, il cristianesimo è spesso approdato a una dicotomia tra
corpo e spirito. Una dicotomia che ha diverse radici: più che evidente
il retaggio della metafisica greca, alla quale la tradizione non si è
ridotta (dichiarando eretica la sua visione manichea), ma da cui resterà
segnata. Il primato dell’anima sul corpo in una tale visione, e il suo
influsso sul cristianesimo, ha quasi portato a pensare che, considerata
la stretta relazione tra anima e corpo, esso metta in pericolo la
salvezza, per cui la strada è la mortificazione del corpo. Non meno
incisiva l’influenza della visione cartesiana, che promuove un modo
disincantato, meccanico e funzionale di guardare al corpo privo di
qualsiasi essenza spirituale, di ogni dimensione espressiva3
.
Ma i cristiani conoscono un altro linguaggio:
quello biblico, dove il corpo è frutto di incontro dinamico tra la terra
e il soffio vitale di Dio: «Terra e soffio sono indissolubilmente uniti
e insieme in tensione, perchè lo Spirito ha bisogno della carne per
esprimersi e la carne, il corpo, senza il soffio vitale non potrebbe
trascendersi»4.
Ognuno di noi la sente viva sulla propria pelle
questa realtà. Quando la sete dell’infinito si fa spazio dentro di sé,
allora avverte che il proprio corpo danza con una grandezza che lo
supera e straordinariamente lo abita.
I tentativi di fuga dal corpo o una sua
sacralizzazione ci portano in una visione conflittuale: «Ogni
affermazione esclusiva di una componente dell’essere umano a scapito
dell’altra finisce per misconoscere la vera natura della persona umana e
va contro la sua autentica realizzazione»5.
L’icona della Scrittura è eloquente e ci indica un
percorso alternativo: «Dio vide che l’uomo era molto bello» (cf Gn
1,31). L’uomo e la donna sono nella Bibbia espressione della libertà e
dell’armonia (è questo il senso della nudità vissuta senza vergogna) che
vengono da Dio, e come esseri relazionali sono aperti alle cose, agli
altri e all’Altro.
La loro libertà sta anche però nel poter rifiutare
di vivere la relazione filiale con Dio; l’armonia iniziale è possibile
in quanto Dio è Dio, e l’uomo è uomo; esiste cioè una gerarchia delle
verità relazionali: Creatore e creatura si accettano con delicatezza e
fiducia.
E’ vero, la vita stessa dell’uomo, il suo futuro
rapporto con gli altri, sono legati a una realtà fragile e vulnerabile
come il corpo, una sorta di vulnerabilità però che l’uomo può vivere
meno tragicamente, nella relazione fondante con Dio, nel suo amore. Nel
racconto biblico del peccato originale l’uomo tende la mano per
afferrare il frutto sperando di diventare come Dio e lì si accorge di
essere nudo (cf Gen 3,7,10).
Una nudità che prima esprimeva armonia e ora
esprime il suo essere allo sbaraglio, fallito e illuso. La sua ricerca
della verità l’ha portato “altrove”, non si sente più a suo agio: «ho
avuto paura perché sono nudo» (Gen 3,10). Il peccato rende l’uomo in
esilio dalla verità, ripiegato e ferito. Ciò lo rende ancor più pauroso
e convinto di salvare la propria vita stringendola in un pugno. Il
peccato dunque riguarda il mondo dell’amore, dunque l’uomo nella sua
totalità6.
Ed è l’amore eterno di Dio che però supera la
tragedia e rende possibile il re-incontro. Sarà un amore che per tutta
risposta si fa corpo in Gesù di Nazaret. Un amore, personale, che va
alla ricerca, e nella folla anonima sa individuare il corpo ferito e
ripiegato: come successe per la donna incurvata nella adunanza della
sinagoga (cf Lc 8,42-48).
