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Educarsi/educare alla
pietà popolare
Come la risposta a che cos’è la pietà popolare si
chiarisce alla luce della liturgia, così l’educazione alla pietà
popolare si declina sull’educazione alla liturgia. E’ difficile
ipotizzare un percorso che divida i due ambiti, pena condannare la vita
spirituale in una dicotomia.
Nel dire che la pietà popolare serve a disporre
alla celebrazione liturgica e a prolungarla, bisogna anche domandarsi:
quale pietà popolare?, evitando di fare di ogni erba un fascio. Non
qualsiasi forma di pietà aiuta a prepararsi e a interiorizzare quanto
liturgicamente celebrato in un dato giorno o tempo: ad esempio, la Via
Crucis «è un esercizio di pietà particolarmente adatto al tempo di
Quaresima»1,
come la Via Matris2;
invece la Via Lucis3
è congruente con il tempo pasquale e la domenica.
Da qui il compito di accordare la pietà popolare
con la liturgia, evitando di percorrere due direzioni che non possono
armonizzarsi nella vita spirituale perché proposte in disarmonia tra di
loro.
Tra passato e presente
Se nell’antichità la preghiera liturgica (specie
monastica) contemplava tempi e luoghi per l’orazione silenziosa, tale
spazio si è progressivamente organizzato in un momento di preghiera
comune (ne è esempio la colletta salmica, a conclusione dei Salmi
dell’Ufficio divino), fino a trovare quindi una “propria” espressione,
fioritura e organizzazione al di fuori della stessa liturgia.
Conosciamo come e perché nel Medioevo sorgano
preghiere sostitutive, alternative, parallele, alle celebrazioni
liturgiche: la gente si sente a suo agio pregando e cantando in lingua
volgare, secondo modalità più vicine e facili da seguire, derivate in
qualche modo dalle liturgie officiate in latino dal clero. Tali forme di
pietà non nascono con l’idea di sostituire la celebrazione liturgica,
anche se ciò è accaduto di fatto: la fede, la preghiera, la carità della
gente trovano espressione piuttosto attraverso la pietà popolare che la
liturgia, peraltro mai disertata: è di precetto assistere alla Messa
domenicale.
Occorre fare attenzione nell’evitare
semplificazioni consistenti, ieri come oggi, nell’apprezzare una parte
per svalutare l’altra4.
Nel dire che nel Medioevo la liturgia era tutta negativa, mentre la
pietà popolare tutta positiva, si asseconda una concezione che vede la
liturgia come esteriorità e la pietà popolare come interiorità. Il
rischio del materialismo e del ritualismo intaccava e intacca la
preghiera liturgica come la pietà popolare. L’oggetto dell’autentica
educazione resta, in ogni epoca, aiutare i cristiani a comprendere
anzitutto che cosa significa pregare, prima del come fare.
L’istanza avvertita oggi – qui deve misurarsi
l’opera educativa - è trovare sapientemente la strada per sciogliere i
nodi che, nel corso dei secoli, si sono aggrovigliati attorno alla
tradizione della preghiera cristiana. Due forme parallele di culto? O
piuttosto invece, due modi distinti e legittimi di culto, l’uno
prioritario e l’altro subordinato? l’uno autorevolmente normato e
l’altro lasciato a maggiore creatività?
Esemplifichiamo. Ci sono forme di pietà popolare
come il pellegrinaggio a un santuario che non suscitano in genere
contrapposizioni con la liturgia: gesti e preghiere di devozione
dispongono e fanno eco alle celebrazioni liturgiche - l’Eucaristia, la
Penitenza, - che sono avvertite come il centro dell'esperienza
spirituale dei pellegrini.
Ci sono forme che, invece, creano imbarazzo: come
conciliare la novena (mese) di san Giuseppe col tempo quaresimale? e il
mese di maggio col tempo pasquale? Pratiche sorte in tempi in cui la
liturgia non era partecipata appieno si scontrano oggi con la priorità
della celebrazione liturgica; in effetti, si muovono su piani di non
immediato incontro oggettivo. Risolvere la tensione escludendo una delle
due istanze non giova. Risolvere il problema “mescolando” le cose è
soltanto una falsa via di uscita. Qui sta la sfida che l’educazione deve
raccogliere. Rimuovere la questione dicendo che l’importante è che la
gente “preghi” è una possibilità: ma certo non è educare secondo
Sacrosanctum Concilium 13, esplicitato nel Direttorio.