Un tesoro in vasi di creta
Cosa può chiedere dunque all’uomo nella sua
totalità un progetto di amore incondizionato? Acrobazie ascetiche e
disumanizzanti, disprezzo del corpo come possibilità di riscatto e di
purificazione?
Esistono diversità di cammini, la storia della
spiritualità ci offre una molteplicità di modelli in corrispondenza con
specifiche situazioni della storia, delle culture, e degli stati di
vita. Dipende poi dal nostro orizzonte di comprensione, dalle paure,
dalle proiezioni che ci portiamo dentro, capire quale Dio pensiamo di
aver incontrato.
Quando parliamo di Dio come agape (cf 1Gv 4,8) non
diamo una definizione metafisica, ma diciamo che cosa è per noi. Siamo
nell’esperienza religiosa fondata sulla rivelazione biblica, dove il
luogo dell’incontro con Dio non è l’uomo nell’altezza del suo desiderio,
ma Dio nella condiscendenza del suo amore e l’uomo nell’obbedienza a
quest’amore7.
In questa dinamica il corpo è insostituibile perché
non si può invitare il cuore ad esprimersi senza di esso: se piango di
gioia o di dolore le lacrime rigano il mio volto; se corro per
incontrare chi amo, le mie gambe sono indispensabili. Il calore di un
abbraccio, la desolazione di un abbandono, la tragedia di una malattia,
nulla di questo è vivibile estraniandosi dal corpo.
Quando avverto il bisogno di pregare, il mio corpo
assume posizioni diverse a seconda che sia una lode, una supplica, una
richiesta o un pentimento. «Il corpo mi definisce, mi limita. E’ sempre
al centro del mio orizzonte di azione e di pensiero; tuttavia percepisco
che mi mette in contatto con ciò che è oltre»8.
Se il mio corpo è consumato dal dolore è esso
stesso supplica, accoglienza, richiesta. Ho ascoltato il racconto di una
donna che è stata vicina al padre per un pò di tempo negli ultimi mesi
della sua vita. Mi ha parlato di suo padre e del suo corpo che diventava
sempre più fragile, e gli occhi avevano una luce sempre più forte.
«Le sue mani sempre lunghe e affusolate, ora
chiedevano tenerezza», – mi diceva - «voleva sempre che qualcuno lo
abbracciasse, forse per lenire il suo dolore, o perché aveva bisogno di
un amore forte, che ti fa sentire accompagnata quando stai per fare
l’ultimo viaggio». Ma quello che mi ha fatto riflettere di più di questo
racconto era l’insistenza della donna nel dire che questa esperienza
l’aveva profondamente umanizzata, cioè maturata nell’amore, l’aveva
fatta andare avanti nella scoperta del senso autentico e della verità
sulla vita.
«E’ stato molto difficile vedere mio padre
ridiventare bambino, ogni giorno si affidava alle nostre cure. Più di
tutto era difficile accettare il suo dolore fisico, assistere alla
decomposizione di parti del suo corpo. Ma era fonte di grande stupore
vederlo ancora sorridere, sentirlo ringraziare per le attenzioni
ricevute, e vederlo ancora tanto innamorato della vita. Mio padre», -
ripeteva la donna nel suo racconto – «mi aveva fatto rileggere con occhi
diversi le parole dell’apostolo Paolo, nella seconda lettera ai Corinzi.
«Però noi abbiamo questo in vasi di creta. Siamo tribolati da ogni parte
ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati, perseguitati ma
non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel
nostro corpo la morte di Gesù, perchè anche la vita di Gesù si manifesti
nel nostro corpo» (2Cor 4,7-10). Mio padre accompagnato, debole,
accudito in tutto, mi aveva fatto approdare altrove: oltre».
C’è un “oltre “ che è già in noi e si risveglia.