Ancora, ci sono esercizi di pietà sorti come
alternativi, per i laici, all’Ufficio divino riservato al clero e ai
monaci: ad esempio la recita di 150 Padre nostro o Ave Maria (Rosario)
al posto dei 150 Salmi; conosciamo che cosa ha significato il Rosario
per generazioni di cristiani, per la tradizione spirituale di Istituti
religiosi e di movimenti laicali (ancora oggi)5.
Riscoprire la Liturgia delle Ore vuol dire allora abbandonare pratiche
sorte in sostituzione di quella? Adottata la preghiera del Vespro in una
comunità religiosa non obbligata ad essa, ha ancora senso un pio
esercizio ereditato da tempi in cui “pregare comunitariamente”
corrispondeva a compiere le pie preghiere indicate dal
Fondatore/Fondatrice e le pratiche prescritte dalla Regola? E se ha
ancora valore, dato che non è più inteso come sostitutivo di ciò che
ormai si fa, qual è allora il senso?
La problematica si può riassumere nella domanda:
chi partecipa alla liturgia (Eucaristia, Sacramenti, Liturgia delle Ore
ecc.) ha ancora bisogno di altre forme di preghiera, pii esercizi,
devozioni? Ossia, basta la sola azione liturgica a sostenere una vita
spirituale, oppure la pietà popolare ha la sua parte da svolgere? Come
nutrire la fede oltre la Messa della domenica?
Ecco quanto osserva il Direttorio:
«Nel nostro tempo il tema del rapporto tra
liturgia e pietà popolare va guardato soprattutto alla luce delle
direttive impartite dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, le quali
sono ordinate alla ricerca di un rapporto armonico tra ambedue le
espressioni di pietà, in cui tuttavia la seconda sia oggettivamente
subordinata e finalizzata alla prima. Ciò significa che bisogna
anzitutto evitare di porre la questione del rapporto tra liturgia e
pietà popolare in termini di opposizione, come pure di equiparazione o
di sostituzione. Infatti la coscienza dell’importanza primordiale della
liturgia e la ricerca delle sue più genuine espressioni non devono
condurre a trascurare la realtà della pietà popolare e tanto meno a
disprezzarla o a ritenerla superflua o addirittura dannosa per la vita
cultuale della Chiesa» (n. 50).
La preghiera non si
esaurisce nella celebrazione liturgica
Nel contesto dei nn. 10-13 di Sacrosanctum
Concilium (vedi sopra), l’educazione alla pietà popolare ha la funzione
di formare a coltivare quella “vita spirituale” che permette di farsi
coinvolgere con frutto nell’effusione dello Spirito di Cristo operante
nella celebrazione liturgica. Quale culmen, alla liturgia occorre
disporsi e giungervi con le necessarie disposizioni interiori. Quale
fons, la celebrazione liturgica domanda a chi vi partecipa un prosieguo
nel custodire e interiorizzare i misteri celebrati, affinché possano
trasfondersi nella vita.
In questo movimento di accesso alla celebrazione
liturgica e di congedo da essa in vista del prossimo accesso, trova il
“suo” posto la pietà popolare (preghiera privata o comunitaria, pii
esercizi, devozioni, pratiche ascetiche, silenzio, raccoglimento,
orazione meditativa, ecc.).
Del resto, i temi cari alla pietà popolare
(devozione all’infanzia e passione di Gesù, alla Vergine Maria, agli
Angeli e ai Santi, i suffragi per i defunti) hanno il loro originale
alveo dentro la celebrazione liturgica: la radice da cui sono fioriti e
si sono ramificati gesti e pratiche devozionali è, al fine, la
celebrazione liturgica. Questa è il punto insopprimibile di partenza e
di approdo. La riprova sta nel trovare il massimo di concentrazione di
forme di pietà popolare attorno alle festività liturgiche della Pasqua e
del Natale.
Riscoprire e promuovere la liturgia porta a
eliminare la pietà popolare? Una certa pietà popolare sì, quando è
positivamente contrapposta o in concorrenza con la liturgia6.
Certo, il verbo “eliminare” è esclusivista e non rende ragione della
complessità del concreto7:
orientare, ridimensionare, possono risultare verbi più consoni, nella
linea segnalata dallo stesso Direttorio: «I movimenti di rinnovamento
liturgico e l’accrescimento del senso liturgico nei fedeli danno luogo
ad un ridimensionamento della pietà popolare nei confronti della
liturgia. Ciò si deve ritenere un fatto positivo, conforme
all’orientamento più profondo della pietà cristiana» (n. 49).
Si deve tuttavia considerare anche la negatività di
una promozione “forzata” della liturgia, a discapito di altre forme
tradizionali di preghiera: proporre la Messa in ogni occasione di tridui
e novene, tradizionalmente legate a forme di pietà popolare, è davvero
indice di riscoperta della centralità della preghiera liturgica? Bisogna
dire di no. Il rischio del “solo Messa”, come spesso avviene, non giova
né alla liturgia né alla pietà popolare. L’educazione alla preghiera
passa anche attraverso proposte diversificate e diverse dalla liturgia.
Tra i Vespri dei giorni di Avvento o la novena
dell’Immaco-lata, oggettivamente la precedenza è da accordare alla
preghiera liturgica. Tuttavia non può sfuggire la “storicità” di chi
conviene a pregare: potrebbe darsi che, in una data comunità, la pratica
della tradizionale novena aiuti meglio dei Vespri a toccare i cuori.
Dico questo per evitare le generalizzazioni che, alla fine, risultano
diseducative. Quando si tratta di riunione di preghiera (nel pregare
individualmente si capisce che la questione è un po’ diversa) la strada
è quella di ridurre, appunto con la catechesi e la formazione, la
tensione dell’aut aut8.
Non di meno occorre notare che educare significa
anche lasciar perdere qualcosa: ciò che è di fatto incompatibile,
fuorviante, così parziale da non portare mai al cuore dell’esperienza
cultuale della Chiesa, che è la liturgia. Se una devozione o un pio
esercizio non conducono alla celebrazione del mistero di Cristo, anzi lo
scosta da questa, ritenendo sufficiente quella, è evidentemente da
auspicarne la scomparsa… Penso a quanti, in occasione di feste
patronali, ripetono scrupolosamente pratiche di pietà ereditate da
secoli, le quali segnano per essi l’inizio e anche la fine di una “pietà
cristiana” che fa a meno della partecipazione ai Sacramenti.
La giusta riscoperta della Liturgia delle Ore non
può coincidere con l’unico indirizzo educativo, per tutti, di pregare
mattino e sera le Lodi e i Vespri. Ciò è facile in una comunità
religiosa, in un seminario, per i fedeli che hanno disponibilità di
recarsi in chiesa e dimestichezza con il libro della Liturgia delle Ore.
Ma per chi non rientra in queste categorie, ha orari e impegni da
rispettare, non c’è altro da raccomandare in fatto di preghiera
quotidiana? Ecco il posto di momenti di preghiera (la visita al
Santissimo, una parte del Rosario, la meditazione di un passo del
Vangelo, il pio esercizio della Via Crucis il venerdì, ecc.), che non
sono un’alternativa paritetica alla preghiera liturgica, ma un reale e
facile aiuto a coltivare una vita spiritualmente significativa. Una
delle carte vincenti della diffusione della pietà popolare è senza
dubbio la facilità dei modi: si pensi alle formule ripetute a memoria,
senza necessità di ricorrere a uno o più libri per pregare.
L’ottica autenticamente educativa vede le cose per
quel che sono, tiene i piedi per terra, punta all’armonia della vita
spirituale. L’educazione alla liturgia non esclude l’educazione alla
pietà popolare; anzi, la richiede. In questa linea è da segnalare il n.
59 del Direttorio, titolato appunto l’importanza della formazione:
«Alla luce di quanto richiamato, la via per
risolvere motivi di squilibrio o di tensione tra liturgia e pietà
popolare è quella della formazione, sia del clero che dei laici. Insieme
alla necessaria formazione liturgica, opera di lungo respiro, sempre da
riscoprire e approfondire, a complemento di essa e in vista di una
spiritualità armonica e ricca, si impone anche la formazione alla pietà
popolare.