Perché la compassione di Dio lo ha avvolto del suo alito di vita dalle
origini (cf Gen 2,7): allora camminare, per il cristiano, è anche
permettere a quel soffio iniziale di diventare visibile. E’ fare
esperienza di questa progressiva penetrazione del suo amore, nello
Spirito santo, fino alla maturità in Cristo. «L’uomo è creato per essere
divinizzato nell’amore di Dio rimanendo perfettamente uomo. L’uomo si
divinizza umanizzandosi a misura di Cristo; è la Divino-umanità di
Cristo l’ambito della maturazione dell’amore umano verso quello divino»9.
Un tale dinamismo è visibile anche nel corpo. Chi
di noi non è rimasto affascinato dagli occhi, dal volto, dai gesti di
tanta gente che ama nel silenzio e nella dedizione gli altri. Ci si
sente quasi illuminati e attratti dalla luce che irradiano e ci
accorgiamo che non è una luce che viene dagli ultimi prodotti
pubblicizzati dai media, contro le rughe, è altro: è la tenerezza della
carità, frutto di opere concrete, bagliore incorporeo ed eterno!
Lavorare con frutto
Ci sono tanti momenti nel cammino dell’esistenza in
cui faremmo volentieri a meno delle fatiche che la storia ci riserva. E
questo più di ogni altra cosa ci sembra legato al corpo, perché è
l’elemento più visibile della struttura della persona (fatta anche di
Spirito e anima)10.
Lo avvertiva san Paolo quando diceva: «Per me il vivere è Cristo e il
morire è un guadagno» (Fil 1,21). Ma intuiva che, nonostante il
travaglio, vivere nel corpo significa lavorare con frutto, e allora
aggiungeva: «Non so cosa debba scegliere» (Fil 1,22). Lavorare con
frutto, cioè amare in modo fecondo, vivere nella propria carne la
richiesta che mi viene dall’altro e com-prenderla: prenderla con me, su
di me.
«L’agape non è incontro di pure coscienze, ma
movimento che colma un’indigenza, che rimargina ferite e suscita
iniziative, che sazia la fame di pane e di poesia, di compagnia e
contemplazione. Proprio nel venire incontro all’altro scopro il valore
della mia povertà, e l’incontro con l’altro se da una parte spezza
l’immediatezza del rapporto (egocentrico) con me stesso, dall’altra mi
fa da specchio, mi fa trovare in me il povero che Dio ama, il bisogno
che Dio vuole colmare»11.
Andare incontro all’altro, coscienti che la sua
povertà in fondo è anche la nostra, è aiutare a essere sempre più se
stesso, sempre più umano. La Scrittura è esplicita: «Ama il prossimo tuo
come te stesso!» (Lev 19,18; Mc 12,33). Dove certamente amare non
significa mortificare l’umanità, ma semmai amarla finita, con le sue
debolezze e le ferite irrisolte, ma amarla. E qui il cammino è lungo,
pieno di fascino e variegato nelle infinite circostanze della vita.
Lo avvertiva Teilhard de Chardin quando,
impossibilitato a celebrare l’eucarestia, nel deserto scriveva: «Il mio
calice e la mia patena sono le profondità di un’anima ampiamente aperta
alle forze che, tra un’istante, da tutte le parti della Terra, si
eleveranno e convergeranno nello Spirito... Ad uno ad uno, o Signore, li
vedo e li amo... Più confusamente, ma tutti senza eccezione, evoco
coloro la cui folla anonima costituisce la massa innumerevole dei
viventi»12.
Lo stesso autore parla di «simpatia irresistibile
per tutto ciò che si agita nella materia oscura», per indicarci il suo
amore per il mondo. Ci viene da chiederci, se un simile modo di amare
non sia che un raggio della stessa misericordia visibile
nell’Incarnazione, dove Incarnazione significa che Dio fa il suo
ingresso nel mondo, assume la sua quotidianità. Ma Incarnazione
significa pure che gli uomini incontrano Dio nel mondo13.
Un corpo per l’alleanza
«È facile capire che chi decide di intraprendere un
cammino spirituale deve innanzi tutto aver sistemato la propria
condizione materiale: tranquillità economica, amore, equilibrio, ecc.».
Così si legge in un sito di un movimento, a proposito del cammino
spirituale, naturalmente si tratta di qualcosa che nulla ha a che fare
col Vangelo.
Lì camminare spiritualmente significa partire da
una situazione di agiatezza e tranquilità economica, per raggiungere
cosa? L’armonia con se stessi, con la natura, un corpo “bello” che sia
visibilità di tale armonia, abbondantemente nutrito di infusi,
accuratamente massaggiato a prezzi da impaurire. E tante altre cose
apprezzabili, alla portata di chi può permettersele.
C’è solo un particolare da non trascurare, come
dicevamo: questo non è proprio il cammino evangelico. Tristi dogmi di
mercato ci parlano di un corpo “sacralizzato”, reso eternamente giovane
dalle mille cure costose, dominato dalla mania di rimanere sempre in
forma.
E invece l’immagine del Messia è quella di un uomo
davanti al quale ci si copre il volto (cf Is 53,3), tanto il dolore lo
ha sfigurato. Contemplando quel volto, allora ci rendiamo conto che il
senso e il valore della corporeità vanno in un’altra direzione.
Ci fa riflettere la parabola di Matteo sul giudizio
finale: il testo mette in evidenza che nella relazione con Dio è
fondamentale la cura che abbiamo avuto del corpo dell’altro: «Avevo fame
e mi hai dato da mangiare, avevo sete e mi hai dato da bere, ero
prigioniero…» (cf Mt 25,31-46).
In quella scena grandiosa della gloria definitiva
del Figlio dell’uomo, il corpo aiutato, vestito, sfamato, dissetato, la
persona consolata perché vive l’isolamento della prigione, della
malattia, decidono la nostra vicinanza a Dio.
Allora possiamo dire che nel cammino spirituale, il
corpo - noi stessi cioè, come “persone” in senso totale - è sacramento
della salvezza: infatti senza il corpo non sarebbe possibile rendere
visibile la salvezza (si pensi alla bellezza e alla tangibilità dei
Sacramenti). Dove salvare significa manifestare la presenza di Dio
guarendo il corpo insieme al cuore e allo spirito14.
E’ evidente che il discorso del “disfarsi” del
corpo per andare verso Dio, in quest’ottica si svuota (nonostante abbia
radici antiche): perché non possiamo incontrare Dio, e di lui fare
esperienza, a prescindere dal corpo.
E’ un periodo in cui vanno tanto di moda i corsi di
meditazione, una sorta di allenamento a diventare più “leggeri” per
meglio raggiungere Dio. Se da una parte sicuramente c’è il richiamo e
l’esigenza di valori profondi, dall’altra c’è il rischio di convincersi
che più un’esperienza è neutralizzante rispetto al corpo, più si è
avanti nel cammino spirituale. E poi, magari, se mentre si fa questo
corso, l’operaio che fa i lavori al palazzo del convegno bussa perché
qualcuno gli apra la finestra, il relatore si infuria: «meglio sarebbe
farlo cascare giù o lasciarlo fuori a soffrire il freddo anziché
rovinare l’ atmosfera».
Aiutami, baciami,
profumami
Pensiamo invece all’episodio dell’unzione di
Betania (cf Gv 12,1-8): una donna - non importa se peccatrice o meno, ma
probabilmente senza inibizioni - versa un profumo, a quei tempi
costosissimo, il myron, sui piedi di Gesù e li asciuga con i suoi
capelli. Il Signore non acconsente alle proteste sociali di chi vede in
questo gesto un’esagerata generosità, uno spreco; ma invita a riflettere
sulla qualità delle relazioni personali.
Nessuno di noi è uguale a un altro, niente passa
attraverso le generalizzazioni dei bisogni a cui siamo abituati. Il
profumo versato totalmente (il vasetto viene “rotto”, secondo Marco 14,
3) e asciugato dai capelli di una donna sul corpo di Gesù - Lui il vero
tesoro per i credenti - ci dice che i gesti di comunicazione intensa,
sono parola eloquente di ciò che abita nel nostro cuore.