Infatti, poiché “la vita spirituale non si
esaurisce nella partecipazione alla sola liturgia” (SC 12), il limitarsi
esclusivamente all’educazione liturgica non soddisfa ogni ambito di
accompagnamento e di crescita spirituale. Del resto, l’azione liturgica,
specie la partecipazione all’Eucaristia, non può permeare un vissuto dal
quale è assente la preghiera individuale e sono carenti i valori
veicolati dalle tradizionali forme di devozione del popolo cristiano. Il
rivolgersi odierno a pratiche “religiose” di provenienza orientale,
variamente rielaborate, è indice di una ricerca di spiritualità
dell’esistere, del soffrire, del condividere. Le generazioni
post-conciliari – a seconda dei paesi – non hanno l’esperienza delle
forme di devozione che avevano le generazioni precedenti: ecco perché,
la catechesi e l’azione educativa non possono trascurare, nella proposta
di una spiritualità vissuta, il riferimento al patrimonio rappresentato
dalla pietà popolare, in modo speciale dai pii esercizi raccomandati dal
Magistero».
Educare la pietà popolare
Non solamente le persone sono destinatarie di
accompagnamento educativo, ma anche lo stesso “deposito” della pietà
popolare, rappresentato da formule, preghiere, pratiche, sussidi,
devozioni, canti, gesti, immagini, ecc. Non pochi esercizi di pietà sono
sorti con un motivo particolare e specifiche modalità, il mutamento dei
quali – altro contesto, luogo, tempo – li ha rivestiti di un diverso
spessore9.
Spesso sono proprio le “formule”, il loro vocabolario, i modi e i tempi,
che favoriscono od ostacolano l’armonia con la liturgia.
Valorizzazione e
rinnovamento
Sappiamo come sovente sia un “tipo” di sussidio
per la Via Crucis, il Rosario, una data devozione, ad avere
concretamente influsso sulla loro pratica. Sussidi che ripropongono
testi e preghiere – raccolta di ogni “genere” di orazioni, devozioni,
novene – come se con il rinnovamento liturgico non fosse avvenuto nulla
nel popolo cristiano, come se la Sacra Scrittura non esistesse, come se
l’anno liturgico fosse un optional e non una guida per la vita
spirituale di tutti e ciascuno nella Chiesa… lasciano perplessi e
invocano un’azione educativa che è probabilmente trascurata10.
Compito degli Istituti religiosi è certo quello di favorire la revisione
e l’aggiornamento di devozioni e pratiche di pietà che hanno esplicito
riferimento alla spiritualità da essi vissuta e proposta: sforzi in tale
senso ne sono stati fatti in questi anni e di significativi, anche se
non mancano ritardi o resistenze.
Si ha l’impressione che nella catechesi – nelle sue
varie fasi – abbiano praticamente ancora scarso rilievo le tradizionali
forme di pietà popolare11,
lasciate comunemente alla trasmissione da un fedele all’altro, alla
frequentazione di associazioni, confraternite12,
gruppi. Questi sono “luoghi” per educare sapientemente alla pietà
popolare. Uno degli intenti del Direttorio è certamente di educare a
“pregare” mediante la pietà popolare: sono numerose le precisazioni e i
suggerimenti disseminati nella parte II del Direttorio, a proposito
dell’armonizzazione con la liturgia dell’una o l’altra espressione di
pietà e devozione.
Educare la pietà popolare significa aiutarla ad
esprimere e custodire i preziosi e innumerevoli valori che possiede13,
tenendo presente nel contempo anche i suoi limiti, che sono di duplice
segno. Ci sono dei limiti “positivi”, ossia lo stile semplice, il dire
per accenti il mistero cristiano senza pretesa di interezza, ecc., che
sono da conservare nella pietà popolare, pena la trasformazione in ciò
che non è, la confusione di funzioni, lo snaturamento di essa. Ci sono
poi dei limiti “negativi”, che invece è chiamata a superare, quali lo
scarso riferimento alla Scrittura, l’impercettibilità della fede
cattolica, l’esaurirsi in se stessa senza disporre alla liturgia,
l’autonormarsi senza armonizzarsi con la preghiera liturgica.
Alla luce della riforma conciliare della liturgia,
il rinnovamento della pietà popolare matura nel recepire l’afflato
biblico, liturgico, ecumenico, antropologico14.
Poiché il rinnovamento si vede dal “visibile” e dall’”udibile”, la sua
presenza si riflette nei testi e nelle formule di devozione15,
nei canti16,
nelle immagini impiegate17.
A livello di contenuti, il rinnovamento implica di rafforzare il
riferimento al Dio di Gesù Cristo, alla Trinità, all’azione dello
Spirito, al sentire con la Chiesa, alla Rivelazione custodita nella
Sacra Scrittura, all’armonia con la liturgia e il suo primato, al
rispetto e risalto dei valori, autenticamente tradizionali e culturali
di un dato popolo18.
Di conseguenza, l’evangelizzazione e la
purificazione della pietà popolare, sono reciprocamente implicate.
Evangelizzare la pietà popolare significa porla in esplicito contatto
con il Vangelo, favorendone l’accoglimento visibile, udibile,
testimoniato. Nella misura in cui è accolta, la “novità” evangelica
opera inevitabilmente la purificazione da ambiguità ereditate da
credenze pre-cristiane, religiosità cosmico-naturalistica, concezione
pscicologica e ritualità utilitaristica nel rapporto con Dio19.
Alla luce della liturgia
I tre verbi indicati da Sacrosanctum Concilium 13
per i pii esercizi: – siano in armonia con la liturgia, derivino in
qualche modo da essa, conducano ad essa – tracciano delle linee anche
per educare l’espressione e la visibilità della pietà popolare, i suoi
contenuti, formulazioni, modi e tempi di svolgimento. Eloquente è la
scelta del Direttorio di aver primariamente adottato l’Anno liturgico
come criterio per menzionare le più diffuse forme di pietà del popolo
cristiano: una scelta dovuta al fatto che esse sono sorte attorno a
giorni e tempi “liturgici”.
La volontà del Concilio di aprire ai fedeli con
maggior abbondanza i tesori della Sacra Scrittura (cf SC 35), stimola e
guida nell’educare in tal senso anche la pietà popolare. «Essendo
improponibile una preghiera cristiana senza riferimento diretto o
indiretto alla pagina biblica»20,
la pietà popolare dev’essere educata a sostenersi respirando l’ossigeno
della Rivelazione. Alcuni pii esercizi di collaudata tradizione e
diffusione sono sostanzialmente radicati nelle pagine del Vangelo
(Angelus Domini, Rosario, Via Crucis). Non si tratta di sottrarre
semplicità e facilità alla pietà popolare, infarcendola di lunghi testi
biblici, quanto di promuovere la consapevolezza che il contesto
necessario della preghiera cristiana è offerto dalla Sacra Scrittura21.
Non si tratta di trasformare in celebrazioni della Parola i pii
esercizi, quanto di ispirarsi al modello della liturgia, consapevoli che
«poiché alle espressioni della pietà popolare si riconosce una legittima
varietà di disegno e di articolazione, non è certo necessario che in
esse la disposizione delle pericopi bibliche ricalchi in tutto le
strutture rituali con cui la liturgia proclama la Parola di Dio»22.
Un esempio per intenderci: un testo di Via Crucis in cui sono i passi
evangelici del Passione del Signore a suscitare la meditazione e la
preghiera, è preferibile rispetto ad uno in cui sono i sentimenti umani
a fare da motore.
Lo spirito che ha rinnovato la liturgia deve
informare, analogamente, la pietà popolare. La partecipazione piena,
consapevole e attiva desiderata per le celebrazioni liturgiche (cf SC
14) è di per sé connaturale alle forme di devozione popolare, dove
gesti, parole e canto esprimono l’anima di un popolo. Tuttavia, è un
rischio concreto quello di vedere una manifestazione di pietà popolare,
una volta coinvolgente tutti in prima persona, trasformarsi oggi in una
sorta di spettacolo folkloristico che la gente si appaga di ammirare,
meritandosi il medesimo rimprovero di “muti spettatori” che Pio X
muoveva circa l’assistenza passiva alla liturgia.
Come la partecipazione attiva alle celebrazioni
liturgiche è favorita da acclamazioni, ritornelli, canto di salmi e
cantici, spazi di silenzio, gesti e atteggiamenti del corpo (cf SC 30),
così anche la pietà popolare non dovrebbe mai smarrire il coinvolgimento
diretto che la caratterizza originalmente: è da valorizzare ad esempio
la predilezione della gente per la ripetizione corale di espressioni di
lode o di supplica (formule litaniche derivate da modelli liturgici),
evitando però di scadere nell’abitudine, nella ripetizione meccanica e
nell’esagerazione.