Il corpo di Gesù che si lascia profumare e
accarezzare da questa donna ci mette davanti alla bellezza e al dramma
del Dio dei cristiani, il quale divenne in tutto simile agli uomini. Un
Dio che in Gesù di Nazaret ci invita non a metterci in fuga dalla
storia, ma ad essere teneri con lui, e vicini ai crocifissi della
storia, anche attraverso ciò che a volte può apparire superfluo e
inutile, come un profumo.
L’episodio è narrato anche da Luca 7,36-50: il
contesto è diverso, ma il corpo gioca un ruolo fondamentale anche in
questo episodio evangelico. Lacrime, profumo, baci e capelli di una
donna accarezzano i piedi del Signore per dirgli: sei colui di cui non
posso fare a meno, salvami. In questo contesto del corpo del fariseo non
si dice nulla, si ode solo la sua voce che insinua disprezzo e chiede
spiegazioni.
A lui Gesù, tramite una parabola, gli indica la
gestualità di questa donna come espressione massima del desiderio di
comunione con lui, di perdono: è l’esperienza del cammino spirituale. Al
fariseo falsamente pudico Egli indica la strada: «Tu non mi hai dato un
bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i
piedi» (v. 45). E aggiunge: «Per questo ti dico le sono perdonati i suoi
molti peccati perché ha molto amato, invece quello a cui si perdona poco
ama poco» (v. 47).
A volte la paura e l’eccessiva cura dell’apparenza
giocano brutti scherzi. Siamo come quel fariseo pronti a invitare a
pranzo rispettando il rituale e prendendoci cura di tutto, tranne che
della persona invitata. Magari le offriamo tante specialità, ma il
nostro cuore è altrove. C’è invece chi, come quella donna tanto
discussa, intuisce che le mani, i capelli, le labbra mediano in modo
totalizzante il desiderio di amare e di essere amati, perdonati,
salvati: e si mette in cammino, col profumo in mano. E lo sparge tutto,
senza calcoli, per amore.
La tua catena d’oro
L’immagine di una donna che si mette in cammino con
un profumo in mano, simbolo di premura, di tenerezza e coraggio, è
esplicativa per il nostro tema. Visibilizza l’urgenza di uscire dalla
massa, per entrare in contatto personale con il Signore, un contatto
diverso, originale, ardito, per essere da lui salvati e trasfigurati.
Tra lo splendore dell’eternità e l’apparente grigio
delle nostre storie quotidiane, si traccia la strada dell’incontro
finale. Siamo invitati a rendere visibile la divina tenerezza che Egli
ha soffiato dentro di noi. «La divina tenerezza è carnale, riguarda il
corpo. Non si preoccupa di esortare o spiegare. Sta nelle mani, nello
sguardo, sulle labbra, l’orecchio attento, il viso, il corpo intero.
Essa è presenza, è ospitalità, è parola scambiata. E’ compassione. E’ il
riserbo stesso»15.
Siamo invitati a metterci in viaggio, lasciandoci
dietro la volontà di vincere sempre, di umiliare, di emarginare.
Lasciando che sia l’altro a scuoterci, invocando il profumo della
carità, gratuito, pieno di tenerezza. Una carità che colorerà le nostre
giornate cariche di impegni, spesso prive di volti, di mani, di fratelli
che attendono.
Una carità che ci condurrà alla luce del giorno e
alla pace della notte, come cantano questi versi di G.K. Gibran:
Fratello,
la bontà d’animo che ti spinge a donare
parte della tua vita
a un qualsiasi essere umano
che sta perdendo la propria vita,
è la sola virtù che ti renda degno
della luce del giorno
e della pace della notte...
Ricorda, fratello,
la moneta che deponi nella mano vizza
che si tende verso di te
è la sola catena d’oro
che unisce il tuo ricco cuore
al cuore amoroso di Dio16.
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