All’incrocio tra liturgia e pietà popolare si
trovano le Benedizioni. Il Benedizionale23
contiene una ricca proposta celebrativa che aiuta a disegnare,
ispirandosi a sequenze derivate dal modello liturgico, momenti di
preghiera che vitalizzino consuetudini e devozioni popolari (benedizione
al mare, a un fiume, a una sorgente, al pane, al vino, all’olio, ecc.),
situazioni di malattia, di dolore, di ringraziamento personale,
familiare e sociale; sono presenti anche riti di benedizione per
immagini sacre, corone del Rosario, oggetti di pietà.
Educare la pietà popolare ad armonizzarsi alla
liturgia, derivare da essa e ad essa condurre, non significa però
commistione né confusione con la celebrazione liturgica. Così il
Direttorio:
«Da una parte, si deve evitare la sovrapposizione,
poiché il linguaggio, il ritmo, l’andamento, gli accenti teologici della
pietà popolare si differenziano dai corrispondenti delle azioni
liturgiche. Similmente, è da superare, dove è il caso, la concorrenza o
la contrapposizione con le azioni liturgiche: va salvaguardata la
precedenza da dare alla domenica, alla solennità, ai tempi e giorni
liturgici. Dall’altra parte, si eviti di apportare modalità di
“celebrazione liturgica” ai pii esercizi, che debbono conservare il loro
stile, la loro semplicità, il proprio linguaggio»24.
In tale ottica, educare la pietà popolare sospinge
a non mutarle i connotati, ma a rispettarli custodendone la natura, i
valori, la funzione, la carismaticità, la semplicità, la spontaneità…
Conclusione
Da quanto esposto finora, si comprende quale sia
il compito di religiosi e religiose al fine di far maturare, nelle loro
comunità prima e quindi nel popolo di Dio, il sapiente rapporto tra
liturgia e pietà popolare. La revisione post-conciliare di Regole e
Costituzioni si è dovuta confrontare, in vario modo, con questa realtà.
La preghiera liturgica sta certo al cuore della vita consacrata al
servizio di Dio e dei fratelli: «Mezzo fondamentale per alimentare
efficacemente la comunione col Signore è senza dubbio la santa liturgia,
in modo speciale la Celebrazione eucaristica e la Liturgia delle Ore»
(Vita consecrata 95); ma ciò non significa trascurare o disprezzare il
ruolo di esercizi e pratiche di pietà ereditate dal passato o fiorite
nel presente.
L’invito è di promuovere il sapiente rinnovamento
di queste pratiche armonizzandole con la liturgia, lasciando perdere gli
elementi caduchi o soggetti all’usura del tempo, così da valorizzare gli
elementi perenni che recano in sé. Già Paolo VI, nell’Esortazione
apostolica Marialis cultus, al n. 24, sottolineando il rinnovamento -
talora la necessaria revisione di forme di pietà mariana - chiamava in
causa anche gli Istituti religiosi: «Ciò dimostra la necessità che le
Conferenze episcopali, le Chiese locali, le famiglie religiose e le
comunità dei fedeli favoriscano una genuina attività creatrice e
procedano, nel medesimo tempo, ad una diligente revisione degli esercizi
di pietà verso la Vergine; revisione che auspichiamo rispettosa della
sana tradizione e aperta ad accogliere le legittime istanze degli uomini
del nostro tempo».
I religiosi non possono esimersi dalla vocazione
di presentarsi ancora oggi come modelli di orazione cristiana (cf VC
38-39). Parlando di tempi, ritmi e modi di preghiera, sant’Agostino
additava gli eremiti come esempio di incessante preghiera:
«Sappiamo che gli eremiti d’Egitto fanno preghiere
frequenti, ma tutte brevissime. Esse sono come rapidi messaggi che
partono all’indirizzo di Dio. Così l’attenzione dello spirito, tanto
necessaria a chi prega, rimane sempre desta e fervida e non si assopisce
per la durata eccessiva dell’orazione… Lungi dunque dalla preghiera ogni
verbosità, ma non si tralasci la supplica insistente, se perdura il
fervore e l’attenzione. Il servirsi di molte parole nella preghiera,
equivale a trattare una cosa necessaria con parole superflue. Il pregare
consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e
devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con
i gemiti che con le parole, più con le lacrime, che con i discorsi»
(Liturgia delle Ore, Ufficio delle letture, lunedì della XXIX
settimana).
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